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giovedì 5 aprile 2012

Da Sarajevo all'Aquila, ricordare per rinascere


Stamattina l'organizzatore di una conferenza stampa ha sottolineato la doppia ricorrenza che cade proprio in questi giorni. La prima era l'oggetto dell'incontro con i giornalisti: l'assedio di Sarajevo, cominciato il 6 aprile di vent'anni fa. Ai tempi avevo la metà degli anni che ho oggi, un'età già abbastanza adulta, certo, ma non così ragguardevole da permettermi di capire con sufficiente chiarezza quel che stava succedendo a poche centinaia di chilometri da noi. Negli anni successivi, ho in parte colmato le lacune sulla guerra che ha dilaniato la federazione jugoslava, nostra dirimpettaia, ma confesso di aver rimosso gli aspetti più crudi di quella immane tragedia. Ed è per questo che sono grata a questa piccola mostra locale, ricca di fotografie, disegni, cartine e contributi video di quei giorni. Anche se farò fatica a leggermi tutto, più che altro per la quota di dolore contenuta in ogni goccia di sangue versata da innocenti civili, so che lo sforzo della memoria è un esercizio importante per ogni ogni essere umano che voglia sentirsi veramente tale.
Similmente, sto cercando di non rimuovere la ferita provocatami dall'altro evento assai più recente che ha colpito la mia terra natale solo tre anni fa, ieri per la storia, e meno di ieri per la paura che ho provato quando ho realizzato dove fosse l'epicentro che ha fatto tremare (eccome!) anche la casa in cui abito tuttora. 
Non sono mai andata di persona a vedere le tendopoli né le macerie dell'Aquila, ma ieri, guardando le fotografie dei bombardamenti a Sarajevo, non ho potuto fare a meno di collegare i due fatti.
Di quanta violenza è capace l'uomo e quanto può essere forte la risposta della natura ai nostri tentativi di dominarla. 
Davanti all'urgenza della storia, le vite dei singoli non contano più, se non per essere annoverate nel computo di sopravvissuti e vittime. 
Dall'altra parte, ho considerato, le emergenze producono un effetto narcotizzante sulle difficoltà del proprio presente: finché c'è da aiutare chi sta peggio, si riesce a non pensare più (almeno non troppo) ai sogni mai realizzati o alle altre frustrazioni della quotidianità. 
In quegli anni, gli italiani partiti alla volta di Sarajevo sono stati tantissimi, lo stesso è successo all'Aquila tre anni fa. In quei momenti, chi aiuta si sente più vivo, ma bisogna stare attenti a non scambiare l'eccitazione prodotta dal caos cooperante con la normalità. Prima o poi si deve tornare a casa, lasciando sole quelle persone ferite, fisicamente e moralmente. Quanta solitudine si può provare una volta a casa? E quanta ne avranno provata gli aiutati una volta rimasti soli? 
Ho letto che molti bosniaci di nuova generazione, magari molti di quei bambini che hanno disegnato l'assedio e l'esplosione delle bombe di cui ho visto qualche esempio alla mostra, sono andati a vivere all'estero. Non ce l'hanno fatta a restare in una ex città multi-culturale, smembrata insieme con il resto della ex Jugoslavia dalla diplomazia come ultima soluzione per porre fine alla pulizia etnica. 
Qualcosa di simile, temo, faranno anche i futuri adulti aquilani che hanno raffigurato le case crollate nei loro disegni infantili. A distanza di tre anni, il centro storico è ancora pressoché disabitato e gli abitanti che ne sono fuoriusciti ora abitano più o meno tutti in quartieri nuovi senz'anima. Ce la faranno, gli aquilani del futuro a riprendersi la città? Perché sui miei coetanei, purtroppo, ho qualche dubbio.
E tuttavia, forse, proprio l'essere ancora in buona parte in una condizione d'emergenza, potrebbe spingerli all'azione più di quanto non sappiano fare gli italiani di altre parti della Penisola, schiacciata da una crisi epocale, che spero (sinceramente) di poter raccontare ai miei nipoti (lo dico come zia) e ai loro figli come di un periodo lontanissimo, come il Klondike di Paperone.
Speriamo.
E' questa la mia preghiera laica di Pasqua. Una preghiera un po' sotto-tono, ma pronunciata come se fossi un fuocherello che cova sotto la cenere. Per rinfocolarlo, per fortuna, ci vuole poco.
Buone rinascite (incendiate come un'alba sull'Adriatico e un tramonto in Montenegro!), amici.