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lunedì 18 gennaio 2021

Paolo Conte, musica (e parole) per i miei piedi. Tutta la vita

 


"Oggi non ho voglia di patate/ Ogni schfizio non c'è più/ ogni schfizio non c'è più".

E' un verso di "Ma sì, t'a vo' scurdà", una canzone (in un buffissimo napoletano) che ho riascoltato assieme alle altre undici tracce contenute in Parole d'amore  scritte a macchina, l'album di Paolo Conte del 1990, colonna sonora dei primi mesi di università.

Naturalmente, era già un po' che frequentavo la musica dell'Avvocato. Scrivo così perché ormai do per scontato che i miei affezionati e sparuti lettori sappiano che ho cominciato ad ascoltarlo in seconda liceo.

Ora posso dirlo (sempre ammesso di non averlo già fatto: soffro della sindrome di zio Paperone quando attacca con i suoi racconti sul Klondike, vi avverto). 

A farmelo conoscere, ci aveva pensato un compagno di scuola. Per la precisione: "IL" compagno di scuola di cui tutte noi, chi più chi meno, eravamo innamorate (la chat della classe non dovrebbe accorgersi dell'esistenza di questo post, ma anche se fosse, estica, ormai c'abbiamo tutti un'età).

Quante volte avrò ascoltato Max, con la sua lucidità che non semplifica? Era contenuto in Aguaplano, l'album che il compagno di scuola suddetto, forse, mi prestò addirittura in vinile. Di sicuro ricordo le cassette con la sua bella grafia, che gli avrei invidiato comunque, anche se i miei occhi non avessero dardeggiato cuoricini, paragonandola alle mie inintelleggibili zampe di gallina.

Ho in mente quella volta che con altri compagni di classe ci siamo ritrovati a guardare di straforo, al teatro della nostra città, uno spettacolo di Gabriele Lavia e Monica Guerritore. Credo fosse una tragedia greca: se mi sforzassi di googolarla, potrei risalire probabilmente anche al titolo.

Direi però che tale fatica non sia necessaria, tenendo conto di quanto poco me ne fregasse in quel momento, presa com'ero dal lungo assolo di Max che mi risuonava nella testa, in abbinamento, ovvio, alla gioia provata per la vicinanza con il suddetto compagno. 

E anche se mia mamma mi ripeteva: "Lascialo perdere, non gli interessi", io niente. Oltre ad "Aguaplano", l'album doppio che contiene "Max", sempre lui, del resto, mi aveva passato in cassetta anche Concerti, il live che ho letteralmente consumato pure negli anni successivi (ndA del 19 gennaio 2021: trattasi di un falso ricordo: la cassetta di "Concerti" era di mia sorella, ma per associazione io la collego comunque al sognato compagno di liceo). 

Direi anzi che ho smesso di farlo solo quando sono usciti Tournée1 e Tournée 2, i mitici cd con le copertine rispettivamente rossa e celeste, usciti in anni in cui facevo una capa tanta a tutti i maschi che mi si avvicinavano nel tentativo (riuscito o meno) di corteggiarmi.

"Eh eh eh, rido perché, a parte lo stile del tuo legale/sono parole tue d'amore scritte a macchina, baby baby/va tanto bene per me". Ho inserito questa canzone in una raccolta personalizzata che ho regalato a un uomo. A parte l'epilogo disastroso di quella vicenda, niente, sarebbe stato impossibile per me non condividere con chi mi piaceva la mia totale venerazione per il baffuto musicista astigiano.

Tutto quello che sarebbe successo dopo, però, ai tempi di "Aguaplano" e di "Concerti" non avrei mai potuto immaginarlo. E meno male. Sennò, sai che noia.

Pochi giorni fa, però, mi è tornato in mente questo disco, forse un pochino snobbato dalla sottoscritta, diciamo dai trent'anni in avanti. troppo presa com'ero dai live di cui dicevo prima e dai confronti tra le varie versioni di Diavolo Rosso (qua c'è il violino, qua i fiati, là di più le chitarre etc etc). 

Fatto sta, insomma che, quest'anno, poco dopo il 6 gennaio, giorno dell'84 esimo compleanno del Maestro, mi è apparso come una epifania Pittori della domenica nella raccolta che ascoltavo su Spotify, ed eccomi là, con loro sul ponte, le mogli a casa, a trasudare, loro e me, mille frammenti. 

Mi sono rivista nella grande arena dove si tenevano le lezioni del primo anno di Scienze Politiche, affollate come mai più durante tutto il resto dell'università. Ero molto disorientata: Pisa mi pareva un pianeta lontanissimo, lo era davvero, a pensarci adesso, ed io probabilmente lo raccontavo con lo sguardo.

Renè, si chiamava così, un ragazzo riccio con i grandi occhi chiari che avevo affianco chissà a quale lezione. Con lui c'era, penso, la sua ragazza, venivano tutti e due credo da Castiglioncello, in ogni caso una località marina della Toscana. Non so come, non so quando (ma so il perché), gli ho parlato di Paolo Conte. "Non sai che è uscito un altro disco?", immagino mi abbia detto a un certo punto il ricciolino. La volta dopo che lo rivedo, eccolo lì con la cassetta.

Dopo quella volta, non l'ho praticamente mai più reincontrato o, se l'ho fatto, nel frattempo avevo cominciato a stringere qualche amicizia (anche femminile, eh: anche alle amiche ho parlato dell'avvocato, sia chiaro), per cui lui e la sua ragazza sono spariti dal mio orizzonte.

Io però non ho dimenticato il suono di Dragon, identico al ritmo dei molti treni che ho preso, uguale al pulsare del mio sangue in tutti questi lunghi anni.

Curiosamente, proprio da questo Lp è tratto anche Happy Feet, il pezzo scelto da Fabio Massi per la puntata natalizia del suo programma radiofonico Grafite, quando ha chiesto a noi amici di consigliare agli ascoltatori, in un audio di non più di venti secondi, una canzone e/o un libro. 

Metti una canzone a caso del Maestro e mi farai contenta, così io. "Musica per i suoi piedi, Madamatap". Grazie ancora, Fabio e Ilaria Gregonelli, co-conduttrice del programma, che va in onda tutti i martedì alle 21 sulla Webradio di Fermo Stazione 41

Ascoltateli e fate caso alla rubrica L'albero di Grafite, il nuovo progetto lanciato dai conduttori e dalla redazione del programma, per promuovere il dialogo tra letteratura e musica, due arti che ci vanno fin dentro all'anima, grazie ad alcuni, fortunati incontri, come quello che ho fatto io con il "mio Maestro", per tutta la vita. 

Parapaponzipò!

domenica 20 ottobre 2019

Tutti a casa, la perfezione formato canzone


Faccio molta fatica a scrivere, ormai. Tanto più adesso, con la Bice che ha poggiato il muso sul mio avambraccio destro, ostacolandomi nei movimenti.
Fuori è più grigio di lei, nella più classica delle domeniche viennesi di quasi tutto l'anno. Non è il freddo ad impensierirmi, non più di tanto, almeno, ma proprio questa uniforme mancanza di colore.
E dire che ci sono parchi e spazi verdi in buona parte della città. Basta avere la voglia di uscire e raggiungerli. 
Oggi proprio non mi va.

Mi sento molto in sintonia con la canzone del mio amato avvocato, che vi linko sopra. Vedo la stanza illuminata e quest'uomo non più giovane che pensa alla donna che si scalda le gambe davanti al falò.
Non ho mai avuto un caminetto, ma, ascoltandola, mi pare di averlo fatto pure io, molte volte, di scaldarmi le gambe davanti al legno che scoppietta.

Vedo il giallo della luce artificiale, di una tonalità antica, come quella della cucina di una nonna. Vedo una donna con le calze di nylon e la gonna, davanti al camino, lo scialle sulle spalle. E' ancora giovane, non arriva ai quarant'anni, è in carne quanto basta, come usava fino a qualche tempo fa.
L'uomo che si scalda dentro, al pensiero di lei, potrebbe essere un po' più vecchio, l'ha corteggiata a lungo tempo prima, ma lei non ha ceduto. O forse sì, ma solo per poco.
Poi è arrivato l'autunno, e poi l'inverno e poi di nuovo ancora altre stagioni, fino al presente raccontato nella canzone, in cui l'uomo la ricorda, guardando dalla finestra la vita nelle strade.

Davvero difficile digitare con la gatta sul braccio, perdonatemi la scusa patetica.

Nella canzone c'è una perfezione difficile da descrivere. Ha un incipit, uno sviluppo e una fine inframmezzati dal ritornello e il suo canticchiare muto. Mi commuove e insieme conforta. 

E dire che mi è venuta in mente, in questi giorni, per il titolo, mossa com'ero dal desiderio di battere in ritirata a guardare il mondo dalla finestra immaginando e rievocando quello che c'è stato e non c'è stato, come l'uomo che pensa alla donna con le calze di nylon e la gonna.

La bellezza, al contrario, spinge all'azione.
Nonostante l'inverno che c'è, nelle strade c'è vita. 
Soltanto dopo averle attraversate, si torna tutti a casa, ci si prepara un piatto caldo, un bicchiere di vino, qualche castagna, arrendendosi, pacificati, alla notte sempre più lunga.

In attesa che torni la luce, che è lì, pronta a riportarci tutto il fuoco che ci vuole. Quello di un amore vero, magari, dal quale tornare per chiudere fuori il mondo freddo, come in un'altra famosissima canzone del mio avvocato.

Sì, la sa proprio lunga il Maestro: mai trovato nessun altro capace di giocare con la malinconia come lui con questa meravigliosa leggerezza.

It's wonderful, really wonderful, oh sì.
Good luck, my baby.
A tutti noi. 

martedì 16 luglio 2019

Vienna e le malinconie di mezza (età) estate

Il mio vecchio computer ci mette talmente tanto ad accendersi da spingermi quasi a desistere. Anche perché sono reduce da un'ennesima giornata a scribacchiare inezie per guadagnarmi la pagnotta. 
Mi accorgo di essere partita subito male. Non ho alcuna intenzione di lamentarmi. 
Volevo parlarvi della settimana enigmistica.
Ho cominciato a ricomprarla in occasione dei miei lunghi viaggi dall'Italia.
Non riuscendo a completarla nelle quattordici ore di treno (perché almeno una piccola parte la passo a dormire), poi il solitario numero rimane in bagno, con la penna infilzata sulla pagina, a farmi compagnia per diversi giorni. Settimane. 

