lunedì 5 gennaio 2015

Ciao, Joe, Ed e Pino. E grazie

Edward Hermann, alias il grandissimo Richard Gilmore e non solo

Occupata come sono stata ad affrontare il primo Natale senza la mia mamma, non ho avuto la forza né la voglia di dedicare qualche parola a due, da stanotte tre, personaggi pubblici che hanno influito sulla mia vita. I primi due su quella recente, l'ultimo in ordine di tempo sulla mia prima adolescenza.

Sto parlando di Joe Cocker, scomparso alla Vigilia di Natale, di Edward Hermann, scomparso alla vigilia del nuovo anno, e di Pino Daniele, che se n'è andato giusto alla vigilia della Befana.
Sull'ultimo proprio in questo momento si stanno versando molte lacrime, alcune di coccodrillo come sempre capita in circostanze simili, per cui mi limito per il momento solo a rilanciare nuovamente il pezzo di Massimo Del Papa, sentitamente sobrio come solo un asso della parola come lui sa fare quando vuole.

Su Joe Cocker rilancio di nuovo il mio provetto cognato, ma aggiungo giusto che alla vibrante voce di Sheffield ho in passato dedicato più di un post. Giusto la scorsa estate, dopo aver ricevuto dal Bipede il suo ultimo live, mi ero detta che mi sarebbe assai piaciuto vederlo dal vivo. Non ho fatto in tempo, ma da un altro punto di vista ho fatto in tempo: a conoscerlo e apprezzarlo come era giusto fare. Te ne sei andato anche tu troppo presto, Joe. Non dovevi proprio farci questa, accidenti. Non appena avrò la forza, riascolterò l'album Fire it up, che ho ancora nella mia scassata pennetta-radio, accanto alle poche cose nuove che vi ho inserito (Cristina Donà, intendo: l'ultimo e Tregua, il primo).

Della perdita di Edward Hermann, invece, sono sicura che sono in pochi a dolersi, almeno in Italia, o per lo meno tra la maggioranza di quelli che non hanno seguito la saga delle Gilmore.
Richard, il nonno di Rory e il padre di Lorelai, è sopravvissuto, durante le sette stagioni, a due diversi brutti colpi, il secondo più grave del primo. Alto un metro e novantacinque, 71 anni compiuti lo scorso 21 luglio (un giorno dopo il mio compleanno), questo mega attore nato a Washington DC ti dava l'idea della solidità fisica ed emotiva.
Non avevo idea che se lo stesse mangiando a brandelli un tumore al cervello. A porre fine alla sua agonia, hanno infatti pensato i familiari (l'amatissima seconda moglie in particolare, rimasta incinta di Ed nel 1981, durante le riprese di un film, quando l'attore era ancora legato alla prima moglie), che hanno dato l'ok al distacco da tutti i macchinari.

Della sua scomparsa ho saputo tornando in treno il primo dell'anno, dallo smartphone di mio marito. Inebetita dall'assenza di sonno, sono rimasta senza parole e senza lacrime, come mi è successo anche stamattina, quando, compulsando il mio lento accricco telefonico, ho scoperto dell'ennesima scomparsa.

Associo Pino Daniele a mia sorella Linda e ai suoi anni inquieti di adolescente. La guardavo con ammirazione (cosa che sotto sotto faccio anche adesso), perché la trovavo sofisticata nei suoi gusti, nell'abbigliamento innanzitutto, ma anche in quelli musicali.
Grazie a Linda ho conosciuto Vai mo' e Nero a metà, in particolare, e sempre grazie a lei ho scoperto di amare assai i ritmi latino-brasiliani (anni dopo ha avuto il periodo Caetano Veloso e Gilberto Gil) e in generale di non riuscire a vivere senza una qualche colonna sonora.

