Il mio insegnante di inglese sudafricano (uno dei molti che potrei scegliere per le lezioni di conversazione online che ho acquistato) nella vita fa il videomaker. Dalla voce e dal modo in cui ride mi sembra molto più giovane di me e parecchio estroverso.
Non sono sicura (anzi: è certo che non ho capito) di aver capito tutto quel che mi ha detto di sé, ma forse sta per pubblicare un libro, addirittura il secondo. Tra un po' di lezioni, sperando di sciogliermi un po' di più, glielo richiedo perché francamente questa cosa m'incuriosisce assai.
In tutti i modi, ieri gli ho sottoposto una lista di canzoni di Mark Knopfler per farmi spiegare un po' di parole ed espressioni (cockney, adesso so che significa!).
Anche in questo caso sono più che sicura di non aver compreso tutto. Però trovo che sia molto stimolante discutere di poesia e di filosofia, se così si possono definire le quattro fregnacce che sono riuscita a imbastire per spiegargli quel che mi trasmetteva una canzone in particolare del grandissimo Mark.
Sto parlando di 5.15 AM, il pezzo di apertura dell'album Shangri-La, che mi ha sempre colpito per la musica orecchiabile e per l'oscurità delle parole.
Cercando i testi da mandare a Jason (si chiama così il simpatico sudafricano, che immagino di pelle bianca, ma chissà), mi sono accorta dell'esistenza in rete di forum che discutono del significato delle canzoni.
Su 5.15 Am, in particolare, qualcuno si è soffermato sulla contrapposizione tra bene e male, tra paradiso e inferno, in tutto l'album dell'ex leader dei Dire Straits e in generale nella vita.
A un certo punto, uno dei commentatori scrive proprio (traduco dall'inglese con maggiore scioltezza... e vai!): "C'è ironia nel titolo Shangri-La", che nella nostra lingua potrebbe suonare come "paese della cuccagna" o meglio ancora "eden". Noi tutti la cerchiamo, ma nella vita come in "Shangri-La, l'inferno è più frequente del paradiso". Il tizio (o la tizia, non saprei) aggiunge poi: Knopfler è cinico ma anche realista. Non offre soluzioni, ma solo ruvide osservazioni". Stando così le cose, "lo stile di vita dei surfisti" descritti nella canzone omonima al titolo dell'album è migliore, perché "più semplice e più basato sui sensi, aperto all'amore" nel senso più ampio del termine. "E tuttavia i vividi contrasti tra ciò che cerchiamo e ciò che riusciamo a trovare e naturalmente la musica rende l'album davvero grande".
Dal canto mio, non posso che sottoscrivere queste considerazioni, estendendole alla mia "way of life". Pur non potendomi definire una "surfista", sempre distesa e disponibile alla "dolce vita", espressione che compare esattamente così nella già citata 5.15 Am, mi sento alla costante ricerca del mio personale eden, fatto di equilibrio e serenità.
Non credo di essere l'unica: immagino che il grosso di noi impieghi il suo tempo alla ricerca della felicità chissà se perduta, come quella sperimentata da Adamo ed Eva nel paradiso originario. E tuttavia trovo davvero interessante constatare come sia molto più immediato esprimere questo senso di smarrimento nostalgico per un qualcosa che forse non abbiamo mai vissuto e insieme questo bisogno di sconfiggere i troppi momenti d'inferno che attraversano la nostra vita, per mezzo della musica e delle parole.
Certo: le seconde senza la prima non farebbero lo stesso effetto, ma trovo che Mark sia uno dei pochi maestri delle note dotato di analogo talento letterario.
Sono davvero felice di aver trovato un modo per apprezzare ancora di più le sfumature dei suoi lavori.
L'inferno è più frequente, è vero, ma quando arriva il paradiso, altro che se ce ne accorgiamo.
Per esempio, succede ascoltando Shangri-La.
Eccola per voi e per me, o per lo meno per quelli da noi che si sentono surfisti in potenza:
A tutti Buona Pasqua (rinascita...).
martedì 26 marzo 2013
domenica 17 marzo 2013
Storie da biblioteca, W Macerata!
Fermo, piazza del Popolo, tappa della Tirreno-Adriatica 2013 |
Poco fa ho letto la mail della gentilissima Silvia Seracini, la coordinatrice di Storie da biblioteca, l'iniziativa promossa dalle sezione marchigiana dell'Associazione italiana biblioteche, della quale ho parlato anche nello scorso post. Silvia mi chiedeva di aggiungere qualche parola sulla premiazione voluta dal Comune di Macerata e dalla sua assessora ai Beni Culturali (concedetemi questo pizzico di femminismo istituzionale) Stefania Monteverde. Sono rimasta davvero molto colpita dalla semplicità e l'entusiasmo con i quali quest'ultima ha voluto onorare i vincitori partecipanti alla tappa maceratese, insigniti di sostanziosi fondi da spendere in libri.