Mi sono appena rassegnata a buttare la copia di fine maggio: non sono riuscita a finire un crittografato, di quelli con le frasi celebri. C'entrava Carlo V, ma ho sbagliato una sequenza di lettere, per cui, via, cestinato insieme con un femminile preso sempre nel medesimo viaggio di ritorno in terra asburgica.

Dopodomani torniamo in Italia, il bipede non lo fa da un pezzo. 
Sono giorni che carico questo avvenimento di molti significati. Inevitabile, vista la vicinanza del mio compleanno.

Dopo un giugno di un caldo qui giudicato epocale, da una settimana è tornato il fresco continentale. E il vento viennese.

Sono molto stanca, quindi poco lucida.
Però oggi, tornando dal lavoro, ho riavvertito il senso di estraneità per questi luoghi che purtroppo fatica a passare. Immagino capiti alla maggioranza degli espatriati, ma mi accorgo di quanto sia difficile farlo capire a chi transita in questa indubitabilmente bella città solo per qualche giorno.

E dire che adesso sono meno preoccupata di prima di esprimermi male in questa lingua dura. Se serve lo faccio, l'ho fatto a dire il vero da subito, ma non ho la pazienza necessaria che ci vuole per apprenderla.

Vorrei più risultati, in ogni campo.
Sono stanca di attendere una serenità che fatica ad arrivare.
Emigrare da adulti è complicato. 

Ma sono stanca, come dicevo, e conviene intanto partire. Un giorno alla volta, attaccandosi a quel presente di cui parlo spesso.
Se serve, meglio stordirsi un po' per perdonarsi gli sbagli e le mancanze.

Un'altra abitudine di questo primo anno di viaggi infiniti, è l'acquisto di qualche Diabolik nella stazione di Bologna. 
Quelli, di solito, li finisco in treno, però. Adesso che ci penso, potrei provare a rileggerli, ma non mi farebbero lo stesso effetto.

Cerco strategie di mantenimento, in tutti i campi, dal fisico che via via si stagiona, allo spirito, lunatico come al solito.

Che effetto mi farà rivedere casa mia? E quella dei miei genitori? E mio padre, i miei amici?
Ce la farò a tornare su più carica?

Guardo le nuvole mobili. I picchi sono andati già a dormire, fino a poco fa li vedevo decollare dagli alberi di fronte. Su un balcone svettano da un grande vaso dei girasoli. Sono giorni che li osservo, sono bellissimi.
Nel giardino dei proprietari c'è una rosa gialla, l'unica, più alta e superba accanto alle altre vermiglie. 
Ogni tanto spuntano un paio di bambini piccoli nel giardino confinante con il culetto in vista. Una volta i loro genitori giocavano con le racchette a quel gioco che credo si chiami volano. Mi sembrava la scena di un film, di quelli inglesi con i colori pastello.

E poi mi è venuto da ascoltare Arbore e la sua orchestra italiana.
Mai stata una particolare fan della musica napoletana, ma la nostalgia gioca strani scherzi. E comunque mi ha tirato su.

Il Bipede poi mi ha passato sul telefono un po' di dischi dei Police.
Ieri ho riascoltato "Synchronicity" mentre correvamo. Credo di avere imparato i testi a casa di mia nonna o forse ce l'avevamo anche io e mia sorella.
Anni Ottanta, mio zio ancora giovane, Phil Collins e la sua batteria.
La cameretta con il letto singolo, i mobili di legno pesanti della sala, la vetrinetta con le foto in bianco e nero del matrimonio. La vecchiaia povera ma dignitosa, gli occhi azzurri vispi e il naso di famiglia, il loro e il mio.

Poi mi compare mia mamma in sogno, ma anche nello specchio, nelle foto che mi scatta il Bipede o che mi scatto da sola. Sento la sua voce e vorrei che i legami più forti non si spezzassero mai. E forse davvero non si spezzano, se poi, ripensandoci, li senti ancora qui con te, a così tanti chilometri di distanza, e oltre ogni distacco.

Il freddo improvviso ha trattenuto ancora un po' le rondini. Giù da noi, almeno mi pare, vanno via prima.
Le vedo sotto le nuvole mobili, pian piano taceranno anche loro per la notte.

Tra poco si accenderanno le luci del palazzo di fronte. I giovani omosessuali, presumo una coppia, che fumano spesso nudi alla finestra, in questi giorni non ci sono. A volte mi verrebbe voglia di salutarli con il braccio, ma poi mi vergogno un po', anche per loro, sfrontati come io non sono mai stata.

Ecco, mi sento meglio. Stanca, sfinita e perplessa come prima, ma meglio.

Vi lascio con il mio vecchio avvocato, rivisto ieri con molta tenerezza e sincero affetto. Osservavo la sua pancia e il suo look stazzonato e sorridevo. Mi ha interrotto la telefonata del mio giovane collega, adorabile quanto inopportuno. Ma meno male che c'è, glielo ripeterò sempre. A lui auguro di mantenersi il più a lungo possibile così, vitale, inquieto e superficiale quanto basta per non soffrire mai troppo.

A voi, grazie. E a presto.











martedì 25 ottobre 2016

Il maestro è nell'anima. Sempre di più



Non posso proprio farne a meno, anche se, amici belli, non sapete quanto mi costi interrompere il mio silenzio.
Quello che ho da dire, in un certo senso, è molto più pubblico di come vorrei, visto che riguarda almeno la maggioranza delle persone che erano presenti con me domenica pomeriggio, dalle 18 alle 20.15 circa, all'Auditorium della Conciliazione di Roma per il concerto di Paolo Conte.
Di Paolo, mi verrebbe da dire fingendo una familiarità del tutto autoreferenziale che anno dopo anno, a partire dai 17, si è costruita nella mia testa.

Chi mi ha sentito negli ultimi tempi sa come sia stato possibile il miracolo che ho vissuto appena due giorni fa.
Vi confesso però di sentirmi quasi una ladra di immagini avendo usato uno degli scatti che mi ha fatto la simpaticissima Giusy Palamara, conosciuta tra una quinta e l'altra del teatro romano, come mio attuale profilo di Whatsapp.
Non amo questo genere di autoreferenzialità, ma per questa icona (proprio nel senso sacrale del termine) della mia formazione, questo zio che sa ancora adesso spiegarmi la vita meglio di un film, faccio una piccola eccezione.

Mi limito a illustrare la scaletta di un concerto che ha chiuso una giornata indimenticabile, passata in compagnia di mia sorella, i miei nipoti, mio cognato tedesco ("animato", lui sa perché) e l'affascinante cugina che, ovvio, porta lo stesso nome del maestro.

Pare (mi ha detto il suo grandissimo batterista/vibrafonista/marimbista etc etc Daniele Di Gregorio che ha permesso il miracolo di cui vado parlando) che ogni due anni circa la scaletta dei concerti cambi leggermente.
Ho perso il conto di quelli che ho visto per cui non ricordo esattamente quante volte io abbia sentito dal vivo (per non parlare delle volte che l'ho fatto a casa) Diavolo Rosso, Alle Prese con una verde Milonga, Gioco d'Azzardo, Comedie, Sotto le stelle del jazz e, ovviamente, Via con me. Di questa, però, posso dirvi con certezza che è stata proposta nella versione del disco da studio che si chiama Gong-oh, che personalmente adoro proprio perché l'ha finalmente rallentata ed espunta dai bis. Per quest'ultimo (uno solo, seguito dal proverbiale segno di voce finita con la mano che taglia la gola a metà), Paolo ha voluto Tropical, immagino diventata la hit di chiusura dopo Snob.

A proposito della canzone che dà il titolo all'ultimo album dell'Avvocato non più tanto marròn (ma azzurro e celestiale come i suoi occhi da gattone, benché lui abbia sempre avuto cani), la risata generale del pubblico, partita quando arrotava ("affotava", pareva dicesse) le erre, è stata molto liberatoria, per me che ho compreso da tempo, anche se non ne ho prove dirette, quanto debba essere simpatico Paolo lontano da microfoni e sguardi adoranti.

Mi ha sorpreso, anche, il provinciale più internazionale che abbiamo in questo piccolo Paese, in certi brani che dal vivo non avevo mai ascoltato.
Mi sono piaciute tantissimo Reveries e Le chic et le charme, le due canzoni in francese della scaletta 2014-2016.

Purtroppo, non essendo una musicista, non vi so dare dettagli tecnici.
Posso solo ribadire la mia assoluta meraviglia davanti al polistrumentismo della maggioranza dei suoi "dolci amici" musicisti, come li ha chiamati Conte nella dedica, se non vado errata, di "Nelson", un disco forse meno limpido di altri, ma molto intimo e vero, esattamente come mi appare lui, sempre di più, senza papillon e abito da sera.

Non posso dirvi, non riesco proprio a farlo, almeno non in questa veste semi-pubblica, che cosa mi abbia trasmesso il suo viso e il suo sorriso quando mi sono presentata.
So che ho fatto finta di essere sicura, so di aver parlato con la sua produttrice Rita Allevato, molto cortese e rispettosa di noi poveri fan disperati, ma davvero il non detto e il non scritto è molto più importante e lo conserverò per sempre dentro di me.

Questa la scaletta proposta all'Auditorium della Conciliazione, la stessa - presumo - che, con qualche variazione, sarà replicata a Brescia il 29 ottobre e a Milano l'11 e il 12 novembre. Dopodiché ci sarà Torino il 12 dicembre e a febbraio (11 e 12)... Paris (!!) e poi Amburgo il 25.

