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lunedì 18 gennaio 2021

Paolo Conte, musica (e parole) per i miei piedi. Tutta la vita

 


"Oggi non ho voglia di patate/ Ogni schfizio non c'è più/ ogni schfizio non c'è più".

E' un verso di "Ma sì, t'a vo' scurdà", una canzone (in un buffissimo napoletano) che ho riascoltato assieme alle altre undici tracce contenute in Parole d'amore  scritte a macchina, l'album di Paolo Conte del 1990, colonna sonora dei primi mesi di università.

Naturalmente, era già un po' che frequentavo la musica dell'Avvocato. Scrivo così perché ormai do per scontato che i miei affezionati e sparuti lettori sappiano che ho cominciato ad ascoltarlo in seconda liceo.

Ora posso dirlo (sempre ammesso di non averlo già fatto: soffro della sindrome di zio Paperone quando attacca con i suoi racconti sul Klondike, vi avverto). 

A farmelo conoscere, ci aveva pensato un compagno di scuola. Per la precisione: "IL" compagno di scuola di cui tutte noi, chi più chi meno, eravamo innamorate (la chat della classe non dovrebbe accorgersi dell'esistenza di questo post, ma anche se fosse, estica, ormai c'abbiamo tutti un'età).

Quante volte avrò ascoltato Max, con la sua lucidità che non semplifica? Era contenuto in Aguaplano, l'album che il compagno di scuola suddetto, forse, mi prestò addirittura in vinile. Di sicuro ricordo le cassette con la sua bella grafia, che gli avrei invidiato comunque, anche se i miei occhi non avessero dardeggiato cuoricini, paragonandola alle mie inintelleggibili zampe di gallina.

Ho in mente quella volta che con altri compagni di classe ci siamo ritrovati a guardare di straforo, al teatro della nostra città, uno spettacolo di Gabriele Lavia e Monica Guerritore. Credo fosse una tragedia greca: se mi sforzassi di googolarla, potrei risalire probabilmente anche al titolo.

Direi però che tale fatica non sia necessaria, tenendo conto di quanto poco me ne fregasse in quel momento, presa com'ero dal lungo assolo di Max che mi risuonava nella testa, in abbinamento, ovvio, alla gioia provata per la vicinanza con il suddetto compagno. 

E anche se mia mamma mi ripeteva: "Lascialo perdere, non gli interessi", io niente. Oltre ad "Aguaplano", l'album doppio che contiene "Max", sempre lui, del resto, mi aveva passato in cassetta anche Concerti, il live che ho letteralmente consumato pure negli anni successivi (ndA del 19 gennaio 2021: trattasi di un falso ricordo: la cassetta di "Concerti" era di mia sorella, ma per associazione io la collego comunque al sognato compagno di liceo). 

Direi anzi che ho smesso di farlo solo quando sono usciti Tournée1 e Tournée 2, i mitici cd con le copertine rispettivamente rossa e celeste, usciti in anni in cui facevo una capa tanta a tutti i maschi che mi si avvicinavano nel tentativo (riuscito o meno) di corteggiarmi.

"Eh eh eh, rido perché, a parte lo stile del tuo legale/sono parole tue d'amore scritte a macchina, baby baby/va tanto bene per me". Ho inserito questa canzone in una raccolta personalizzata che ho regalato a un uomo. A parte l'epilogo disastroso di quella vicenda, niente, sarebbe stato impossibile per me non condividere con chi mi piaceva la mia totale venerazione per il baffuto musicista astigiano.

Tutto quello che sarebbe successo dopo, però, ai tempi di "Aguaplano" e di "Concerti" non avrei mai potuto immaginarlo. E meno male. Sennò, sai che noia.

Pochi giorni fa, però, mi è tornato in mente questo disco, forse un pochino snobbato dalla sottoscritta, diciamo dai trent'anni in avanti. troppo presa com'ero dai live di cui dicevo prima e dai confronti tra le varie versioni di Diavolo Rosso (qua c'è il violino, qua i fiati, là di più le chitarre etc etc). 

Fatto sta, insomma che, quest'anno, poco dopo il 6 gennaio, giorno dell'84 esimo compleanno del Maestro, mi è apparso come una epifania Pittori della domenica nella raccolta che ascoltavo su Spotify, ed eccomi là, con loro sul ponte, le mogli a casa, a trasudare, loro e me, mille frammenti. 

Mi sono rivista nella grande arena dove si tenevano le lezioni del primo anno di Scienze Politiche, affollate come mai più durante tutto il resto dell'università. Ero molto disorientata: Pisa mi pareva un pianeta lontanissimo, lo era davvero, a pensarci adesso, ed io probabilmente lo raccontavo con lo sguardo.

Renè, si chiamava così, un ragazzo riccio con i grandi occhi chiari che avevo affianco chissà a quale lezione. Con lui c'era, penso, la sua ragazza, venivano tutti e due credo da Castiglioncello, in ogni caso una località marina della Toscana. Non so come, non so quando (ma so il perché), gli ho parlato di Paolo Conte. "Non sai che è uscito un altro disco?", immagino mi abbia detto a un certo punto il ricciolino. La volta dopo che lo rivedo, eccolo lì con la cassetta.

Dopo quella volta, non l'ho praticamente mai più reincontrato o, se l'ho fatto, nel frattempo avevo cominciato a stringere qualche amicizia (anche femminile, eh: anche alle amiche ho parlato dell'avvocato, sia chiaro), per cui lui e la sua ragazza sono spariti dal mio orizzonte.

Io però non ho dimenticato il suono di Dragon, identico al ritmo dei molti treni che ho preso, uguale al pulsare del mio sangue in tutti questi lunghi anni.

Curiosamente, proprio da questo Lp è tratto anche Happy Feet, il pezzo scelto da Fabio Massi per la puntata natalizia del suo programma radiofonico Grafite, quando ha chiesto a noi amici di consigliare agli ascoltatori, in un audio di non più di venti secondi, una canzone e/o un libro. 

Metti una canzone a caso del Maestro e mi farai contenta, così io. "Musica per i suoi piedi, Madamatap". Grazie ancora, Fabio e Ilaria Gregonelli, co-conduttrice del programma, che va in onda tutti i martedì alle 21 sulla Webradio di Fermo Stazione 41

Ascoltateli e fate caso alla rubrica L'albero di Grafite, il nuovo progetto lanciato dai conduttori e dalla redazione del programma, per promuovere il dialogo tra letteratura e musica, due arti che ci vanno fin dentro all'anima, grazie ad alcuni, fortunati incontri, come quello che ho fatto io con il "mio Maestro", per tutta la vita. 

Parapaponzipò!