Nel tempo ho naturalmente sviluppato un gusto autonomo, ma quel che accade a 13-14-15 anni ti resta attaccato alle vene più di un'infezione.
Dedico ai miei anni verdi (e a quelli di molti di voi, passati, presenti e futuri) una delle canzoni di Pino che ho amato di più:



Aggiungo giusto una postilla: voi che ci avete fatto sognare, piangere, ridere e pensare non siete vissuti invano. Fortunate le persone che vi hanno incontrato.

Grazie.

domenica 4 gennaio 2015

Diavolo Rosso, che vita: buon compleanno, Maestro

Oggi sono stata chiamata effervescente da una cara amica: non nascondo che l'aggettivo mi abbia fatto piacere, tanto più perché, per molto tempo, di bollicine nelle mie vene ne sono scorse davvero poche. Gli ultimi giorni del 2014 e i primi del neonato di soli quattro giorni, però, sono stati miracolosamente straordinari, per cui, grazie Silvina: un po' di effervescenza mi si addice proprio in questo momento.

Ieri, per dire, ho fatto una pazzia, di quelle che nella mia situazione lavorativa nulla non mi sarei mai dovuta concedere: mi sono comprata ben due paia di scarpe nuove. Del primo (scarponcini blu di non so quale sfumatura; ma una veramente glamour, comunque) avevo obiettivamente bisogno e per 44 euro direi che ci potevo pure stare dentro. Del secondo, invece, beh... ma come potevo lasciare in quella nicchietta tanto splendore giapponese? Sì, perché sono scarpe Made in Japan, tutte naturali, veramente fichissime, con quella lampo sul tallone e la punta da Nonna Papera.

Come le ho provate, ho capito che erano le mie. Ridendo dentro di me, oltretutto, mi sono pure detta: dovrò pur avere un aspetto super-fico (ovviamente tarato sulle mie micro-possibilità) quando partirò per Parigi alla volta del Grand Rex Theatre, dove il 26 e 27 gennaio prossimi suona (e canta) il mio Maestro Paolo Conte.

Non contenta, ho pure cercato sulla guida di Parigi in libreria l'indirizzo preciso del teatro (Rue Poisonniere qualcosa: che bell'indirizzo) e gli hotel in zona.
Che male c'è a sognare a occhi aperti?
Era così tanto tempo che non me lo concedevo.

Avverto un'energia strana, come se veramente Branko e gli altri astrologi de noantri avessero ragione. Oppure, più probabilmente, sto covando l'influenza, visti gli sbalzi di temperatura di questi giorni. E comunque, finché dura, me la godo.

Dedico ai sognatori di ritorno come me Diavolo Rosso, una delle più belle canzoni dell'avvocato astigiano, augurando innanzitutto a lui, che giusto il giorno della Befana compirà 78 magnifici inverni, un affettuoso buon compleanno (manco se fosse mio padre) a voi di conservare il più possibile, in ogni momento, la voglia di vivere. Oltre ogni dolore.

Buone Epifanie a tutti.



martedì 30 dicembre 2014

Vivere e amare, il resto non conta: buon 2015 a tutti


L'emozione di rivedermi cosi' meravigliosamente ragazzina e' stata grande.
Mi colpisce poi moltissimo l'espressione di papa', fiera - probabilmente - e rilassata.
Sembra quasi che sia lui solo a essere completamente a suo agio davanti all'obiettivo.
Del resto, chi sta scattando e' un giovane uomo che lui ha visto crescere, se non proprio nascere.

L'autore di questa dolcissima foto-ricordo e' infatti il figlio di una persona che tanto ha voluto bene ai miei genitori.
Di Amelia mio padre ha sempre parlato con aperta ammirazione. E' stata lei - ci ha raccontato molte volte negli anni - a partire per prima lasciando laggiu' nel Sud Italia marito e figli per tentare di risollevare le sorti dell'intera famiglia.
Un tentativo coronato da successo, determinato dalla tenacia di questa signora oggi purtroppo un po' malandata ma dal carattere ancora d'acciaio.

