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domenica 3 febbraio 2013
Minime vittorie per grandi conquiste
Non gioco spesso a carte e mai alle lotterie: sarà per questo, probabilmente, che non vinco molto spesso.
Sia come sia, le volte in cui è successo che abbia vinto qualcosa mi sono rimaste tutte impresse nella memoria e ancora adesso, quando mi tornano in mente, mi regalano un sorriso lieve lieve.
Comincio dalla epocale partita a tennis, nel torneo detto "doppio giallo", in cui si giocava suddivisi in squadre da sette persone, ciascuna nel proprio livello. Il più scarso corrispondeva al numero 7. Com'è facilmente intuibile, io ero la settima della mia squadra. Quel giorno dovevo incontrare una donna di età per me assolutamente indefinita, anche se, a ripensarci adesso, doveva avere meno anni di quelli che ho attualmente. Io invece ero un'adolescente piazzatella ed emotiva (più o meno come ora, forse leggermente più pingue), incapace di aggressività soprattutto al di fuori della cerchia familiare. Essendo però una cancerina finita e sputata (anche se all'apparenza molto ben celata dietro l'ascendente Leone, che per fortuna sembrerebbe essermi capitato in sorte), non è mai il caso di stuzzicarmi troppo. Se pizzicata nell'orgoglio, infatti, divento parecchio (si fa per dire) pericolosa. La tipa, invece, continuava a irridermi a voce alta, lasciando intendere che con una come me avrebbe avuto vita facile. Tutti i torti, in effetti, non li aveva, visto che stavo perdendo come al solito l'ennesima sfida tipo 6-1, 6-1. La vittoria del terzo set, insomma, pareva scontata a lei e agli astanti.
E invece. Arrivammo a un quinto set serratissimo, vinto per un soffio dalla sottoscritta, grazie alla perdita di lucidità della mia avversaria, incredula troppo incredula che quel topastro bassetto gliela stesse mettendo in quel posto. Ricordo ancora la sua rabbia e la mia gioia trattenuta. Anche dopo la vittoria, infatti, mi guardai bene dal mostrarmi troppo felice, facendole magari le linguacce. Sapete che c'è? Gliele faccio adesso da questo blog, augurandomi naturalmente che abbia imparato a controllare meglio i nervi, l'unica vera arma segreta di questo gioco così bello e così faticoso. A mia volta, spero di essere diventata più capace di tenere il punto nelle situazioni, dosando aggressività e remissività nei tempi giusti. A dirla tutta, di recente ho avuto una ricaduta all'indietro, ma immagino che ogni tanto possa succedere.
Un po' di tempo dopo, invece, ebbi un colpo di fortuna vero e proprio, grazie al costume di carnevale prestatomi da mia sorella. In quegli anni, ci tenevamo parecchio a travestirci e spesso ci rivolgevamo alla sarta di famiglia per farci cucire vestiti ad hoc. Ho l'impressione di aver già raccontato questo aneddoto (sto diventando come Zio Paperone con il Klondike), quindi la faccio breve. Vinsi un premio per il costume più originale della festa di carnevale che si teneva al palazzetto dello sport di Chieti. Io non volevo neanche andarci, tanto che, per l'appunto, avevo rimediato con il costume da formica fatto in gommapiuma di mia sorella. Non dimenticherò mai quando ci chiamarono sul palco per darci i premi e le 100 mila lire (ebbene sì) spiaccicatemi sulle mani da uno degli organizzatori.
L'ultimo episodio è assai più recente e riassume, in un certo senso, entrambi gli aneddoti sopra narrati.
Martedì scorso in palestra sono stata lasciata sola nel circuito a più stazioni che ci sottopone tutte le settimane la nostra insegnante. Nessuna, voglio dire, ha voluto fare gruppo con me. Lì per lì mi sono sentita un po' persa e anche un pochino rattristata: io non avrei mai lasciato una mia compagna da sola se, formatisi i gruppi, mi fossi accorta di disparità del genere. Con umiltà, però, mi sono messa alla mia solitaria postazione a fare gli addominali. Il secondo esercizio richiedeva, invece, la posizione prona e l'uso di un pesetto per le braccia. E qui arriva il punto: Rita, l'insegnante, è venuta da me e, dopo avermi schiacciato la fronte sul tappetino e avermi rispiegato nuovamente come muovere le braccia tenendo ben stretti i glutei, se n'è uscita con un bel : "Bravissima!", che io ho metaforicamente rigirato alle mie compagne che invece dopo ho visto schiattare (ovviamente non tutte) sotto il "peso del peso". Mi avete lasciato sole? Beccatevi questa. Il resto della lezione è stata (quasi) tutta un trionfo atletico, comunque senza più astio né impermalosimenti.
Di vittorie minime di questo genere è fatta la vita. Almeno la mia.
Certo, non sempre si è disposti ad ammetterlo, ma diciamo che ci sto lavorando.
Non so perché, per esempio, ma mi sento spesso chiamata in causa dai giudizi trancianti di un giovane conoscente sul comportamento altrui: so che non si rivolge a me (anche perché, in effetti, come potrebbe? Fuori da Facebook ci siamo visti tipo tre volte), però mi fa venire una coda di paglia lunga così.
