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venerdì 15 gennaio 2016
L'attrice di Teheran, amore ed esilio di una donna speciale
Golshifteh Farahani (sopra nella foto) è la trentaduenne attrice iraniana che ha ispirato il libro L'attrice di Teheran della sua compatriota, nonché altrettanto espatriata in Francia, Nahal Tajadod.
Non mi addentro, almeno non troppo, nelle questioni di politica estera, meno che mai mediorientale, perché temo di non aver abbastanza strumenti per maneggiarla senza rischiare grossolani scivoloni. Però avverto il bisogno di scrivere almeno due parole sulla storia, pur trasfigurata, di questa bellissima ragazza persiana.
Sheyda è il nome che la vera attrice assume nel romanzo: in persiano vuol dire "innamorata". E in effetti, in tutte le azioni e i gesti che compie la giovane protagonista della storia, si sente in modo molto potente di quanto amore sia dotata tutta la sua persona.
Sheyda ama innanzitutto la sua famiglia, segnata dalla persecuzione da parte del regime degli Ayatollah, che prende il potere in concomitanza con la sua nascita. La madre, oltretutto, non è nemmeno musulmana, ma di religione Bahai, molto invisa non solo ai seguaci del Profeta più radicali. Per questo motivo (almeno, se la memoria già non m'inganna), tutta la famiglia è costretta a lasciare la casa natale dell'attrice ancora bambina, per lasciarla a un'altra di provata fede e di modi che poi si scopriranno decisamente inurbani.
Il padre di Sheyda, un famoso attore amatissimo in Iran, riesce infatti a tornarne in possesso dopo un lungo periodo, ma la casa è pressoché distrutta. Dal pessimo ricordo la piccola futura star resta marchiata per sempre.
Crescendo, Sheyda diventa sempre più bella e, diciamolo pure, femmina. Un giorno, mentre sta andando a scuola o, forse al Conservatorio (la madre la vede già che suona al Musikverein di Vienna), dei simpatici maschi probabilmente coetanei le buttano l'acido sull'impermeabile. Lei fa per toccarsi nel punto dove sente umido e la sua mano resta bruciata. La cicatrice è ancora lì a rammentarglielo.
Dopo quella pessima esperienza, decide di rasarsi a zero e di vestirsi da maschio: si dà anche un nome, Amir. Amir sa giocare a calcio, perciò, i seni fasciati, si mischia diverse volte a un gruppo di teppistelli e fa pure a botte, per dimostrare di essere forte come e più di loro.
Calato il sipario sulla sua prima rappresentazione, da allora Sheyda e i suoi capelli che stanno ricrescendo, quattordici anni appena, sa che non potrà far altro che recitare.
E infatti recita, innamorata com'è dei ciak, dei registi (di uno in particolare, che è pure di comprovata fede islamica, mentre lei, per un periodo, si era avvicinata al cristianesimo e più avanti anche al buddismo) e infine di un ragazzo, che forse la manipola, o forse no. Alla fine arriva Alex, il marito, che le permette di coronare un altro suo sogno: guidare un camion, in pieno deserto.
Ma poi chissà se tutte queste storie che racconta sono vere: il fatto è che Sheyda, cresciuta in anni di processi e condanne (non di rado a morte) per apparenti ragioni politiche, è abituata a dire solo "un quinto della verità", come si ripete spesso nel libro.
Non si sa, quindi, se tutto quello che riporta la voce narrante, l'alter ego della scrittrice Tajadod, vent'anni più di Sheyda, cresciuta sotto lo Shah, mai indossato un chador o qualcosa del genere, sia vero.
Chi, tuttavia, ha letto anche solo Persepolis, di Marjane Satrapi, o Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi, non dovrebbe dubitare che quel quinto narrato nel libro sia, eccome, la verità.
Comprese, certo, le contraddizioni psicologiche di Sheyda, attratta da Hollywood e dal benessere Usa, ma al contempo straziata dall'addio alla sua terra, con il quale si conclude la storia.
Non sto rivelando il finale, preciso, perché, per come è costruita la narrazione, si capisce quasi dalla prima pagina quale sarà il destino dell'attrice: diventare un'espatriata a vita. Perché, direte voi? Perché ha osato mostrarsi senza velo e con le braccia e le gambe bene in vista a una cerimonia per il suo film a New York. Perché considerata, anche, una spia della Cia o del Mossad, e non quale è, ossia una giovane donna con un gran talento per il palcoscenico. La vera attrice, peraltro, ha fatto anche di più (scandalo!): nel 2012 si è mostrata nuda in una campagna contro gli abusi sulle donne. Figuriamoci se potrà tornare.