Vorrei avere solo un'oncia della sua tempra per uscire dal pantano in cui sento di essermi ficcata. Ma questa e' un'altra storia.
Torniamo alla foto.

Ci e' arrivata alla Vigilia di Natale, intorno all'ora di pranzo. Quando hanno citofonato, io ero sul balcone a godermi il sole caldo che da sempre mi ha reso la casa dei miei tanto gradita. Con il passare degli anni, anzi, mi sembra sempre piu' accogliente, considerate le varie stamberghe nelle quali sono andata a vivere (compresa la dimora fermana, un palazzo gentilizio, si', che pero' d'inverno sembra la residenza siberiana degli zar).

Assorta com'ero nei miei pensieri da felino indolente, sono andata ad assistere all'apertura del voluminoso pacco con neutra curiosita'.
Nemmeno davanti alla lettera appiccicata sul coperchio ho sentito mutamenti interiori. Solo quando ho visto la fotografia racchiusa in una molto appropriata cornice di legno e accuratamente incellofanata ho realizzato.

Mi sono subito uscite delle lacrime e anche mio padre, poco incline ai piantarelli, era visibilmente commosso. I bambini, pero', non capivano che ci fosse tanto da piangere, com'era logico che fosse, per cui tutti  e due siamo subito ritornati in noi, anche se da quel momento in poi mio padre si e' messo alla spasmodica ricerca del numero dell'affettuoso mittente e finche'  non e' riuscito a trovarlo, non si e' dato pace.

"Mi hai fatto tornare in mente il periodo piu' bello della mia vita", gli ha detto quando e' riuscito a parlarci.
Con mia sorella ci siamo fatte un po' di conti.
Ai tempi della fotografia  i nostri genitori erano piu' giovani di come siamo noi adesso. Forse la mamma aveva intorno ai quarant'anni, ma pure di meno, probabilmente.

E' impressionante come abbia conservato l'espressione di allora praticamente fino a quasi gli ultimi giorni della sua vita. La mano si muove nell'aria: sicuramente stava parlando, di certo voleva organizzare qualcosa o puntualizzare un qualche aspetto.

Allora, ma non ne sono certa, non doveva darle ancora fastidio essere ritratta. Negli scatti della sua maturita', invece, finiva sempre per mettersi una mano davanti al viso. Pero' spesso ci giocava pure con malcelata vanita'.

Nonostante le rughe e qualche segno sul corpo, nostra madre ci ha sempre tenuto al suo aspetto, con sobrieta', certo, ma mai con rassegnazione.
Se sia Linda sia io abbiamo potuto prenderci diversi dei suoi vestiti (e io personalmente anche varie borse e pure qualche orecchino e collana) e' proprio perche' aveva stile.

Venendo poi a Linda, pure lei e' straordinaria: che classe i suoi pantaloni con la riga e la posa plastica delle sue braccia magre, identiche (giuro) a quelle che ha oggi.

Sembriamo tutti e quattro quello che effettivamente eravamo: turisti perfetti, con tutti gli accessori giusti per quegli anni. La fotocamera, la cartina, la borsa a tracolla, la sigaretta del papa' al centro, come il suo sorriso, insieme con quello della mamma e al mio appena appena accennato.

Insomma, se mai avessimo avuto bisogno di qualche altra prova, adesso ce l'abbiamo: siamo stati una bella famiglia, come tante altre, ovvio, ma dotate di quella straordinaria normalita' che prima o poi, da adulti, finisce per mancarci come l'aria.

Fino agli anni dell'universita', per dire, io personalmente non avevo idea che potessero esserci famiglie infelici e, pensando ai problemi della nostra, ho realizzato solo molto tardi quanto fossero veramente risibili.

E non sto parlando solo dell'aspetto economico che pure, certo, ha contato assai.
Due genitori che lavorano permettono ai figli una sicurezza davvero miracolosa pure di tipo interiore.

Piu' importante ancora e' stata la sicurezza psicologica e morale nella quale siamo vissute fino a pochissimo tempo fa. Fino alla malattia della mamma, voglio dire.