A voi la scaletta:

Primo tempo
Ratafià
Sotto le stelle del jazz
Comedie
Alle prese con una verde Milonga (sapete che cos'era per Renzo Fantini e i suoi amici quando l'ascoltarono la prima volta? Solo i veri cultori sapranno rispondere)
Snob
Argentina
Reveries
Recitando
Aguaplano

Secondo tempo
Dancing
Gioco d'azzardo
Gli impermeabili
Madeleine
Via con me
Max
Diavolo Rosso
Le chic et le charme
Tropical (bis)


Ora che ho scritto posso tornare al mio silenzio.

Vi voglio bene, dopo quest'incontro, ancora di più.

Ps La prima volta che ho salutato Paolo avevo più o meno 21 anni. Il pomeriggio passai con una rosa rossa e un biglietto con la richiesta di alcuni brani, diciamo così, on demand (Avanti, bionda, Topolino Amaranto, cose da bionde sceme, insomma). Poi tornai a fine concerto: non avendo altro per farmi fare l'autografo, gli allungai il pacchetto di sigarette che fingevo ai tempi di fumare. Mi scrisse la dedica con un pennarello, non so suo o se prestato qualche fan. Mi ricordo quello che mi disse a proposito della mia richiesta di brani: "Eh, ma la scaletta è già formata, i miei musicisti si sono preparati su quella, non sarebbe semplice cambiarla". E certo. Che idiota bionda.

Però, posso dirlo? Lì era nel pieno della maturità, io una ragazzina con gli occhiali tondi. Molto meglio adesso, per me è così, magari lui farebbe volentieri un salto a ritroso nel tempo.

In tutti i modi, è un privilegio averlo incrociato.

Grazie.

venerdì 8 luglio 2016

#Emmanuel, #Fermo e la scimmia che è in me



Ho cominciato a lavorare per un sito di informazione locale a Fermo a primavera inoltrata, sottoscrivendo un contrattino che mi permette, diciamo così, di tamponare un po' il flusso in uscita dal mio conto corrente.
E' una piccola premessa necessaria giusto per dirvi che, in fondo, non sono una che ha grandi pretese.
Vorrei solo lavorare, pagarmi qualche spesa e sentirmi meno in colpa per aver buttato nel cesso le mie possibilità di carriera lasciando la grande città.
Fino a martedì scorso, tutto sommato, mi era sembrato possibile: mi era parso, voglio dire, che me ne potessi stare qui sulla costa adriatica, lontana dai grandi fatti della storia, a scrivere di sagre, di consigli comunali, di concerti e tante altre belle e piccole cose che accadono in provincia.
Ma poi è successo quello che ora sa tutto il mondo, a pochi metri, oltretutto da me e dai colleghi che ho incontrato in questa micro fetta di 2016.

L'autopsia, a breve, dirà penso con precisione, se Emmanuel è morto per via del pugno subito o per arresto cardiaco o chissà cos'altro.
Il punto, però, non è questo. La causa scatenante resta quell'insulto "scimmia africana" che il buon cuore dell'arrestato fermano (qualcuno lo dipinge come un povero diavolo, purtroppo anche tra qualcuno dei miei conoscenti) si è permesso di indirizzare alla sposa ventiquattrenne o forse anche al marito e all'amico che era con loro, chi lo sa.

Credo di aver  conosciuto veramente Fermo solo ora, dopo undici anni che ci abito e altri quindici che la bazzico.

Ho vissuto (qualcuno lo sa) l'esilio in terra marchigiana per circa otto anni dopo la mia esperienza, finita malissimo, al settimanale dell'arcidiocesi, ma, davvero, soltanto adesso sto capendo perché, a distanza di tutti questi anni, io continui a rimanere, per la maggior parte della gente che ho conosciuto (non per tutti, ovvio), un'estranea.

Completa estranea.
Anche ieri in Prefettura, tra colleghi locali e non, ho provato un forte, dolorosissimo, senso di solitudine.

Ho sentito giornalisti che, tra una telefonata a un avvocato e l'altra, parlavano di vacanze in Sardegna, altri che protestavano per non aver avuto abbastanza ribalta (Alfano effettivamente si è degnato di rivolgerci la parola con quasi due ore di ritardo). Ho fatto da dittafono vivente grazie al computer del collega per mancanza di mezzi tecnologici che qualunque giornalista che si dica tale dovrebbe avere (se volete, ve lo spiego meglio perché non li posseggo, se non fosse abbastanza chiaro), ho scritto su una scrivania di fortuna in mezzo agli scatoloni e ho lavorato cercando di non pensare allo squallore che ho visto intorno a me.
Per esempio, quello di giovani colleghi che si fanno i selfie esaltati dalla giornata speciale col ministro, dei mezzi sguardi di scherno lanciati tra una strisciata sullo smartphone e l'altra, e poi le chiacchiere da social-paese sul buon Mancini (e sugli italiani uccisi dai brutti negri) e quelle di chi manifesta, strumentalizza e, ancora una volta, cerca solo e sempre di mostrare se stesso.

Non sono fermana, non sono chietina, non sono milanese, non sono giornalista, non sono fotografa, non sono militante, non sono qualunquista, non sono.
Finora ho pensato questo sotto voce, in cuor mio anche con una certa autoironia da disadattata cronica.

Da martedì qualcosa ha cominciato a rompersi.
Sarà questo il capodanno che aveva previsto Branko per noi cancerini del cavolo questo maledetto martedì.

Adesso è ora di dire chi sono e cosa provo.

Sono antirazzista e antifascista. Sono una giornalista. Sono una che scrive e che fotografa. Sono un'amica dei più deboli, da qualunque posto provengano, purché siano onesti e sinceri (la badante albanese che ha trattato male mia madre mentre se ne andava, non posso perdonarla, non ci riesco). Conosco il dolore. Conosco il lutto e so che la violenza genera, sempre e comunque, la violenza.

Sappiatelo, cari conoscenti, anzi: non più cari conoscenti, se siete tra quelli che a mezza bocca dicono il contrario di quello che sto sostenendo in questo istante. Rispetto le opinioni, ma non potrete mai essere miei amici.

Quello che è successo a Fermo, nella cittadina dalla quale sono fuggita per non soffocare scegliendo la costa per potermene, almeno, ogni tanto, più agevolmente andare, è di una gravità enorme.

Ed è ancora più grave, e più triste, che solo in pochi qui se ne siano veramente accorti.

Una cosa del genere non si liquida con una fiaccolata (pure giustissima, naturalmente), né con un corteo antirazzista con i soliti slogan visti mille volte.
Da una barbarie di questa portata ci si può (forse) risollevare studiando, leggendo, viaggiando, incontrando e, soprattutto, guardandosi bene innanzitutto dentro e poi anche l'un l'altro, negli occhi. Senza pregiudizi. Anche verso chi viene da sotto la linea tracciata dal fiume Tronto. Ce la fate?

Dimenticavo. Non sono credente. Non sono.
Credo, però, ancora nell'uomo. E, di più, nella donna e spero che la giovane Chimiery diventi un giorno un medico, come sognava di fare prima che la tragedia le piombasse in casa, dilaniandola materialmente e moralmente. Spero, anzi, che sia proprio lei un domani a curare i Mancini di turno che, temo, continueranno a spuntare come funghi.

Finisco con due canzoni del mio amato Paolo Conte che alla scimmia e all'orango ha dato una dignità che la maggioranza dei cosiddetti esseri umani non avranno mai. Se le scimmie sono queste, allora lo sono anche io.













mercoledì 25 novembre 2015

Paolo Conte e il mio post di riserva sul suo dolce mondo



Fatemi scrivere un post di riserva
.
Davvero, non è cosa semplice, per me che sono contiana da quasi trent'anni, raccontarvi, nemmeno recensirvi, Fammi una domanda di riserva, il libro Mondadori curato da Massimo Cotto (bellissima la sua introduzione), nel quale sono raccolte frasi pronunciate dall'avvocato Maestro astigiano dal 1985 in avanti.

Potrei, come ama ripetere spesso il nostro Baffone nazionale, dirvi solo dell'atmosfera, della malinconia più che nostalgia che pervade, a questo punto, non solo le sue musiche, ma anche il suo dire, non solo in formato canzone.

Conoscevo diverse delle frasi qui raccolte, ma messe così tutte insieme fanno decisamente un altro effetto.
Sarà la stagione e le temperature colate a picco, sarà l'età che avanza, saranno questi giorni di vuoto e di pensieri, ma lo ammetto: mi sono quasi commossa.

Ho ritrovato, un capitolo dopo l'altro, molti dei motivi che mi hanno fatto, ebbene sì, innamorare della musica del sempre giovane Canadese (come lo chiamava il suo amico e mentore Mingo Chiodo). E delle sue parole, naturalmente.

Perché se è vero, e lo è, che quasi nessuno gli fa delle domande competenti sulla sua musica, è altrettanto vero il fatto che dalle sue parole non si può prescindere.

E' tutto un complesso di cose che lo rende così unico. E così simpatico. Assai.
Mi piace che dica che non sia colto. Che mangi il minestrone e il bollito nella sua camera d'albergo, pur essendo in tournée all'estero.
Ed è troppo, troppo nostalgico (alla sua maniera) quando racconta dei suoi inizi, della povertà e del dilettantismo con cui lui e i suoi amici si buttavano a fare jazz.

Mi verrebbe da abbracciarlo per quanto scrive sull'essere snob (non lui) e l'essere dandy (avere il culto della bellezza profonda, lui).
E per Maigret, per Camilleri e pure per il giallo svedese di Mankell (quest'ultimo in verità da me scoperto solo per via dei telefilm che gli sono stati tributati in patria con un fantastico attore, perfetta incarnazione dell'anti-eroe).

Dovrò rileggerlo, questo libro: perché, pur essendo godibilissimo, contiene talmente tanto (che fa pure assonanza enigmistica, cosa che l'avvocato capirebbe e perdonerebbe, spero) l'universo contiano da meritare di essere mandato a memoria da noi adepti grati e piccini.

C'è tanto di Parigi e di Asti, nel suo universo. E dell'esotismo non salgariano ma quasi, delle palme e bambù delle origini.
Adesso, alla vigilia dei suoi primi magnifici 79 anni, il Conte nazionale conosce abbastanza il mondo, ma a volte a me sembra, e le sue parole raccolte me lo confermano, che non abbia mai lasciato la sua cittadina di provincia.