Nella finzione letteraria non c'è traccia della messa al bando ufficiale, ma ci si sofferma invece sui sette mesi di interrogatori che Sheyda subisce dopo il suo rientro da un lungo viaggio negli Stati Uniti, durante il quale ha girato un film "anti-imperialista". E' talmente orgogliosa di ciò che ha appena compiuto (il grande salto nel mondo delle major non è mica cosa da tutti) da negare l'evidenza di quanto, invece, sta per succederle.
La giovane rischia grosso, in termini di denaro e, forse, pure di vita: lo si deduce dai contatti che la ragazza ha con altri sventurati, che come lei passano giornate intere nei tribunali della rivoluzione per farsi ridare i documenti o per altre estenuanti richieste di intercessione.
Sheyda è a un passo, lo si sente in maniera forte e chiara, dalla perdita del bene più grande, tolta la vita: la dignità.
Sapete che vi dico? Il libro scorre molto bene (l'autrice, e chi ne ha curato la traduzione, sa creare suspense e coinvolgimento emotivo), ma, anche se fosse stato scritto male, almeno per me, il senso di rabbia impotente sarebbe stato ugualmente molto forte.
Come si fa a dire che l'Iran è un Paese in espansione, se non fosse per la questione dei diritti umani, "anni luce indietro rispetto all'Occidente", come ho letto in uno speciale dell'Ansa sull'ex paese delle Mille e una notte?
Mi rendo conto - sono abbastanza anziana, ahimè, e disincantata - che ai governi interessa assai poco che nel 2015 ci siano state non so quante impiccagioni (impiccagioni, capito?), e che invece, in fondo, le donne vanno all'università, guidano l'auto e possono mettersi rossetti provocanti, quindi perché non fare affari con un popolo che ha golosissime riserve di petrolio?
Però, amici miei, io in Iran non ci metterò di sicuro piede, ma neanche se mi pagano, perché non mi frega nulla che sotto il chador e l'hijab le donne siano in guepiere e che il velo, sotto sotto, le protegga pure dagli stupratori della domenica (e degli altri giorni della settimana).
Non posso, non potrei mai, tanto meno, fare affari con i loro barbuti politicanti né mi fanno simpatia i richiami del Muezzin alla preghiera.
Perdonatemi: ma, essendo completamente, integralmente, anti-clericale, qualunque tonaca nero pece, qualunque turbante sgargiante, mi provoca, a dir poco, diffidenza.
In definitiva, non posso proprio accettare, mancandomi da vedere un sacco di altri Paesi del mondo, sperando di farcela, un giorno o l'altro, di bardarmi come il cugino It pur di far vedere che sono una globetrotter amica dei popoli.
No, grazie.
Detto ciò, l'Iran è sicuramente affascinante e credo che sia essenziale leggere libri come questo che mi ha regalato, molto intelligentemente, la mia ex compagna di liceo, Simona, una notevole testa su un procace corpo di donna, che in Iran, al contrario di me che non ci andrà mai, c'è stata, e ne ha assaporato pregi (i paesaggi incredibilmente verdi che l'hanno assai sorpresa) e difetti (l'incazzatura che si è presa con una guardia della Revoluciòn che le aveva detto di coprirsi meglio la testa e di non fumare in pubblico, lei che era davanti all'hotel dove dormiva, spendendo quei soldi del corrotto Occidente che tanto fanno comodo ai capi dell'idiota indottrinato che l'aveva redarguita).
Voglio, tuttavia, essere speranzosa come Nahal Tajadod, che in un'intervista pubblicata sul Manifesto in occasione della presentazione del suo libro al Salone di Torino, ha sostenuto che la sostituzione di un regime autoritario come quello di Reza Pahlevi con un altro come quello islamico di Khomeini e i suoi eredi, oggi tuttora al potere, abbia ingenerato negli iraniani comuni degli anticorpi che un giorno non lontano si prenderanno la loro rivincita.
Spero, con tutto il cuore, che abbia ragione lei.
Anche se i tempi sono piuttosto cupi e non sembrano proprio andare in quella direzione.
Da parte mia, se posso fare qualcosa da qua, senza fazzuolo in testa, lo farò.
A voi, donne iraniane e non solo voi, in bocca al lupo.
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