Solo due anni fa e poco piu', voglio dire, non sono stata del tutto consapevole (parlo solo per me, non so se mia sorella la vede esattamente allo stesso modo) di quanto io abbia ricevuto, praticamente tutta la vita.

Adesso, invece, so che sto ancora ricevendo; ho potuto verificarlo in questi giorni di vacanza, proprio quelli che dovevano essere i piu' tristi, che invece sono diventati i piu' maledettamente belli mai vissuti finora.

Al miracolo ha contribuito anche l'autore di questa fotografia che ringrazio di nuovo dal piu' profondo del mio cuore.
Al resto hanno pensato i miei zii e i miei cugini, che ci hanno letteralmente rimpinzato di cibo e di calore.

Sentirsi vivi e amati e' un privilegio.
Ma per arrivare ad averlo non bisogna avere paura di vivere e di amare noi per primi.
Cerchero' il piu' possibile di non dimenticarlo mai.

Se potete, fatelo anche voi.
Buon Anno a tutti.


giovedì 11 dicembre 2014

Il cuore spezzato e la telefilm-terapia

La grandissima Tyne Daly, alias Maxine Gray nel telefilm Judging Amy

Tornata a Fermo da poche ore, mi sembra di essere al confino dorato più del solito.
Ho lasciato mio padre in buona compagnia, per cui non dovrei (teoricamente) sentirmi in colpa.
Come già successo a maggio, però, ho accumulato diversi miei vestiti, biancheria compresa, nel mio angusto cassetto di ragazza e comincio a non sapere più con precisione di cos'altro avrò bisogno quando tornerò di nuovo a Chieti.
Lo dicevo alla mia cara amica Annalisa giusto qualche settimana fa, rubando la frase, a dirla tutta, a mia sorella.

Ho il cuore spezzato in due, un pezzo qui e un pezzo laggiù, con tutto quello che ciò comporta.
Ho i ricordi a metà, le prospettive di vita a metà e pure i sogni.

Riuscirò a comprare la casa a Porto San Giorgio? O devo comprarla a Chieti?
Continuerò a fare, con più profitto di adesso, il lavoro che ho cominciato a inseguire a 22 anni, o finirò per trovare qualcos'altro, qualunque cosa sia questo altro?
E dove lo troverò, se mai lo troverò?

Alla maggioranza di noi capitano periodi del genere: so benissimo di non essere particolarmente speciale.
I genitori invecchiano, anche noi invecchiamo e vi assicuro che ancora non riesco a credere di essere ogni giorno più vicina ai 44.

Sono costretta a vivere come una fanciulla e come tale sogno e mi lascio andare a questa strana paralisi degli affetti, pronta, questo sì, a scongelarmi al primo segnale di vita nuova che dovesse arrivare.

Lo faccio piagnucolando (ma poco poco) davanti alle ultime puntate del Giudice Amy, in cui la protagonista scopre di essere incinta a quasi 40 anni e discute con la madre di cosa debba fare.
Adoro le risposte che le dà quest'ultima, così coraggiose e aperte.

Mi piace quando la rimprovera dandole della viziata incasinata, anche perché Amy non se la prende e va avanti e se sbaglia, lo fa senza lagnarsi.

In quel telefilm ritrovo il rapporto che ho avuto per lungo tempo con mia madre, bruscamente interrotto con la scoperta della sua malattia.
Da allora ho cominciato a proteggerla, anche da me stessa e dal mio cuore diviso.

Perché spezzata lo ero anche prima che mia madre si ammalasse, incapace come sono stata per tutti questi anni di trovare davvero il mio posto nel mondo.

C'è, in questo esilio dorato, qualcosa che ha funzionato.
L'ingresso nella mia vita dei due quattrozampe, per esempio, e la palestra-balsamo per il mio corpo e il mio cervello tormentato.