Solo un provinciale poteva mettere a fuoco (cinematograficamente parlando) così bene quella nutrita schiera di persone senza importanza che caratterizza molte delle sue canzoni.
Solo un uomo cresciuto con la campagna a due passi poteva imparare, crescendo, a nutrire un così attento amore per i particolari.

Peccato che io non sia una musicista, perché se avessi basi in quel mondo, nel suo mondo, potrei capire ancora meglio come mai dice di amare Franck, da Conte considerato un anticipatore del Novecento, il suo secolo di riferimento, quello che gli ha indotto una tale "confusione mentale" (pronunciato alla francese) da spingerlo poi sulla via del jazz e dello swing, che in verità è un qualcosa che non si spiega, e che anzi, pare, gli scorra direttamente nelle vene.

Il libro ha peraltro confermato alcune delle mie scoperte recenti, ossia i legami tra la sua musica e quella di Ellington e anche di Armstrong, da Conte amatissimo.

Non sapendo, tuttavia, nulla o quasi del jazz degli anni Venti, posso solo credergli sulla parola quando si sofferma sulle differenze tra quel periodo e i decenni successivi.
Cita però Jelly Roll Morton, che ho ascoltato e apprezzato, o un tale (per me!) Tricky Sam, asso del trombone, al quale il Maestro si sarebbe ispirato.

Sapevo del suo desiderio di essere interpretato da Charles Aznavour, ma non che sarebbe stato contento se avesse scritto lui Ma l'amore no, di Giovanni D'Anzi.

Che l'habanera e il fandango fossero pasta per le sue note si capiva, ma non immaginavo che la mamma gli facesse ascoltare i tanghi tedeschi (esistono tanghi tedeschi?).

Della mamma parla anche in un'altra occasione, verso la fine, quando racconta di averle fatto ascoltare Celentano che interpretava Azzurro. Lei pianse e io con il suo ricordo.

Che cos'altro posso aggiungere, a parte il consiglio, accaloratissimo, di leggerlo se siete contiani come me  (i neofiti potrebbero aver bisogno di qualche ripetizione, a mio personalissimo avviso)?

Solo questo.
Per me, Paolo Conte è un uomo dolce, di una dolcezza che solo i veri uomini non nascondono di avere. Tanto più andando avanti con gli anni, quando si acquisisce il senso, come lui stesso dice, del durante.

Da giovane, spiega, non vedeva l'ora di farsi una bella doccia calda dopo una partita, di cenare con i suoi musicisti, dopo un concerto. Adesso gli importa solo di essere lì, a pestare di note il piano (o il vibrafono e il kazoo), felice se qualcuno lo segue o lo applaude con la foga che si destina agli acrobati e ai clown.

Pur essendo molto più giovane di lui, mi riconosco alla perfezione nelle sue parole.
Non le ho assolutamente fatte mie, nella quotidianità, ma, davvero, vorrei arrivare a un tale grado di riconoscenza nei confronti della vita da non nutrire più nient'altro che la gioia di essere, di esserci, su questa dannata terra.

Peccato che il Conte preferisca le brune, dimenticavo.
Ma, del resto, per me lui è un Maestro dell'anima, mica un immaginario amante.

E poi, se devo proprio dirlo, preferisco i bruni pure io.

Grazie a Massimo Cotto per il suo libro.
Rosico un cicinin per non essere entrata tra quelli da cui ha attinto per i suoi testi (il mio pezzo è uscito negli stessi giorni in cui c'era su Io Donna l'intervista della mia conoscente, bravissima, Giulia Calligaro, riportata nella bibliografia).

Ma cosa importa?
La fama non dura.

La musica del Maestro, sì.

venerdì 13 novembre 2015

Kafka sulla spiaggia, metafora della nostalgia. Una furberia che ammalia



Mentre scrivo questo post, sto ascoltando il Trio dell'Arciduca di Beethoven, in un'esecuzione di Rostropovich and company che, sinceramente, non mi ricordo già più se è citata in Kafka sulla spiaggia, il libro di Murakami (Haruki, il nome di battesimo, poco nipponicamente parlando) che ho finito di leggere ieri sera.

L'ultima parte, ve lo confesso, mi ha lasciato un po' perplessa: troppo, troppo onirica e fumettistica per i miei gusti. E al contempo, anch'essa, come il grosso di questo affascinante libro, molto, molto attraente.

Perché più passano gli anni e più ne ho la certezza: la perfezione rompe le balle, le crepe nella narrazione e i passaggi inverosimili che mi hanno fatto sorridere in modo spontaneo sono tra i motivi principali per cui posso dire che sì, valeva davvero la pena trascorrere varie ore in compagnia del poco credibile quindicenne Tamura Kafka, dell'uomo-donna Oshima, di Nakata l'autistico che parla in terza persona e dello scombinato camionista Hoshino, tra tutti, il personaggio che meno ho capito.

C'è qualcosa che mi ricorda i cartoni di Miyazaki in questo libro, anche se, obiettivamente, so talmente poco di Giappone e di letteratura dell'estremo Oriente in generale che potrei pure star scrivendo una boiata.

Mi piace comunque assai l'animo pop di Murakami e pure quella che alcuni giudicano un'autentica furberia, ossia il suo continuo citare marchi di abbigliamento in particolare (e calzature: la Nike magari gli passa qualche dollaro per ogni volta che ce la infila, ma chissà), perché, come tutte le altre cose che scrive, lo fa con un'apparente naturalezza che me lo rende simpatico.

E poi la cucina: accidenti quanta attenzione dedica ai piatti della sua terra (pure ai surgelati: voi sapevate che in Giappone si trova il riso fritto surgelato? Io proprio no) e in generale alle funzioni corporali dei suoi personaggi. La cacca è citata almeno un paio di volte. Per non parlare delle eiaculazioni e del glande appena sbocciato di Tamura. Abbiamo capito che vuoi farci credere che parli di un quindicenne, ma, per quanti sforzi tu faccia, caro Haruki, non ci caschiamo. Quello sei tu, rassegnati.

Veniamo però alla storia. O meglio, alle sensazioni che mi ha lasciato leggerla.
Tutti quei dettagli di vita quotidiana e poi la primissima parte e l'ultima, in cui la facoltà di parlare con i gatti passa da Nakata lo scemo (per così dire) al suo improbabile amico camionista, mi hanno messo una malinconia che non so dire.

In certi momenti mi affioravano alla memoria le canzoncine giapponesi del Castello errante di Howl e della Città incantata, i primi due lavori di Miyazaki che ho conosciuto e che tanto hanno significato per me in altri tempi. Forse dovrei rivederli ora, forse mi direbbero cose ancora diverse. O forse rivederli mi darebbe ancora di più la misura del tempo passato.

Ho trovato davvero commovente la descrizione della signora Saeki, il personaggio femminile chiave della narrazione, la mamma con la quale, come Edipo, Tamura Kafka deve giacere.
In vari punti c'è lei quindicenne come il protagonista e lei cinquantenne, identica ma con un sorriso forzato e i tacchi e le perle a differenziarla da com'era un tempo.

Per puro caso (ma chissà), durante questi giorni di lettura, ho scorso velocemente il mio archivio fotografico. In una mezza mattina ho rivisto me e non solo me in questi ultimi dieci anni e pure di più.
Non ho avuto tempo né voglia di soffermarmi troppo a lungo su nessuna delle fotografie (ne stavo cercando una in particolare, volevo ritrovarla nel più breve tempo possibile).

Ebbene: ho avuto una prova materiale della nostalgia di cui è impastato tutto il romanzo. Se si può dare una definizione breve, da tweet, di Kafka sulla spiaggia, potrei solo dire che sia una metafora (una parola ripetuta spesso nel libro) della nostalgia.
Avrebbe potuto parlare anche d'altro, avrebbe potuto non infilarci i soldati dell'esercito imperiale e neppure il serpente vischioso e bianco che Noshino deve uccidere verso la fine: il sentimento principale non sarebbe cambiato.

Se lo si legge con la giusta predisposizione d'animo, insomma, alla fine si piange. O comunque si dovrebbe farlo se non si avesse un cuore pesante più della pietra dell'entrata che ossessiona il lettore da un certo momento in poi della storia.
Io, per dire, ho solo pensato di piangere; ma ho versato talmente tante lacrime in altri momenti (pure recenti) che stavolta, no, nemmeno un po' di sterili goccioline.

Chissà che diavolo stava succedendo nella testa di Murakami mentre scriveva Kafka sulla spiaggia.
Ho fatto un po' di conti: ci ha lavorato quando aveva più o meno cinquant'anni. Credo che questi passaggi decennali angoscino un po' tutti (alla vigilia dei quaranta io, per lo meno, sono andata in forte paranoia). Gli uomini, forse, temono di perdere vigore fisico, ma non saprei.
Sono certa, in ogni caso, che ci abbia infilato dentro un po' dei suoi sogni: si fa davvero fatica a distinguere il reale dal surreale, il che è sicuramente voluto, figuriamoci.

Giusto ieri, per caso, ho letto un pezzo sull'autore nipponico uscito sul Giornale la scorsa estate: era molto ironico (ben scritto, devo dire) e giudicava Murakami assolutamente sopravvalutato.
Non avendo letto che poche cose di lui, non posso concordare.
Però l'articolo ha avuto il grande merito di farmi scorgere le analogie tra lo scrittore e un'altra grande mia passione. Indovinate un po' di chi sto parlando? Ma ovviamente di Paolo Conte, che da poco ha pubblicato dei racconti sulla sua vita (titolo: Fammi una domanda di riserva. Ovviamente me lo procurerò quanto prima).

Invecchiando, il mio amore per il maestro astigiano non è passato, ma ammetto di aver imparato a smitizzarlo.
Sì, perché nel frattempo ho conosciuto vari dei suoi autori di riferimento, da Duke Ellington a Glenn Miller, ma pure autori meno famosi scoperti guardando un sacco di film in bianco e nero e ascoltando qui e là la musica del Bipede soprattutto.
Il buon gattone avvocato ha letteralmente saccheggiato dal jazz e dalla musica francese (e pure quella italiana alla Carosone) un sacco di elementi ritmici e di scrittura.