Qualche giorno fa, dicevo, ha scritto una cosa del tipo: "come si riconosce un rinunciatario? Dal fatto che dice di non aver nulla da dimostrare".
Accidenti. Mi ha dato da pensare. In generale, secondo me, dovremmo proprio uscire dalla logica del voler o non voler dimostrare qualcosa agli altri, però a noi stessi qualcosa la dobbiamo dimostrare. Eccome.
Soprattutto, poi, se si avverte un certo senso di fallimento vero o presunto, se si sa di aver buttato via tempo e chance, se la vita ci scorre troppo velocemente tra le mani.
Io voglio dimostrare di essere. Qualcuno e qualcosa. Certo che lo voglio.
In questo senso, il giovane conoscente ha ragione: abbiamo tutti qualcosa da dimostrare e da mostrare, non facciamo finta che non ci importi.
Allo stesso tempo, però, bisogna anche perdonarsi le proprie debolezze e saperle perdonare agli altri.
Forse quel tipo è troppo giovane e gli ci vorrà del tempo prima di capirlo. In ogni caso, io so che se non fossi stata in adolescenza un topastro tondetto e timido e una giovane donna emotiva, difficilmente mi sarei trasformata in un'adulta che riesco ancora a guardare negli occhi. E ad avere, in fondo, ancora fiducia nel mondo.
E pazienza se, cambiando di nuovo pelle, non avremo nessuno (o quasi) affianco.
Può essere davvero esaltante sentirsi i muscoli che pompano sangue e la testa che si fa più leggera.
Sì, l'autonomia è la conquista più grande.
lunedì 19 novembre 2012
Andare avanti, oltre le nuvole basse
Il paesaggio dietro la calza a rete (in verità si tratta di una zanzariera ormai fatta a brandelli dalla gatta Bice, che non so perché non abbiamo ancora rimosso) è solo un pezzetto di quanto ammiriamo dalla solita torre fermana. Ho scelto questo scatto per non riproporre il consueto (stupendo) tappeto di colline che ammiro tutti i giorni, tolti quelli di nebbia o nuvole basse, comunque si voglia chiamare la cappa che avvolge non di rado Fermo durante la brutta stagione. Vi dirò che certe mattine immerse nel bianco lattiginoso non sono affatto male, anche se, di certo, il cuore si allarga di più quando "calienta el sol".
E comunque, il presente post è un tappabuchi tra il precedente non proprio allegro e i prossimi che temo non saranno tanto più frizzanti.
Ho riflettuto nei giorni scorsi, aiutata in questo dalla scrittura autobiografica e da una vera amica.
Curiosamente, mi scopro sempre di più affine alle persone di vari anni più di me di quanto non mi senta ai miei coetanei. E dire che per molti aspetti sono assai infantile. Infatti amo molto stare anche con i bambini. Chissà che dietro la mancanza (diciamo meglio: debolezza) delle amicizie nella fascia d'età cui appartengo non si celi anche un mio non confessato desiderio di mantenere un certo distacco dalla realtà.
Potrebbe essere.
D'altronde, il presente fa schifo e chi lo nega un po' m'infastidisce.
Con ciò non voglio denigrare l'importanza del sentimento della speranza: solo continuando a nutrirlo, si attivano virtuosi meccanismi anti-depressivi.
Sto soltanto dicendo che con i coetanei mi viene più naturale fingere perché leggo nei loro occhi l'identica disperazione che traspare dai miei, ma mentre io non ho paura di tirarla fuori, anche per riderne su subito dopo, il grosso delle persone (tra i trenta e i quaranta, anno più anno meno) che conosco preferisce appiccicarsi in faccia sorrisetti di circostanza, per smorzare una rabbia che forse temono di non saper governare.
Beh, io invece penso che arrabbiarsi ogni tanto faccia bene, per evitare d'impazzire di frustrazioni indotte.
Poi, certo, non bisogna fare due palle così agli altri (perché sennò poi è logico che scappano), ma perserverare in un percorso di auto-consapevolezza sui propri bisogni/aspettative, quello sì.
Detto ciò, sto per ingoiare l'ennesimo, indigesto, rospo relazionale (chiamiamolo così), dimostrando a me stessa (ma chi lo sa) di non essere la polemica adolescente del liceo.
Me lo disse una volta la prof di greco, commentando non so quale mia uscita. In analoga circostanza lo ribadì anche la prof d'italiano, chiamandomi "pungente".
E d'altra parte sono nata sotto il segno (veramente di m.) del cancro: qualche pizzicata ogni tanto non riesco proprio a trattenerla.
Per fortuna, ho l'ascendente leone, un segno forte e combattivo (a pensarci bene è un mix davvero micidiale: sono una grandissima scassapalle pure astrologicamente parlando).
Sia come sia, bisogna andare avanti. Non c'è scelta.
E domani la cappa sparirà. E se non fosse, sognerò di essere a bordo di un aereo, lontano lontano, molto lontano (citazione contiana, manco a dirlo), da qui.
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