Ci sono alcune persone importanti che non avrei mai incontrato se non fossi venuta qui e anche alcune situazioni che ho vissuto piuttosto stimolanti.

Il mio cuore, però, è rimasto spezzato. Incapace di ricomporsi da solo, bisognoso di consigli e di stritolamenti, forse, che la solitudine non ha favorito.

Non sono speciale, ma sì, però sono consapevole di essere piuttosto esigente, come i personaggi di Amy e di Maxine, e come prima di loro la mitica, favolosa, Lorelai Gilmore.

Negli ultimi anni di questo lungo, esistenziale, spaesamento, insomma, mi sono curata spesso così: guardando telefilm e immedesimandomi come una idiota nei miei favourite characters.

Avrei voluto parlare ancora a cuore aperto con mia madre, continuando a mostrarle la donna (incasinata ma vera) che sono diventata.

L'ho fatto al cimitero la scorsa settimana e per tutta risposta mi si è rotto il telefonino giusto mentre stavo uscendo da lì.
Ho perso la foto che avevo associato al suo numero, ma non quella che fa da sfondo pure sul nuovo apparecchio, identico al precedente.

Non ho capito bene se ho ricevuto un segno, come nel simpatico film Magic in the moonlight visto domenica scorsa, ma in ogni caso, nel rimemorizzare i numeri che per fortuna avevo ancora sull'altro telefono, sono stata indotta a un'ulteriore selezione tra l'utile e il superfluo.

Se messaggio c'era, era indirizzato verso la semplificazione.
E io ho semplificato, come faccio sempre quando sono più lucida.

Però la confusione non è una buona consigliera e neanche le spaccature del cuore.

Che cosa faresti tu, mamma?
Da dove devo ripartire con la mia vita?

Per quanto possibile, cercherò di non escludere mio padre dai cambiamenti che verranno. Tenterò di non proteggerlo oltre il necessario, come ho fatto oggi ripartendo.

Tu me l'avresti consigliato, su questo sono sicura.

lunedì 24 novembre 2014

Le attese (e i telefilm) del cuore


Ispirata dal doodle di google di oggi, rubo questo magnifico ritratto di Henri de Tolouse Lautrec, alto 131 centimetri (vicino a lui mi sarei sentita una gigantessa... lasciamo perdere). Non lo conoscevo, lo trovo veramente bellissimo.

Sono in attesa di avere notizie da mio padre, secondo i miei calcoli ancora in ballo tra i reparti.
Sembra, ma lo dico pianissimo, che stavolta abbiamo incontrato personale medico di altra pasta, compresa, tra l'altro, la giovane dottoressa albanese, a mio personale avviso incrociata sul nostro cammino come risarcimento per la precedente non proprio positiva conoscenza.

E comunque sia, ci riflettevo giusto in questi giorni.
Il mio cuore è cambiato. Ho sempre abbastanza terrore di ospedali, malattie e disgrazie varie, ma mi sono ritrovata a percorrere i corridoi del grand hotel della salute teatina (si fa per dire, ovviamente) con molta maggiore leggerezza di quella che mi sarei aspettata.
Che dire? Speriamo bene.

Quando avrò un po' più di tempo, scriverò dell'altro, non di specifico su questa faccenda.
Vorrei raccontarvi, per esempio, del telefilm, vecchio naturalmente, che sto seguendo in questo periodo su Giallo.
Parlo del Giudice Amy, Judging Amy in English, nel quale, tolti i buoni sentimenti tipicamente americani, ho trovato un molto verosimile rapporto madre-figlia che mi ha allargato quel muscolo di cui sopra.

Mi piacciono moltissimo gli scambi tra le due attrici, Tyne Daly (la madre) e Amy Brenneman (la figlia). Leggiucchiando qua e là in rete, ho scoperto che la figura del giudice incarnata dalla riccia Amy si ispira alla sua madre vera. E la cosa, immaginerete, me l'ha resa ancora più simpatica.