L'ha fatto, preciso, perché li ha interiorizzati talmente bene da essergli venuto naturale creare uno stile tutto suo, talmente suo da non essere ripetibile per nessun altro musicista che tenti di suonare/cantare alla sua maniera (chi ci prova, in genere, è patetico: ho in mente esempi precisi, ma non sto qui a scriverli).
Il "mio" Conte, insomma, è furbo e sornione, con quei baffoni indisponenti sotto gli occhi azzurro cerei, ma sono ben contenta che lo sia. Che ci sia.

Allo stesso modo, credo, Murakami deve aver fatto lo stesso con i suoi maestri: Checov, per esempio, dev'essere uno che gli piace assai, visto che ne parla espressamente, ma anche Dostoevskij e di certo la tragedia greca, sulla quale, tra l'altro scrive cose interessantissime.

Per me che non so assolutamente nulla, insomma, un po' di intelligente furberia altrui è un elemento positivo, non certo un demerito. Chi è capace di rubare con classe è un grande, per me, detto altrimenti.

Perché tanto, nessuno inventa nulla, la storia, la letteratura, l'arte sono percorse da temi che si ripetono all'infinito: tutto sta a saper trovare la propria voce per tramandarli ancora e ancora a chi verrà dopo di noi. E se questa voce si è formata copiando il timbro di qualcun altro, ma aggiungendovi anche solo un diesis che prima non c'era, beh, tanto di guadagnato per chi ascolta, legge e interiorizza.

So già che molte delle suggestioni che ancora aleggiano in me di Kafka sulla spiaggia sono destinate a sparire. Di Dance dance dance non ricordo nulla, se non qualche riferimento alla cucina (mi piacerebbe vedere Murakami preparare qualche piatto. Magari su You tube c'è pure), ma non importa.

Mi ha fatto ben più che compagnia in questa fase di vuoto e di trasformazione.
Già solo per questo motivo, se siete in analoga fase, leggetelo.
E poi continuate nella vostra vita. Come Tamura Kafka riprende la propria, dopo molto vagare, reale, forse, immaginario di sicuro.

martedì 24 febbraio 2015

Mark Knopfler e la felicità necessaria



Il documentario della BBC che pubblico sopra (NB: è stato bloccato dai proprietari qualche tempo dopo aver pubblicato questo post. Ne sono molto dispiaciuta, ma non ci si può fare niente...) mi è stato segnalato (com'era facilmente deducibile per chi ci conosce) dal Bipede. 
Non potrò mai smettere di ringraziarlo per avermi fatto conoscere a fondo Mark Knopfler, che è molto di più della voce dei mitici Dire Straits. Chi, come me, ha scoperto la sua produzione solistica, prendendosi naturalmente il giusto tempo per studiarne (proprio) le canzoni, saprà senza bisogno di ulteriori parole quanto grande sia questo immenso songwriter nativo di Glasgow.

Come già detto su questo spazio in passato, quando mi sono rimessa a studiare inglese, sono partita proprio dai testi di Mark per farmi un po' di vocabolario. Un'operazione davvero complessa che non ho ancora terminato né credo concluderò a breve.
Non solo perché, com'è ovvio, non si finisce mai di apprendere quali e quante siano le sfumature di una lingua (pure della propria), ma anche perché l'artista britannico ha una ricchezza espressiva davvero straordinaria.

Basta guardare e ascoltare ciò che dice in questo documentario uscito in occasione del suo terzultimo disco (considerando il prossimo in uscita in 9 marzo) Get Lucky.

Sapevo dell'abitudine di Mark di portarsi dietro un taccuino per trascriverne, tutte le volte che ci fosse stato bisogno, dettagli di vita rubata girando tra la gente; ciò che invece ignoravo fino a ieri è che abbia fatto agli albori della sua vita adulta (a soli 15 anni) il giornalista (il copy boy, più esattamente).
Certo, non ha mai sentito - lo dice proprio letteralmente - di avere "l'inchiostro nelle vene", ma a mio modestissimo avviso nel suo sangue c'è sempre stato molto di più del liquido nero-bluastro che usiamo per scrivere.
Quanti ne nascono, infatti, al mondo di artisti che sanno disegnare suonando e scrivere cantando

Per me Knopfler è un mago delle sinestesie, ossia uno di quei rari casi in cui, ascoltando la sua musica e leggendo le microstorie contenute nei suoi testi, ti lasci andare, smetti di pensare al tuo presente e ti metti in viaggio.

Non è un caso se uno dei dischi che amo di più è quello con Emmylou, affascinante cantante folk made in USA, che compare anche nel video qui sopra. Ascoltandoli duettare insieme, mi sembra di percorrere insieme con loro quelle immense strade che ammiro sempre nei telefilm americani, e soprattutto mi sembra che sia ancora tutto possibile.

Nel penultimo lavoro, che sto riascoltando in questi giorni, di canzoni che ti portano lontano lontano (oltre Milano e i gasometri, direbbe il "mio" maestro astigiano), ce ne sono parecchie.
Spettacolare è, ovvio, Privateering, il pezzo che dà il titolo all'album, che parla di pirati veri e metaforici.

Ma tra le più emozionanti, per me, c'è Seattle, che parla di pioggia e di amore, di un amore che si nutre sotto e con la pioggia che cade a secchiate sulla città Usa. Una delle molte che vorrei visitare.

L'ultimo mese è stato molto duro, come non mi succedeva da tempo.
Il 26 febbraio del 1997 ho avuto una crisi d'ansia fortissima in una libreria di Pisa. La mia prima vera crisi d'ansia: da allora niente è stato più come prima. Ne ho parlato più volte, soprattutto ne ho ricavato un racconto diversi anni dopo che, pur con i difetti congeniti alla mia scrittura, ha ancora qualcosa di potente.

Non sono più la stessa di quegli anni, ne sono consapevole.
Però, in meno di un anno mi sono ritrovata senza la donna che più di tutte mi ha sempre spinta, allora come prima e come dopo, a proseguire con la mia vita, e con un papà molto più fragile.

L'ho già scritto: sono diventata adulta tardi e una parte di me temo non crescerà mai (lo testimonia pure la mia bassa statura).
Fa niente, l'importante è conoscere i propri limiti e giocarci quando non si può fare altrimenti (come faccio spesso con i miei 152 centimetri sopra il livello del mare).

Mark e il suo immaginario così ricco, la lucidità con cui, poco più che quarantenne, ha detto basta (lo si vede bene nel documentario) alla sua scintillante vita di popstar, mi ricordano gli strappi che ho compiuto pure io nel mio piccolo, in nome della ricerca di un senso più profondo nelle cose, quello che "si nasconde dietro alle persone", come canta Cristina Donà in uno dei pezzi più belli del suo Così vicini.

Quel che più mi piace e forse mi rassicura è che questo genio della musica e delle parole oggi, a quasi 66 anni, sia - visibilmente - una persona felice. Lo testimonia l'altro, brevissimo, video che mi ha linkato sempre il Bipede, che racconta alcuni momenti delle sue giornate più recenti, forse di un anno fa, mentre stava registrando Tracker, l'album di prossima uscita.

Lo trovate qui sotto:



Che cosa significa felicità, direte voi?
Per me, più o meno quella cosa lì che si vede mentre Mark gioca con il suo cane, prova la macchina d'epoca e poi va nello studio di registrazione, tra i suoi colleghi e sicuramente amici fidati.

La felicità è riuscire, insomma, a trovare il proprio posto nel mondo imparando a fare ciò che più ci piace. Tutto qui, pensate? Beh, vi sfido a provarmi quanto sia semplice.

Se per voi è stato così, ne sono per l'appunto felice.
Per me, invece, è dura: soggettivamente sono incline all'esaurimento (e vabbè), ma oggettivamente ci vorrebbero condizioni un po' più favorevoli.

Per fortuna arriva la musica e le passioni altrui, dalle quali, a volte, com'è successo ieri mattina, mentre guardavo Mark, mi lascio facilmente contagiare.

Lui non può saperlo, o forse lo sa eccome: nel mondo ci saranno tante persone confuse, preoccupate, incerte e con problemi anche decisamente più seri dei miei che, ascoltandolo, si sono magicamente sentite meglio.

E' questo il senso più vero dell'arte: offrire oasi di consolazione vera e in un certo senso gratuita.

Spero solo di arrivare allo stesso grado di pacificazione che mostra quest'uomo dai piccoli, intensi, occhi blu.
Certo, come ha dichiarato in un'intervista Paolo Conte, "il felice", prima bisogna "lavorare molto".
Forse è proprio questo il problema.

Ma questa è un'altra storia.
Ne parlerò (forse) in un altro post.

A voi, buona vita e buone ricerche.
La vita è sempre dannatamente interessante.
Non scordiamocelo mai.

mercoledì 14 gennaio 2015

Il notturno di Alcmane e il Suonno di Paolo Conte, meravigliose furfanterie



Giorni fa la mia amica grafica Maria Loreta Pagnani mi ha chiesto un piacere: le occorreva qualche riferimento letterario per un lavoro che sta per intraprendere. Ringraziandola per la grande fiducia riposta nelle mie antiche reminiscenze scolastiche, le ho detto che ci avrei provato.

Sarebbe stato bello se avessi avuto il tempo, la scorsa settimana, di risfogliare i miei testi di scuola, ancora in bella evidenza su uno degli scaffali ricolmi di libri di casa dei miei. 
E invece mi sono ritrovata a farlo qui, nella torre fermana (il corpo irrigidito dal freddo), davanti al pc. Pazienza. Forse non mi sarebbe venuto in mente con altrettanta immediatezza il collegamento che ho fatto appena qualche minuto fa tra la canzone di Nelson che riporto sopra (ovviamente del mio Maestro astigiano) e il Notturno di Alcmane che sono andata a ripescare compulsando il Web.