E il bello è che l'ho scoperto solo dopo essere andata via dalla Mozzi Borgetti, insospettita dalla frase con la quale l'impiegata che ci ha accolti al nostro arrivo in una bellissima sala al pianoterra che non abbiamo potuto visitare il giorno del gioco-concorso, mi ha salutato: "Passi in libreria a scegliere qualche libro".
La mia amica maceratese Simona può testimoniarlo: sono rimasta letteralmente a bocca aperta quando ho aperto uno dei pacchetti e ho visto la scritta "buono per..." . Ma la mia sorpresa è diventata ancora maggiore quando ho letto il valore dell'altro buono...
Mi sono sentita fortunatissima, come se avessi vinto un milione di dollari. Come se mi avessero dato il Pulitzer. Ed è stato talmente inaspettato che adesso... non so che cosa regalarmi! Certo, qualcosa ho già preso (un regalino per mio marito, per esempio...), ma i doni vanno centellinati come un buon vino, mica trattati male come gli oggetti che compro da sola e che di solito durano veramente poco.
Quindi sceglierò con calma, forse anche per far durare ancora qualche giorno, settimana, la sensazione così piacevole assaporata al primo sorso.
E poi Macerata mi piace molto e sarà davvero una gioia tornarci più volte per ritirare altri pezzetti del mio premio!
Dedico queste parole a tutte le persone che mi vogliono bene, consapevole che il loro sostegno è il dono più prezioso che ho. Grazie ancora agli organizzatori di Storie da biblioteca e al Comune di Macerata per la dignità che ci (mi) avete restituito. Non lo dimenticherò.
giovedì 7 marzo 2013
Piccole soddisfazioni da secchioncella tardiva
Una volta tanto, posso sentirmi contenta. Anzi, super contenta.
Anche se ho un vocabolario limitatissimo e mi prende l'ansia ogni volta che devo parlare in inglese, sono riuscita a superare il primo livello intermedio senza neanche doverlo finire interamente!
Vi assicuro: dà grande soddisfazione accorgersi di fare progressi nello studio, visto che erano secoli che non mi impegnavo così a fondo in una materia.
A dirla tutta, però, dovevo immaginarlo. Due anni fa, dal nulla, mi sono messa a studiare Statistica per un concorso pubblico, e benché non sia servito in termini pratici, già all'epoca mi ero resa conto che studiare mi piace ancora e sì, mi riesce. Il che non era affatto scontato, nonostante il mio buon curriculum scolastico.
Ma le soddisfazioni da secchioncella tardiva della giornata odierna non sono finite.
Poco prima della lezione con un simpatico videomaker sudafricano (pensate un po' come lavora la mia scuola d'inglese a distanza: raccatta insegnanti madrelingua da tutto il globo anglofonizzato), ho ricevuto una telefonata dalla biblioteca Mozzi Borgetti di Macerata, di cui ho parlato diversi mesi fa, in occasione della mia partecipazione a Storie da biblioteca, un'appassionante iniziativa ideata dalla sezione Marche dell'Associazione italiana delle biblioteche per diffondere tra i cittadini la conoscenza delle proprie sedi più belle. In particolare, si trattava di partecipare a un concorso in una o più biblioteche che avevano dato la loro adesione, cimentandosi nella scrittura di un racconto riguardante la sala ospitante e/o immortandola fotograficamente.
Ebbene, sono risultata la vincitrice per la sezione scrittura nella meravigliosa biblioteca maceratese! Non contenta, ho ottenuto anche il secondo premio ex aequo per la fotografia!
Lo dico apertamente: mi ha fatto molto piacere e me ne ricorderò a lungo. Pur essendo, infatti, una piccolissima vittoria, è arrivata del tutto inaspettata in un momento abbastanza oscuro della mia vita professionale.
E poi, lo riconosco, mi sono talmente divertita a scrivere il racconto che potrete trovare nell'ebook pubblicato dagli organizzatori qui linkato, e ho messo anche così tanta enfasi nell'usare decentemente il cavalletto, che un piccolo riconoscimento, un bravo + come quello che la maestra scriveva nei miei quaderni, male non ci stava.
La vita è fatta di inezie, è proprio vero.
Complimenti a me, quindi.
Cin cin!
mercoledì 6 marzo 2013
I giorni dell'anormalità normale
Il vento scuote le piante fuori dalla mia finestra, lieto megafono del cinguettìo di qualche passerotto coraggioso, impaziente come me per questa primavera che non ancora arriva. L'immagine fiaccamente poetica fa da altrettanto debole cappello alle parole che sto per scrivere.