Insomma: ci tornerò su.
Sotto vi linko un breve frammento del trailer iniziale, ovviamente in English (quanto mi piace fingere di saperlo):




See you later, friends.

lunedì 17 novembre 2014

Firmo tutto... triste epilogo dell'affaire trattamento tricologico



E alla fine la verità, triste y solitaria, è venuta fuori: avevo effettivamente sottoscritto un contratto di finanziamento. Se sono qui a scriverlo, peraltro, è solo per un motivo: distogliere eventuali signore, affette come me dalla sindrome della firma facile, dal commettere il mio stesso errore.

Inutile ripercorrere le tappe dell'intera vicenda.
Vi dico solo che il mio cugino avvocato, alla fine, è riuscito a farsi mandare la metà mancante del contratto che credevo consistesse nell'unico foglio in mio possesso.

Vagamente mi pareva, in effetti, di aver messo più firme (sono come Totò-Della Buffas in Totò Tarzan o come Ciampi Azeglio ai tempi del suo mandato da Presidente della Repubblica), ma a me era rimasta quell'unica copia carbone, peraltro assai difficile da scannerizzare.

Sulla base della sola carta in mio possesso, l'avvocato affine ha tentato di liberarmi dall'inghippo sostenendo che io nulla avessi a che fare con la Cofidis, ossia la società finanziaria che mi ha tampinato nei mesi scorsi, servendosi anche di poco simpatici recuperatori del credito.

Purtroppo, però, io avevo eccome a che fare con loro.
Lo prova il contratto che la Finanziaria in perzona perzonalmenti, alla fine, gli ha spedito via mail.
Questo è successo tipo lunedì scorso. Benché, peraltro, mio cugino me l'avesse girato subito, io ho realizzato l'enorme gravità della cazzata commessa solo sabato scorso, a casa di mia zia.

Ve lo giuro, non potevo credere ai miei occhi: in quel foglio, stampato per bene, in un bianco e nero contrastato come si deve, c'era scritto non solo che avevo fatto richiesta di finanziamento per il ciclo di trattamento tricologico da fare in parte a casa in parte dalla mia (ex) parrucchiera, ma soprattutto che per ottenerlo mi appellavo alla generosità della già citata finanziaria affinché mi rilasciasse il suddetto finanziamento, dichiarando un reddito mensile netto di ben 1.740 euro, garantitomi da un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

A tempo indeterminato c'è solo il mio incommensurabile scuorno.
Di quel foglio, comunque, non avevo traccia alcuna nella mia memoria, il che dimostra solo una cosa: siamo parecchio suggestionabili.

Perché vedete: io, in quel negozio di coiffeur, mi sentivo protetta. L'ambiente giovane, la parrucchiera simpatica, i discorsi leggeri, in questi anni non esattamente facili, mi hanno sollevato alquanto.

Pur andando di rado a farmi i capelli, quando prenotavo il taglio o i colpi di sole, ero contenta. Sapevo infatti che avrei trascorso un paio d'ore in una bolla calda-umida, compiacendomi delle mie patetiche battute e del tentativo di sentirmi normale.

Magari prendessi 1.740 euro al mese, netti. Magari avessi potuto spendere a cuor leggero i 1.500 euro del finanziamento che mi è stato gentilmente concesso sulla base di una dichiarazione mendace, di cui, ahimè, non sono stata consapevole fino allo scorso sabato.

Tornando, ancora sotto shock, a casa dei miei genitori, mi è tornato in mente un dettaglio: quel foglio, stando alla rappresentante della Tricomef che mi ha così carinamente convinta a sottopormi alle loro solerti cure, sarebbe stato un semplice pro-forma. Ed è anche probabile che la bionda mesciata signorina ne fosse effettivamente certa. Perché, d'altra parte, se io mi fossi effettivamente servita dei loro prodotti, mai sarei venuta a scoprire il per me arcano mondo delle finanziarie e del recupero crediti.