Riporto qui sotto la versione accreditata come la più corretta da una rivista di dotti grecisti che ho pescato per caso surfando:

"Dormono le cime dei monti e le gole, i picchi e i dirupi, e le schiere di animali, quanti nutre la nera terra, e le fiere abitatrici dei monti e la stirpe delle api e i mostri negli abissi del mare purpureo; dormono le schiere degli uccelli dalle ali distese".


Si tratta - dicono i suddetti grecisti - della traduzione curata da "A. Garzya, Napoli 1954", che differisce non di poco per esempio da quella offerta da Giovanni Pascoli e da altri poeti che - scusate la mia abissale e purpurea ignoranza - io proprio non conoscevo.

Trovate le varie versioni nel link che ho riportato sopra, compresa quella di Mauro Pagani in genovese, di cui ho giusto adesso recuperato il link alla versione cantata presumo sempre dal musicista amico di Fabrizio De André.

Bella, eh, però, manco a dirlo, io preferisco l'Avvocato. E in particolare Suonno e' tutto o suonno, non so bene perché, mi è sorta spontaneamente alla memoria non appena ho riletto i versi di Alcmane. Versi che al liceo mi piacevano moltissimo.

Leggiucchiando qui e là su altri siti di dotti grecisti, ho scoperto che quel tipo di poetica discende pari pari dalla lirica di Omero. E del resto, da quel poco che rammento, il creatore degli immortali Iliade e Odissea (sempre che siano entrambi tutti suoi), aveva attinto a piene mani dalla tradizione orale precedente.

Com'è antica la nostra cultura, accidenti.
Inconsapevolmente, siamo tutti ladri di questa gente qui, pure il mio Avvocato lo è (mi perdoni, lui sa - e come no - quanto mi abbia avvinta per sempre). 
Il collegamento che io colgo tra questa splendida ballata cantata nel suo goffo piemontese-napoletano e i versi di Alcmane è insomma frutto di secoli, millenni anzi, di connessioni precedenti tra una generazione e l'altra di aedi, di musicisti, di poeti e di scrittori.

E' tutto molto affascinante e insieme così lontano dall'attualità.
Le poche volte che me ne faccio travolgere (com'è successo con Charlie Hebdo), dopo sento un forte bisogno di purificazione.
Il presente mi fa veramente troppo arrabbiare e/o deprimere.

Solo di notte, quando tutto è suonno, sento che i sogni non sono finiti e anch'io, come le fiere abitatrici dei monti o gli uccelli dalle ali distese, chiudo gli occhi e attendo la prossima preda che prima o poi riuscirò a bramire, balzando da un cespuglio o piombando da una cima.

Al risveglio, poi, è tutt'un'altra storia, ma che importa. La notte è promessa, incantatrice e tentatrice. Lo confermano il violino e il flauto di Conte e quel leggero sintetizzatore che accompagnano la fusione tra il cielo di lui e di lei.

Grazie, Maria Loreta, per avermi fornito questo gancio.
A voi tutti, buone furfanterie azzurre.

giovedì 8 gennaio 2015

Charlie Hebdo e la guerra (bastarda) alla civiltà


Non ne ero sicura, ma mi era parso guardando l'infografica sui giornali. Adesso che ho controllato su GoogleMaps ne ho avuto la certezza: Rue Nicolas Appert, la via della strage bastarda, e Rue Poisonniere, quella in cui si trova il Grand Rex Theatre, dove il 26 e il 27 gennaio prossimi suonerà Paolo Conte, sono piuttosto vicini. Circa 18 minuti di metrò per cinque o sei fermate. Niente, considerate le distanze nell grandi città.

Se già ero scioccata di mio, come molti, naturalmente, questo dettaglio in più privato, tipico del mio modo di scrivere almeno su questo spazio, mi ha ulteriromente rattristato.

Con quale spirito un italiano così amato dai francesi come il Maestro astigiano potrà esibirsi tra sole due settimane da questa vigliacca mattanza?

Con quale spirito verrà preso il nuovo numero di Charlie Hebdo previsto presto in edicola dai colleghi, i collaboratori e amici delle dodici vittime Charb, Wolinski, Cabu, Tignous, Honoré, Fred, Maris, la guardia del corpo di Charb, Renaud, e i poliziotti Ahmed e Frank, il portiere Frederic, e l'unica vittima donna (salvo ulteriori tragici aggiornamenti) Elsa Cayat?

Ascoltando stasera un pezzetto di Caterpillar su RadioDue, ho sentito che più di un ascoltatore ha chiesto di riceverne una copia. Sicuramente il settimanale Internazionale sta preparando un numero speciale: speriamo che lo traducano e lo portino anche tra noi.

Non conoscevo la storia di Charlie Hebdo, ma, vista la mia passione per i disegni parlanti, mi sarebbe potuto capitare di imbattermici, un giorno o l'altro.
Più concretamente, potevo effettivamente partire per Parigi, come congetturavo di fare solo sabato scorso, sfogliando la guida della città europea per eccellenza.

Ho sempre amato la Ville Lumiere fin dai tempi della scuola: adoravo, letteralmente, la storia della Rivoluzione Francese e ho studiato con interesse l'Illuminismo.
Se sono come sono adesso, anzi, un po' di merito ce l'hanno proprio i "Blè", con il loro snobismo respingente.

Guardando le copertine del settimanale satirico colpito a morte sul Sole24Ore, mi sono ritrovata persino a ridere di battutacce obiettivamente pesanti, ma così - francamente - liberatorie e zero ipocrita politically correct.
Ho scoperto che Stephane Charbonnier, il direttore 47enne, freddato tra i primi, amava copiare i disegni di Tintin e di Lucky Luke quand'era un ragazzino. Da poco ho scoperto il secondo, grazie ai miei nipoti: mi figuro l'occhialuto ex ragazzo cattivissimo folgorato dalla matita più o meno all'età che hanno adesso i figli di mia sorella.

E mi sono immaginata tutta la simpatica canaglieria di Wolinski, erotomane dichiarato e misogino per gioco. Me li sono visti proprio scegliere i temi delle loro vignette, dei loro pezzi, quante risate sguaiate e dementi si saranno fatti. Quanta vita sarà corsa tra le pareti della prima sede del giornale, distrutta da un attentato due anni fa, e quella nuova, una casa tra tante che nemmeno quei criminali asembra che abbiano saputo riconoscere.

Non è stato solo Charlie Hebdo a essere stato brutalizzato: lo è stato proprio lo spirito di un popolo con una storia grande, con un orgoglio che la maggioranza di noi italiani non ha mai provato nei confronti della nostra patria.

Non voglio addentrarmi in inutili disquisizioni sulla matrice jihadista del barbaro attentato.
Posso solo dire che il presente è davvero fosco e dopo quello che è successo a due passi da dove sorgeva la Bastiglia lo è ancora di più.

Non ho avuto (forse) mai abbastanza coraggio nelle mie scelte professionali e non solo. Posso però assicurarvi che, se la guerra alla civiltà fosse dichiarata apertamente (abbiate il coraggio di prendervi la responsabilità dei vostri crimini, terroristi del C.), io saprei da che parte stare.

Vive la libertè.


domenica 4 gennaio 2015

Diavolo Rosso, che vita: buon compleanno, Maestro

Oggi sono stata chiamata effervescente da una cara amica: non nascondo che l'aggettivo mi abbia fatto piacere, tanto più perché, per molto tempo, di bollicine nelle mie vene ne sono scorse davvero poche. Gli ultimi giorni del 2014 e i primi del neonato di soli quattro giorni, però, sono stati miracolosamente straordinari, per cui, grazie Silvina: un po' di effervescenza mi si addice proprio in questo momento.

Ieri, per dire, ho fatto una pazzia, di quelle che nella mia situazione lavorativa nulla non mi sarei mai dovuta concedere: mi sono comprata ben due paia di scarpe nuove. Del primo (scarponcini blu di non so quale sfumatura; ma una veramente glamour, comunque) avevo obiettivamente bisogno e per 44 euro direi che ci potevo pure stare dentro. Del secondo, invece, beh... ma come potevo lasciare in quella nicchietta tanto splendore giapponese? Sì, perché sono scarpe Made in Japan, tutte naturali, veramente fichissime, con quella lampo sul tallone e la punta da Nonna Papera.

Come le ho provate, ho capito che erano le mie. Ridendo dentro di me, oltretutto, mi sono pure detta: dovrò pur avere un aspetto super-fico (ovviamente tarato sulle mie micro-possibilità) quando partirò per Parigi alla volta del Grand Rex Theatre, dove il 26 e 27 gennaio prossimi suona (e canta) il mio Maestro Paolo Conte.

Non contenta, ho pure cercato sulla guida di Parigi in libreria l'indirizzo preciso del teatro (Rue Poisonniere qualcosa: che bell'indirizzo) e gli hotel in zona.
Che male c'è a sognare a occhi aperti?
Era così tanto tempo che non me lo concedevo.

Avverto un'energia strana, come se veramente Branko e gli altri astrologi de noantri avessero ragione. Oppure, più probabilmente, sto covando l'influenza, visti gli sbalzi di temperatura di questi giorni. E comunque, finché dura, me la godo.

Dedico ai sognatori di ritorno come me Diavolo Rosso, una delle più belle canzoni dell'avvocato astigiano, augurando innanzitutto a lui, che giusto il giorno della Befana compirà 78 magnifici inverni, un affettuoso buon compleanno (manco se fosse mio padre) a voi di conservare il più possibile, in ogni momento, la voglia di vivere. Oltre ogni dolore.

Buone Epifanie a tutti.



giovedì 13 novembre 2014

Donatella Di Pietrantonio a Fermo: un miracolo destinato a sedimentare


Io credo nei miracoli che la gente può fare, canta Cristina Donà nel penultimo album: del suo pezzo ho sentito qualche settimana fa la versione acustica con kazoo, uno strumento che ho imparato a conoscere e amare con il "mio" Maestro astigiano.
Più di qualcuno mi ha accusato di essere un po' buonista, anche se in genere me lo hanno detto in tono scherzoso.

Sapete che vi dico? A volte vorrei esserlo davvero: solo così potrei, forse, risparmiarmi questa continua alternanza di speranza e disillusione.

