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venerdì 8 luglio 2016

#Emmanuel, #Fermo e la scimmia che è in me



Ho cominciato a lavorare per un sito di informazione locale a Fermo a primavera inoltrata, sottoscrivendo un contrattino che mi permette, diciamo così, di tamponare un po' il flusso in uscita dal mio conto corrente.
E' una piccola premessa necessaria giusto per dirvi che, in fondo, non sono una che ha grandi pretese.
Vorrei solo lavorare, pagarmi qualche spesa e sentirmi meno in colpa per aver buttato nel cesso le mie possibilità di carriera lasciando la grande città.
Fino a martedì scorso, tutto sommato, mi era sembrato possibile: mi era parso, voglio dire, che me ne potessi stare qui sulla costa adriatica, lontana dai grandi fatti della storia, a scrivere di sagre, di consigli comunali, di concerti e tante altre belle e piccole cose che accadono in provincia.
Ma poi è successo quello che ora sa tutto il mondo, a pochi metri, oltretutto da me e dai colleghi che ho incontrato in questa micro fetta di 2016.

L'autopsia, a breve, dirà penso con precisione, se Emmanuel è morto per via del pugno subito o per arresto cardiaco o chissà cos'altro.
Il punto, però, non è questo. La causa scatenante resta quell'insulto "scimmia africana" che il buon cuore dell'arrestato fermano (qualcuno lo dipinge come un povero diavolo, purtroppo anche tra qualcuno dei miei conoscenti) si è permesso di indirizzare alla sposa ventiquattrenne o forse anche al marito e all'amico che era con loro, chi lo sa.

Credo di aver  conosciuto veramente Fermo solo ora, dopo undici anni che ci abito e altri quindici che la bazzico.

Ho vissuto (qualcuno lo sa) l'esilio in terra marchigiana per circa otto anni dopo la mia esperienza, finita malissimo, al settimanale dell'arcidiocesi, ma, davvero, soltanto adesso sto capendo perché, a distanza di tutti questi anni, io continui a rimanere, per la maggior parte della gente che ho conosciuto (non per tutti, ovvio), un'estranea.

Completa estranea.
Anche ieri in Prefettura, tra colleghi locali e non, ho provato un forte, dolorosissimo, senso di solitudine.

Ho sentito giornalisti che, tra una telefonata a un avvocato e l'altra, parlavano di vacanze in Sardegna, altri che protestavano per non aver avuto abbastanza ribalta (Alfano effettivamente si è degnato di rivolgerci la parola con quasi due ore di ritardo). Ho fatto da dittafono vivente grazie al computer del collega per mancanza di mezzi tecnologici che qualunque giornalista che si dica tale dovrebbe avere (se volete, ve lo spiego meglio perché non li posseggo, se non fosse abbastanza chiaro), ho scritto su una scrivania di fortuna in mezzo agli scatoloni e ho lavorato cercando di non pensare allo squallore che ho visto intorno a me.
Per esempio, quello di giovani colleghi che si fanno i selfie esaltati dalla giornata speciale col ministro, dei mezzi sguardi di scherno lanciati tra una strisciata sullo smartphone e l'altra, e poi le chiacchiere da social-paese sul buon Mancini (e sugli italiani uccisi dai brutti negri) e quelle di chi manifesta, strumentalizza e, ancora una volta, cerca solo e sempre di mostrare se stesso.

Non sono fermana, non sono chietina, non sono milanese, non sono giornalista, non sono fotografa, non sono militante, non sono qualunquista, non sono.
Finora ho pensato questo sotto voce, in cuor mio anche con una certa autoironia da disadattata cronica.

Da martedì qualcosa ha cominciato a rompersi.
Sarà questo il capodanno che aveva previsto Branko per noi cancerini del cavolo questo maledetto martedì.

Adesso è ora di dire chi sono e cosa provo.

Sono antirazzista e antifascista. Sono una giornalista. Sono una che scrive e che fotografa. Sono un'amica dei più deboli, da qualunque posto provengano, purché siano onesti e sinceri (la badante albanese che ha trattato male mia madre mentre se ne andava, non posso perdonarla, non ci riesco). Conosco il dolore. Conosco il lutto e so che la violenza genera, sempre e comunque, la violenza.

Sappiatelo, cari conoscenti, anzi: non più cari conoscenti, se siete tra quelli che a mezza bocca dicono il contrario di quello che sto sostenendo in questo istante. Rispetto le opinioni, ma non potrete mai essere miei amici.

Quello che è successo a Fermo, nella cittadina dalla quale sono fuggita per non soffocare scegliendo la costa per potermene, almeno, ogni tanto, più agevolmente andare, è di una gravità enorme.

Ed è ancora più grave, e più triste, che solo in pochi qui se ne siano veramente accorti.

Una cosa del genere non si liquida con una fiaccolata (pure giustissima, naturalmente), né con un corteo antirazzista con i soliti slogan visti mille volte.
Da una barbarie di questa portata ci si può (forse) risollevare studiando, leggendo, viaggiando, incontrando e, soprattutto, guardandosi bene innanzitutto dentro e poi anche l'un l'altro, negli occhi. Senza pregiudizi. Anche verso chi viene da sotto la linea tracciata dal fiume Tronto. Ce la fate?

Dimenticavo. Non sono credente. Non sono.
Credo, però, ancora nell'uomo. E, di più, nella donna e spero che la giovane Chimiery diventi un giorno un medico, come sognava di fare prima che la tragedia le piombasse in casa, dilaniandola materialmente e moralmente. Spero, anzi, che sia proprio lei un domani a curare i Mancini di turno che, temo, continueranno a spuntare come funghi.

Finisco con due canzoni del mio amato Paolo Conte che alla scimmia e all'orango ha dato una dignità che la maggioranza dei cosiddetti esseri umani non avranno mai. Se le scimmie sono queste, allora lo sono anche io.