Nella parte di contratto che non mi avevano rilasciato c'era infatti scritto che era mio diritto farne richiesta. Il problema è che io l'avevo completamente cancellato dal mio cervello troppo concentrato su ben altro.

Insomma, l'affaire tricologico si risolve con un bel 1.500 a zero per la sottoscritta.
Sembra, tuttavia, che mio cugino sia almeno riuscito a strappare la possibilità di rateizzare il mio debito in tre tranche, come ho richiesto io stessa.

Voi direte: perché vuoi affrettarti a pagare?
Perché sì.
Perché ogni giorno in più che trascorro appresso a questa sciocca rogna che mi sono auto-procurata, m'impedisce di archiviare i momenti più bui vissuti appena l'altro ieri.

Perché quando guardo l'unico kit che ho ritirato dalla mia ex parrucchiera, non posso fare a meno di pensare agli ultimi giorni di mia mamma, quando parlavo di questa inutile storia a qualche parente e lei, guardandomi dal suo letto d'ospedale, che ho tanto odiato e che ogni tanto mi riaffiora davanti agli occhi, con la fronte corrugata e gli occhi già un po' assenti, se n'è uscita con "non ho capito niente", che io ho interpretato come un "ma perché diavolo parli di questa cazzata qui davanti a me che sto così male?".

Non dovevo perderci così tanto tempo, insomma.
Quindi pago e zitta.

Ma ve lo assicuro: non firmerò mai più niente.
E se troviamo casa, prima faccio leggere tutto a mio cugino. E poi, forse, firmo.

Promesso, cari genitori.
Non farò più come quando, a diciott'anni o poco più, vi ho abbonati a Euroclub, un altro episodio che avevo rimosso e che mi è stato crudelmente risvegliato dalla mia amica Annalisa sempre il sabato appena passato.

E però ribadisco: che firmiate o meno facilmente come me, non siate mai troppo sicuri di voi stessi, prima ancora che degli altri.
Da parte mia dovrei aver imparato la lezione.

Era ora.

giovedì 13 novembre 2014

Donatella Di Pietrantonio a Fermo: un miracolo destinato a sedimentare


Io credo nei miracoli che la gente può fare, canta Cristina Donà nel penultimo album: del suo pezzo ho sentito qualche settimana fa la versione acustica con kazoo, uno strumento che ho imparato a conoscere e amare con il "mio" Maestro astigiano.
Più di qualcuno mi ha accusato di essere un po' buonista, anche se in genere me lo hanno detto in tono scherzoso.

Sapete che vi dico? A volte vorrei esserlo davvero: solo così potrei, forse, risparmiarmi questa continua alternanza di speranza e disillusione.

E in ogni caso io ai miracoli ci credo per davvero.
Esattamente come canta Cristina, quelli migliori vengono proprio dalla gente che tanto ci spaventa.
Dalla medesima, certo, possono arrivare anche discrete batoste, ma che bisogno c'è di ribadirlo ogni volta?

Quel che ho vissuto sabato scorso al Centro San Rocco di Fermo, per dire, è un esempio del tipo uno (più zuccheroso del diabete).
In un luogo nel quale normalmente mi sentirei a disagio, ho invece vissuto momenti di infinita armonia. Il merito è tutto di Guglielmina Rogante, la mia cara amica professoressa-ricercatrice che fa parte del centro culturale fermano.
E' stata lei a propormi di dialogare con Donatella Di Pietrantonio, la scrittrice abruzzese che ho conosciuto due anni chiamata (letteralmente) dal suo esordio nel romanzo, Mia madre è un fiume, trovato per caso in una libreria di Pescara.

Davanti a una platea attenta, in una sorta di trance concentrato, ho posto le mie domande a Donatella, favorita grandemente dall'introduzione di Guglielmina, che con la sua consueta (per me e per chi ha avuto occasione di ascoltarla) preparazione e sensibilità, è riuscita a cogliere diversi aspetti della produzione letteraria della scrittrice nativa di Arsita, nel Teramano, ma da anni residente a Penne, un incantevole borgo del Pescarese, predisponendo quest'ultima al confronto aperto e sentito che poi ha avuto seguito.