E in ogni caso io ai miracoli ci credo per davvero.
Esattamente come canta Cristina, quelli migliori vengono proprio dalla gente che tanto ci spaventa.
Dalla medesima, certo, possono arrivare anche discrete batoste, ma che bisogno c'è di ribadirlo ogni volta?

Quel che ho vissuto sabato scorso al Centro San Rocco di Fermo, per dire, è un esempio del tipo uno (più zuccheroso del diabete).
In un luogo nel quale normalmente mi sentirei a disagio, ho invece vissuto momenti di infinita armonia. Il merito è tutto di Guglielmina Rogante, la mia cara amica professoressa-ricercatrice che fa parte del centro culturale fermano.
E' stata lei a propormi di dialogare con Donatella Di Pietrantonio, la scrittrice abruzzese che ho conosciuto due anni chiamata (letteralmente) dal suo esordio nel romanzo, Mia madre è un fiume, trovato per caso in una libreria di Pescara.

Davanti a una platea attenta, in una sorta di trance concentrato, ho posto le mie domande a Donatella, favorita grandemente dall'introduzione di Guglielmina, che con la sua consueta (per me e per chi ha avuto occasione di ascoltarla) preparazione e sensibilità, è riuscita a cogliere diversi aspetti della produzione letteraria della scrittrice nativa di Arsita, nel Teramano, ma da anni residente a Penne, un incantevole borgo del Pescarese, predisponendo quest'ultima al confronto aperto e sentito che poi ha avuto seguito.

Tra le osservazioni di Guglielmina mi ero annotata, forse per dominare un po' la mia ansia, le seguenti parole: "lingua che non si autocompiace", "sguardo femminile", il terremoto aquilano come "metafora di tutti i crolli"; e poi ancora "evoluzione impercettibile dei sentimenti dei protagonisti" con conseguente "metamorfosi interiore di tutti i personaggi".
Il tutto era riferito non solo al primo romanzo, evidentemente, ma anche a Bella mia, il secondo dedicato all'Aquila e alle lacerazioni soprattutto interiori che tuttora albergano nei cittadini del capoluogo abruzzese a distanza di quasi sei anni dal sisma.

Di Donatella Di Pietrantonio Guglielmina riconosceva poi la sua appartenenza fortissima all'Abruzzo, nella lingua "pietrosa" e nell'attenzione quasi inconscia alla memoria collettiva della sua gente: una gente dedita alla cura della terra e alla pastorizia, rimasta in massima parte povera per millenni, oggi strappata a quei ritmi antichi da una globalizzazione forse ancora più disorientante.

Come si riemerge dal lutto, interiore e sociale, sembra chiedersi pagina dopo pagina Donatella?
Quando si comincia davvero a farlo, le ho chiesto a mia volta a un certo punto del nostro dialogo?

Donatella lo ha mostrato con precisione in entrambi i romanzi.
Ho trovato davvero illuminante quando, riferendosi al primo, lo fissa in quell' "adesso basta", che pronuncerebbe dentro di sé l'io narrante, la figlia di Esperina Viola, colei che deve accettare, volente o nolente, di non essere stata sufficientemente amata dalla madre che ormai le si presenta come un albero secco sotto la cui ombra non si può più giustificare.

E ho in cuor mio ringraziato moltissimo Donatella quando ha esposto pubblicamente il rovescio della medaglia di ogni amore, persino di quello verso i figli. Non c'è alcun "ti amo" che non nasconda anche un "ti odio", ha detto proprio la scrittrice. Ed è solo oggettivando i nostri sentimenti, pure i più crudeli, che possiamo cominciare a guarire.

Non ha, tra l'altro, neanche avuto paura di confessare i suoi lunghi anni di analisi: per lei sono stati anzi fondamentali per imparare a scrivere per davvero.

E io credo che abbia proprio ragione: la rabbia, per esempio, va riconosciuta, va per l'appunto "oggettivata" in qualche maniera, per poterla raccontare.
In parte, mi è successo così quando ho narrato su questo blog del terribile incubo ospedaliero.
Temo però di non essere ancora del tutto guarita: ogni tanto, mi sveglio nel cuore della notte, e mi ricordo di tutto.

Mi ha molto sollevato, pensandoci per un breve flash, durante l'incontro di sabato scorso, sentire dalla bocca di Donatella la definizione che Ennio Flaiano, altro grande abruzzese, benché emigrato nella capitale, dava del medico contemporaneo, da lui chiamato "il cretino specializzato".

E mi ha emozionato alquanto percepire l'imbarazzo che la scrittrice sottolineava di aver provato nel presentare la sua storia aquilana nella città ferita. Chi sono io, si è detta, per parlare di un dolore che non ho vissuto direttamente?

Ed è esattamente per questo motivo che bisognerebbe sempre pesare le proprie parole, soprattutto quando presuppongono un pubblico.
Chi scrive per mestiere ha una grande responsabilità, insomma. E anche chi lavora con il dolore altrui.

Per tutte queste ragioni, sono davvero contenta del miracolo di un incontro destinato a sedimentare.
Sono certa che mia mamma, con me nella gonna che indossavo e non solo in quella, è stata felice per me.

Alla prossima, belle donne.
:-)

mercoledì 29 ottobre 2014

Paolo Conte e le ore lievi (grigio-celesti) di cui abbiamo bisogno



Giornata grigiastra, com'è piuttosto frequente in questo periodo dell'anno.
L'aggettivo declinato in "stro/a", mi fa sempre pensare a Paolo Conte, come consideravo l'altro giorno con una cara amica del Nord. Nelle parole e negli atteggiamenti di quest'affascinante donna, ci vedo molto del Maestro astigiano, "even though", sebbene, lei e lui abitino in due zone del Settentrione d'Italia molto diverse.

Quanto vorrei andare nell'Astigiano, la terra di nascita dell'avvocato baffuto. Nelle sue canzoni, infatti, oltre agli zzzarazz e alle note alla Duke, ci vedo tanta nebbia ghiacciata e lunghe notti brumose.
Dicevo sempre all'amica contiana nell'anima, che in Snob, il nuovo album dell'amato artista piemontese, non ci sono brani che mi abbiano più di tanto commosso. Il che non significa affatto che non mi sia piaciuto.
Come ho scritto nell'altro post che gli ho di recente dedicato, l'ho solo trovato più leggero, come se l'avvocato, lavorando di gomma, abbia volutamente sfrondato le sue note e le sue parole di tutto ciò che potesse risultare troppo enfatico.

Non siete d'accordo? Pazienza, me ne farò una ragione.
Però, se ci pensate un attimo, prendete, per esempio, Tra le tue braccia, da Nelson, e L'amore che da Psiche. Entrambe, nella costruzione della melodia e nei testi, vorrebbero spingerti a esacerbati sospiri d'amore, seguiti da lacrime di disperazione amara.
In Fandango, invece, quel "non mi guardare, non farmi pensare più a te", assecondato (anzi: affiorato sul) dal tema musicale prescelto, sembra dirci l'esatto contrario.
Basta lacrime, basta lacerazioni del cuore, voltiamo pagina.

Snob, in definitiva, lascia le emozioni forti sullo sfondo, preferendo tinte pastello sfumate, celestino-grigiastre, per l'appunto. Su tutto, mi pare proprio di vedere il sorriso da gatto di Conte, che deve averne viste talmente tante da desiderare solo l'armonia.

Snob è dunque, per me, un disco dispensatore di pace, anche esteriore.
Mi fa sorridere, sognare, a tratti persino ridere.
Tutt'altre sensazioni ho provato al contrario con canzoni come Gioco d'azzardo, Come mi vuoi?, Elegia (una delle più belle scritte dal Maestro) e qualcun'altra.

In Snob ci vedo tracce di Stai seria con la faccia ma però (Wanda, per farla breve), di Via con me, pezzo perfetto e immortale, e pure di un po' di "napule" sabauda che tanto mi diverte.
L'unico brano che, forse, potrebbe alla lunga farmi scendere qualche furtiva lacrima è Tutti a casa, un walzer (almeno penso sia un walzer!) che mi dà una nostalgia per un'Italia che non ho mai vissuto che davvero non saprei spiegare. Parlo dell'Italia dei film di Don Camillo, di Totò, delle cucine povere come quelle di mia nonna, il riscaldamento precario (come il mio di adesso...) e cose così.

C'è infine una canzoncina tenera che sembra parlare direttamente alla sottoscritta, come di sicuro penseranno molte signore e signorine innamorate della musica del Nostro.
Parlo, per l'appunto, di Signorina saponetta, allietata dal ticchettio della macchina per scrivere, una Olivetti, come c'è scritto nelle note del disco, chissà se proprio la stessa che aveva anche mio padre, sulla quale mi dilettavo da bambina.

Anche in quel caso niente lacrime, solo occhi che si illuminano, alla Amelie che, ahimè, sono stata per davvero.
Che cos'altro posso aggiungere?
Meno male che ci sei, Maestro.
Di ore lievi abbiamo bisogno. Di evasioni innocenti pure (Battisti era un altro che la sapeva lunga).
Per sopportare meglio le pesantezze del tempo, troppo spesso privo di "ore inglesi".

Di nuovo buon ascolto, amici.

mercoledì 15 ottobre 2014

Paolo Conte e la magia che si rinnova. Crescendo ancora

Gli anticorpi non collaborano, ma cerco di non pensarci concentrandomi piuttosto su ciò che di bello mi è successo non meno di ventiquattr'ore fa.
Sotto il piatto rovesciato della cena ho trovato Snob, l'ultimo album del Maestro Paolo Conte.
A regalarmelo, naturalmente, il suo omonimo fumatore di pipa, che ha così facendo anticipato l'acquisto che già aveva in mente di fare per me. E' riuscito a sorprendermi: anzi, sono riusciti a sorprendermi entrambi.

Perché se è vero che nel nuovo disco dell'avvocato astigiano si trova, inevitabilmente, l'eco di sue canzoni e pezzi del passato (le parentesi mi contraddistinguono: non potrei smettere di usarle neanche volendo, come Conte con il kazoo e le sue note sgangherate alla Duke Ellington), in Snob ho trovato anche una freschezza tutta nuova, che per esempio non c'era in Nelson, uscito a troppa pochissima distanza dalla scomparsa di Renzo Fantini, grande amico e mentore del Nostro.