Oggi vorrei parlare di horror vacui e dell'allenamento a questo punto non più solo personale a vivere come color che sono sospesi. Perché, se è vero che il grosso di noi crede di non saper gestire il vuoto, riflettiamo un attimo sul periodo storico che stiamo vivendo: senza governo, senza Papa, senza futuro. Almeno all'apparenza. Il futuro, infatti, c'è per forza, comunque vada a finire.
Sapete anzi che cosa penso? Molti di noi (io di sicuro) ci stiamo bene in questo stato di sospensione. Dire bene, forse, è esagerato, però la strizza per quel che deve venire ci rende più sopportabile anche l'incertezza. E l'horror vacui di cui sopra passa decisamente in secondo piano.
Faccio un esempio più personale.
L'altro giorno ero in cucina con gli zii e mia madre. Sulla tavola due diversi numeri della Settimana enigmistica. Non so come, ma ci siamo messi a risolvere un cruciverba collettivamente, passandocelo democraticamente alla prima o seconda definizione insolubile. Nello specifico, al gioco ho partecipato io con gli zii, mentre mia madre, con gli occhi bassi, commentava ironica: "Ma guarda un po' tu: li avevo presi per me...". Abbiamo riso tutti.
Domenica mattina, poi, ero in auto con mio padre e casualmente ci siamo messi a parlare dei ricordi dei primi anni di vita. Io dicevo che è difficile avere memoria di noi stessi dai due ai cinque-sei anni, ma mio padre non era del tutto d'accordo. Lui, per esempio, non aveva scordato alcune cose, anche se, certamente, a ripensarci oggi erano come sogni, ma di quelli molto vivi che ci portiamo dietro tutta la vita.
E me ne ha raccontato uno, con quella leggera pausa che precede l'atto del narrare a voce alta, che tanto piace da bambini. In quei secondi ho avvertito una specie di sottilissima nostalgia, consapevole di stare vivendo un momento unico, del quale avrei voluto conservare tutto.
E invece. Il racconto mi è giunto a metà, troppo presa com'ero dall'ascolto delle mie emozioni.
C'era la guerra e i bombardamenti. Mio padre era all'epoca l'unico figlio cresciuto in solitudine da mia nonna, nei lunghi anni in cui il marito, mio nonno, rimase lontano, come soldato e poi prigioniero di guerra.
Non si poteva restare in casa, troppo pericoloso. Così mio padre, chissà se impegnato in qualche gioco infantile, venne trascinato via dalla mamma per un braccio, perché potessero rifugiarsi il più velocemente possibile in una delle cavità aperte su un muro di una strada poco distante. E' riuscito proprio a farmi vedere il braccino tirato dalla mamma e tutta la sua ansia, riflessa in quella di lei. Altre volte mi aveva raccontato di quando non aveva le scarpe e dei pantaloncini corti con cui erano soliti girare anche d'inverno. Quel periodo, però, è testimoniato anche dalle foto della famiglia di mia madre, quindi è un ricordo mediato dalle immagini.
Stavolta, invece, la sospensione prodotta era più intima, più segreta.
Certo, adesso che ne ho parlato sul blog, non lo è più, ma sentivo il bisogno di fissarlo qui, a testimonianza di questi inediti giorni di "anormalità normale", per citare un'espressione usata spesso da mia mamma nell'ultimo periodo.
Sento di star vivendo un momento della mia vita molto speciale, di cui un giorno, forse, potrei avere nostalgia.
D'altra parte, la mia natura tende naturalmente alla saudade, ma cerco di tenerla sotto controllo, per paura di risultare pesante.
Non si tratta, tuttavia, tanto del rimpianto del passato (a volte c'è anche quello) quanto della malinconia di non poter trattenere nulla per sempre, neanche certe tristezze obiettivamente dannose.
Tornando al presente e al destino dell'Italia (e della Chiesa!), sarebbe bello se un domani potessimo ripensare a questi giorni con un pizzico di saudade. Come eravamo incasinati, ci pensate? Potremmo dire così ai nostri nipoti.
Già solo sognare di poterlo raccontare è una prospettiva ottimistica, vero?
Sì che lo è. E del resto, tenderò anche alla saudade, ma al contempo sono un'inguaribile illusa.
Vi lascio con una barzelletta stupida stupida, di quelle che piacciono tanto a mio nipote settenne, che me le scrive su Skype tutto gongolante.
Sapete qual è il colmo per la Befana? Non saper giocare a scopa.
Magari, in questi giorni, anche i cardinali se ne racconteranno probabilmente anche di più scollacciate, e forse pure i parlamentari grillini, mettendo alla porta l'horror vacui e la storia che incombe.