Tra le osservazioni di Guglielmina mi ero annotata, forse per dominare un po' la mia ansia, le seguenti parole: "lingua che non si autocompiace", "sguardo femminile", il terremoto aquilano come "metafora di tutti i crolli"; e poi ancora "evoluzione impercettibile dei sentimenti dei protagonisti" con conseguente "metamorfosi interiore di tutti i personaggi".
Il tutto era riferito non solo al primo romanzo, evidentemente, ma anche a Bella mia, il secondo dedicato all'Aquila e alle lacerazioni soprattutto interiori che tuttora albergano nei cittadini del capoluogo abruzzese a distanza di quasi sei anni dal sisma.

Di Donatella Di Pietrantonio Guglielmina riconosceva poi la sua appartenenza fortissima all'Abruzzo, nella lingua "pietrosa" e nell'attenzione quasi inconscia alla memoria collettiva della sua gente: una gente dedita alla cura della terra e alla pastorizia, rimasta in massima parte povera per millenni, oggi strappata a quei ritmi antichi da una globalizzazione forse ancora più disorientante.

Come si riemerge dal lutto, interiore e sociale, sembra chiedersi pagina dopo pagina Donatella?
Quando si comincia davvero a farlo, le ho chiesto a mia volta a un certo punto del nostro dialogo?

Donatella lo ha mostrato con precisione in entrambi i romanzi.
Ho trovato davvero illuminante quando, riferendosi al primo, lo fissa in quell' "adesso basta", che pronuncerebbe dentro di sé l'io narrante, la figlia di Esperina Viola, colei che deve accettare, volente o nolente, di non essere stata sufficientemente amata dalla madre che ormai le si presenta come un albero secco sotto la cui ombra non si può più giustificare.

E ho in cuor mio ringraziato moltissimo Donatella quando ha esposto pubblicamente il rovescio della medaglia di ogni amore, persino di quello verso i figli. Non c'è alcun "ti amo" che non nasconda anche un "ti odio", ha detto proprio la scrittrice. Ed è solo oggettivando i nostri sentimenti, pure i più crudeli, che possiamo cominciare a guarire.

Non ha, tra l'altro, neanche avuto paura di confessare i suoi lunghi anni di analisi: per lei sono stati anzi fondamentali per imparare a scrivere per davvero.

E io credo che abbia proprio ragione: la rabbia, per esempio, va riconosciuta, va per l'appunto "oggettivata" in qualche maniera, per poterla raccontare.
In parte, mi è successo così quando ho narrato su questo blog del terribile incubo ospedaliero.
Temo però di non essere ancora del tutto guarita: ogni tanto, mi sveglio nel cuore della notte, e mi ricordo di tutto.

Mi ha molto sollevato, pensandoci per un breve flash, durante l'incontro di sabato scorso, sentire dalla bocca di Donatella la definizione che Ennio Flaiano, altro grande abruzzese, benché emigrato nella capitale, dava del medico contemporaneo, da lui chiamato "il cretino specializzato".

E mi ha emozionato alquanto percepire l'imbarazzo che la scrittrice sottolineava di aver provato nel presentare la sua storia aquilana nella città ferita. Chi sono io, si è detta, per parlare di un dolore che non ho vissuto direttamente?

Ed è esattamente per questo motivo che bisognerebbe sempre pesare le proprie parole, soprattutto quando presuppongono un pubblico.
Chi scrive per mestiere ha una grande responsabilità, insomma. E anche chi lavora con il dolore altrui.

Per tutte queste ragioni, sono davvero contenta del miracolo di un incontro destinato a sedimentare.
Sono certa che mia mamma, con me nella gonna che indossavo e non solo in quella, è stata felice per me.

Alla prossima, belle donne.
:-)