Molto originale è per dire l'impostazione del brano che dà il titolo all'intero album, che vola via in soli 49 minuti e una manciata di secondi: la melodia è malinconica, francese come solo un italiano savoiardo (all'incirca!) può essere, ma le parole sono sottilmente, sfacciatamente, ironiche.
Quanto si deve essere divertito a giocare con i suoi stilemi più conosciuti: l'amore che muore, il tinello marron e l'italiano che non parla il tedesco, tornano potenti in questa canzone così apparentemente semplice, poche note cucite con una classe e una sapienza da capo indiano che mi hanno davvero scaldato il cuore.

Seduta sul divano rattoppato che tanti momenti ha visto del mio più antico e recente passato, mi sono lasciata andare all'ascolto in cuffia dei quindici pezzi che compongono il nuovo lavoro contiano, alternando brividi, sorrisi interni, sorrisi aperti, battere di piedi e qualche lieto aggrottare di sopracciglia, come solo con lui mi succede.
Avevo quasi scordato che effetto mi fa ascoltarlo. 
Sono successe troppe cose negli ultimi mesi, troppo dolore, troppa rabbia, troppa poca buona vita.

Ieri sera, dopo tanto tempo, mi sono re-innamorata di lui e della sua musica, come nel brano (tra quelli che mi ha richiesto un ascolto più attento) che ha chiamato Gente, che ha per sottotitolo un acronimo che per l'appunto significa "che si innamora di noi".
Mi sono immaginata, leggendone le parole, che sia stato scritto per parlare dei fan, di noi fan, stregati e avvinti come bambini davanti ai cartoon.

Non mi ha richiesto nessuno sforzo, invece, innamorarmi di Fandango, nella sua commovente perfezione. Sono anzi sicura che sarà successo lo stesso a chi segue il Maestro praticamente da sempre.
Mio cognato Massimo Del Papa ha giustamente ricordato che sono ormai quarant'anni che l'avvocato con i baffi da gatto si è trasformato in un cantautore: mi sto sempre più convincendo che la mia nascita giusto agli esordi del decennio più difficile della storia italiana recente (tolto il momento presente, che però non riesco, ovviamente, a comprendere appieno) abbia segnato per sempre anche i miei futuri gusti non solo musicali.

Dovevo incontrare, un giorno, il Maestro astigiano: era scritto nel mio Dna, nelle nebbie abruzzesi così diverse da quelle della pianura padana, ma così simili per il romanticismo sottotraccia che mi si è appiccicato addosso.
Come Conte, sono una provinciale anch'io, abituata a cibi "sostanziosi", come scrive sempre in Snob, a canti "che van bene per soldati e muli", alla presa in giro di chi, di più nobile lignaggio vero o presunto, se la tira, l'unica arma di difesa possibile contro chi sarà sempre più educato e colto di noi.

E chissà se quella nostalgia per anni che non abbiamo mai vissuto non sia stata provocata dall'essere cresciuti in luoghi appartati, eternamente vintage nonostante la globalizzazione, in mezzo a quegli odori di campagna che ogni tanto si fanno largo pure nella piazza principale della città, protetti da quei maglioni blu dei papà ragionieri e le gonne a metà ginocchio delle mamme maestre, coccolati dagli zuccheri saturi dei diplomatici della domenica e delle patatine consumate lungo la strada del ritorno dalla messa con l'amichetta del cuore.

A differenza sua, però, a casa mia non circolava musica jazz, ma molta (non sempre buona) musica italiana. L'omonimo con la pipa mi ha preso in giro per anni per una musicassetta (un nastro, come diceva sempre mio zio Gigi) di Fausto Papetti. Ovviamente, non era mia, ma ne rammento vagamente la copertina, così simile a una delle peggiori, anche per lo stesso Conte, della sua produzione anni Settanta.
Volente o non nolente, insomma, anche sul Maestro sono rimasti attaccati quegli anni là, quelli del suo esordio: ai colori acidi delle Polaroid delle ricorrenze di famiglia, mi riportano diversi brani del nuovo disco, in particolare Glamour, con quel tedesco veramente improbabile e perciò simpatico, poi, almeno in parte, Incontro e soprattutto L'uomo specchio, con quella costruzione del testo presa pari pari dalla Settimana enigmistica.

Non sono in grado di cogliere la maggior parte dei giochi linguistici del Nostro, vista la mia totale imperizia con sciarade e rebus (mentre sono praticamente un asso con i crittografici), ma ho la certezza assoluta che i suoi momenti di relax siano spesso impiegati nella costruzione di calembour e boutade di varia natura.

Me lo figuro mentre ride da solo per qualche invenzione un po' demenziale, mentre si arrotola i baffi ghignando contento.
Immagino che abbia una fantasia immensa e meravigliosa, direi, finalmente, cinematografica.
Ve lo confesso: finora non avevo mai completamente capito perché più di qualcuno abbia attribuito questo aggettivo alla musica di Conte.

Posso dirlo di averlo compreso pienamente solo adesso, con Snob, ascoltando in particolare, tra i pezzi di sapore sudamericano, Argentina e Manuale di conversazione, più che Tropical, la canzone che ha anticipato l'uscita dell'album, e Maracas.

Perché mi sembrano cinematografici? Semplice: perché ho proprio visto, chiaramente, davanti a me, l'autista peruviano di camion che carica l'autostoppista italiana e che alla fine è contento che scenda, non essendo in grado di imbastire neanche la più banale delle conversazioni, e gli italiani emigrati che frustano le scarpe dei ricchi fazenderos, sotto un cielo bianco che fa star male per la nostalgia.

Ha giocato più volte, Paolo Conte, con i ritmi e le suggestioni dell'altro capo dell'Oceano Atlantico, ma soprattutto nella produzione più matura, penso in maniera particolare all'album Elegia, la freschezza di brani come Messico e Nuvole e Sudamerica avevano lasciato il posto alla fatica del vecchio proprietario del Mokambo, che non si rassegna al tempo che non torna più.
Cinematografici anche quei brani, sì, ma in modo triste, quasi tragico, direi.

In Snob, invece, la leggerezza è tornata a spruzzare di amore per la musica tutti e quindici i pezzi, alcuni dei quali, c'è da scommetterci, appartengono a epoche passate, come il ritratto di copertina del Nostro, che pare arrivare direttamente dagli eterni Seventies.

Se non li aveva ancora tirati dal cassetto, evidentemente, non erano ancora maturi: potrà sembrare strano, ma sono assolutamente certa di ciò che sto per scrivere.
A settantasette anni suonati, Paolo Conte è cresciuto ancora, passato com'è da un lutto così serio come la morte del suo sodale Renzo e dalle morti, presumo altrettanto dolorose, di un sacco di persone fondamentali nella sua spero ancora lunghissima esistenza.

Sto parlando anche di me, è evidente, ma la grandezza di Paolo Conte è talmente universale da lasciare davvero disorientati tutti quelli che vorrebbero mettersi lì a cercare di capirlo, fingendo una gravità che il Nostro assolutamente non possiede.

Più invecchia, anzi, più prende in giro. Sé, innanzitutto, e gli altri.
Perché l'unica cosa da prendere sul serio è la musica.
Quella per cui è nato.
Basta solo assistere a un suo concerto, senza paraocchi e abiti sbagliati, per comprenderlo pienamente.
Non vedo l'ora di rivivere quella magia.

Grazie ai Paoli della mia vita.
E buon ascolto a tutti noi.

lunedì 13 ottobre 2014

Il senso delle cose secondo Cristina Donà



Buon ascolto.


E ho capito che mi basta, 
mi basta il tuo nome, 
per far esplodere le rose 
su questo balcone...

Troppo bella.

E tra poco... Paolo Conte!
Meno male la musica.

martedì 22 luglio 2014

Il mio sogno verde comincerà





Stamattina sognavo di piangere al telefono con un tipo che non vedo né sento da anni. Si tratta di una persona con cui ho lavorato anni fa, quando ancora credevo nel giornalismo sociale.
Mi spiace, ma non ci credo più, anche se le ultime cose che ho fatto hanno più o meno riguardato lo stesso ambito dal quale sono partita.
Tutto ciò che scrivo, lo scrivo onestamente, sia chiaro, ma mi sono ormai convinta che non esista il giornalismo dei buoni e quello dei cattivi. Esiste, sempre e comunque, il buono e il cattivo giornalismo. E il mio è un buon esempio di lavoro fatto con il cuore e la testa, ma non è giornalismo.

Non lo è semplicemente perché non scrivo per nessuna testata importante, che è l'unica maniera per far passare il proprio messaggio. Almeno in una società come la nostra, sempre più rapida e poco incline all'approfondimento. Chi approfondisce, voglio dire, è un numero limitato di persone; io stessa, quando ho più tempo, mi accorgo di quante cose ignoro dell'attualità.

Nel mio sogno chiudevo la telefonata dicendo "tanto cambierò lavoro, quindi che cosa vuoi?". Però piangevo, piangevo come una bambina, consapevole che il sogno degli anni d'oro se ne sia andato con il tempo volato via.

Adesso ne comincerà un altro. I buddisti sarebbero fieri di me per questa mia auto-iniezione di coraggio. Sì, ne comincerà uno nuovo, verde, come uno dei miei colori preferiti. Più sereno, più pratico, anche.
Cambierò lavoro. Ci proverò con tutta me stessa. Sperando di poter continuare comunque a scribacchiare, questo sì. Perché senza le lettere rotolanti io non ci so proprio stare.

Non chiedetemi che cosa farò. Sono curiosa anch'io di scoprirlo.
Ma il sogno verde sta per arrivare. Anche se questa canzone parla di un commiato, non si tratta di un addio, bensì di un arrivederci a un'esperienza che doveva comunque finire.
Tutto finisce, tutto passa. E tutto ricomincia sotto un'altra forma. E da un'altra parte.
Vero, mamma?