Oggi vorrei parlare di horror vacui e dell'allenamento a questo punto non più solo personale a vivere come color che sono sospesi. Perché, se è vero che il grosso di noi crede di non saper gestire il vuoto, riflettiamo un attimo sul periodo storico che stiamo vivendo: senza governo, senza Papa, senza futuro. Almeno all'apparenza. Il futuro, infatti, c'è per forza, comunque vada a finire.
Sapete anzi che cosa penso? Molti di noi (io di sicuro) ci stiamo bene in questo stato di sospensione. Dire bene, forse, è esagerato, però la strizza per quel che deve venire ci rende più sopportabile anche l'incertezza. E l'horror vacui di cui sopra passa decisamente in secondo piano.
Faccio un esempio più personale.
L'altro giorno ero in cucina con gli zii e mia madre. Sulla tavola due diversi numeri della Settimana enigmistica. Non so come, ma ci siamo messi a risolvere un cruciverba collettivamente, passandocelo democraticamente alla prima o seconda definizione insolubile. Nello specifico, al gioco ho partecipato io con gli zii, mentre mia madre, con gli occhi bassi, commentava ironica: "Ma guarda un po' tu: li avevo presi per me...". Abbiamo riso tutti.
Domenica mattina, poi, ero in auto con mio padre e casualmente ci siamo messi a parlare dei ricordi dei primi anni di vita. Io dicevo che è difficile avere memoria di noi stessi dai due ai cinque-sei anni, ma mio padre non era del tutto d'accordo. Lui, per esempio, non aveva scordato alcune cose, anche se, certamente, a ripensarci oggi erano come sogni, ma di quelli molto vivi che ci portiamo dietro tutta la vita.
E me ne ha raccontato uno, con quella leggera pausa che precede l'atto del narrare a voce alta, che tanto piace da bambini. In quei secondi ho avvertito una specie di sottilissima nostalgia, consapevole di stare vivendo un momento unico, del quale avrei voluto conservare tutto.
E invece. Il racconto mi è giunto a metà, troppo presa com'ero dall'ascolto delle mie emozioni.
C'era la guerra e i bombardamenti. Mio padre era all'epoca l'unico figlio cresciuto in solitudine da mia nonna, nei lunghi anni in cui il marito, mio nonno, rimase lontano, come soldato e poi prigioniero di guerra.
Non si poteva restare in casa, troppo pericoloso. Così mio padre, chissà se impegnato in qualche gioco infantile, venne trascinato via dalla mamma per un braccio, perché potessero rifugiarsi il più velocemente possibile in una delle cavità aperte su un muro di una strada poco distante. E' riuscito proprio a farmi vedere il braccino tirato dalla mamma e tutta la sua ansia, riflessa in quella di lei. Altre volte mi aveva raccontato di quando non aveva le scarpe e dei pantaloncini corti con cui erano soliti girare anche d'inverno. Quel periodo, però, è testimoniato anche dalle foto della famiglia di mia madre, quindi è un ricordo mediato dalle immagini.
Stavolta, invece, la sospensione prodotta era più intima, più segreta.
Certo, adesso che ne ho parlato sul blog, non lo è più, ma sentivo il bisogno di fissarlo qui, a testimonianza di questi inediti giorni di "anormalità normale", per citare un'espressione usata spesso da mia mamma nell'ultimo periodo.
Sento di star vivendo un momento della mia vita molto speciale, di cui un giorno, forse, potrei avere nostalgia.
D'altra parte, la mia natura tende naturalmente alla saudade, ma cerco di tenerla sotto controllo, per paura di risultare pesante.
Non si tratta, tuttavia, tanto del rimpianto del passato (a volte c'è anche quello) quanto della malinconia di non poter trattenere nulla per sempre, neanche certe tristezze obiettivamente dannose.
Tornando al presente e al destino dell'Italia (e della Chiesa!), sarebbe bello se un domani potessimo ripensare a questi giorni con un pizzico di saudade. Come eravamo incasinati, ci pensate? Potremmo dire così ai nostri nipoti.
Già solo sognare di poterlo raccontare è una prospettiva ottimistica, vero?
Sì che lo è. E del resto, tenderò anche alla saudade, ma al contempo sono un'inguaribile illusa.
Vi lascio con una barzelletta stupida stupida, di quelle che piacciono tanto a mio nipote settenne, che me le scrive su Skype tutto gongolante.
Sapete qual è il colmo per la Befana? Non saper giocare a scopa.
Magari, in questi giorni, anche i cardinali se ne racconteranno probabilmente anche di più scollacciate, e forse pure i parlamentari grillini, mettendo alla porta l'horror vacui e la storia che incombe.
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