Dovrei alzarmi da questa sedia e andare a fare qualcosa di pratico, ma sono giorni e giorni che ho davanti questa fotografia, ri-fotografata l'ultima domenica dello scorso gennaio, al termine di un pranzo di famiglia che ho voluto strappare alla routine degli spostamenti da e verso Chieti in solitaria, quelli fatti, voglio dire, da mia sorella e da me per dare il giorno di riposo alla tizia che dorme da nostro padre.
Eravamo davanti al Campidoglio, in abiti eleganti come si conviene alla mamma e alla sorella della sposa. Ricordo molte cose di quella giornata e anche di quella seguente, compresi alcuni piccoli incidenti frutto dell'emozione collettiva (e del maltempo: quanta pioggia!).
La osservo spesso quando vado giù, come faccio, d'altra parte, anche con le altre fotografie appese alle pareti da lei, nostra, mia madre.
Le piaceva radunarle in piccoli collage corredati di didascalie scritte a penna che man mano vanno sbiadendosi.
Negli anni era diventata più palesemente sentimentale, anche se manteneva comunque un certo contegno, tipico di chi non gradisce troppo le smancerie.
Eppure amava riceverne o almeno io ricordo diverse occasioni in cui si è mostrata offesa per la mancanza di tatto, vera o presunta, degli altri.
Permalosa? Forse sì, lo era, ma vere ferite non credo ne abbia ricevute.
Qualche delusione gliel'abbiamo data (io di sicuro), ma il legame tra noi non si è mai spezzato e credo l'abbia sentito (almeno lo spero) fino alla fine.
Comunque, tornando alla fotografia, mi piace molto l'espressione che abbiamo entrambe.
Il suo sorriso è aperto e accogliente (credo dipenda dall'autore dello scatto, mio marito, presumo, verso cui mia madre ha mostrato, diciamo quasi da subito, grande simpatia).
Io, invece, non mostro i denti, come faccio nelle foto non forzate.
Mi limito a sorridere, appoggiandomi leggermente a lei, la mia forza, il mio bastone. Anche in senso negativo.
Non c'è stata mai nessuna persona capace di farmi sentire piccola e insignificante più di mia madre.
Che, al contrario di quanto possiate pensare in questo momento, mi riempiva spesso di complimenti, soprattutto per il mio aspetto e per la mia natura "fragile e forte", come mi scrisse in una lettera.
In quel periodo litigavamo per le mie scelte professionali, ma lì, in quello scatto, mi accorgo che non ve ne fosse minima traccia. Il bene che ci volevamo andava oltre la ragione, i progetti e gli errori che pure sono seguiti.
In quella foto sono solo la figlia, la sua Sandrina così confusa e dolce, la sorellina orgogliosa che gioca a fare la donna, ma che in realtà ha ancora bisogno di affetto e di supporto.
Ne ho bisogno ancora oggi, ma quello sguardo lì non c'è più né potrà più esserci.
Sono stata fortunata, però.
Non tutti sono amati dai genitori, dalle madri, poi.
Avrei voluto avere più tempo per farmi vedere come sono oggi, con le pezze al culo più del solito, un po' smagrita, ma con la testa assai più sgombra dalle inutilità.
Chissà che faccia avremmo avuto se avessero potuto fotografarci insieme a una festa, o magari durante un viaggio, uno dei molti che lei avrebbe voluto fare e che molto vorrei fare anch'io prima che sia troppo tardi.
Eppure io sento che c'è e che mi segue. Ogni tanto mi viene a trovare in sogno e in genere è energica come lo è stata da viva.
Che mi stia dicendo ancora di non mollare?
Ma io non mollo, cara mamma, stai tranquilla. Non è facile, no, anzi: è durissima, ma sento di essere a un passo dal decollo, e stavolta non è un'illusione delle mie, perché di illusioni non ne ho più.
Aiutami a restare concreta e insieme a non avere paura.
Fammi sentire che posso ancora appoggiare la mia spalla alla tua e sorridere lievemente, come in quella foto.
"Eccovi qua chi ero: un bambino italiano cresciuto a
Brooklyn, diventato un ballerino di danza spagnola e dopo, per qualche
bizzarria del destino, 'il brindisi della Scandinavia'. Nessun romanziere vi avrebbe
mai consigliato una trama simile".
Le parole sopra riportate appartengono a Costanzo Greco, il
nome vero del Principe del flamenco noto anche a Hollywood con il nome di José Greco, nato a Montorio dei Frentani, oggi in Molise, due giorni prima del
Natale 1918.
La frase è tratta dall'autobiografia scritta dall'artista
con Harvey Ardman nel 1977, intitolata The gypsy in my soul,
letteralmente "lo zingaro nella mia anima".
Se mai avesse potuto
tradurla nella lingua madre, ho la sensazione che Mister Greco avrebbe
scelto di puntare di più sul suono fortemente evocativo della nostra parola
cuore, associandolo, certo, alla componente "zingara" dell'arte della
sua vita, ma anche alla nostalgia per le radici lontane, ricercate probabilmente
in tutte le donne che ha amato.
Peccadillos chiama il nostro eroe le storie
multiple e le avventure passeggere intrecciate mentre mette su e porta al successo la compagnia
di ballerini di origine prevalentemente ispanica e gypsy, con la quale sbarcherà
nel giugno del 1949 in Scandinavia e Danimarca, le prime terre del Vecchio Continente,
dopo la Spagna qualche anno prima, destinate a consacrarlo a sovrano della
danza spagnola moderna, approdata in Europa e in Nord America negli anni Trenta
dell'Ottocento.
Un po' di storia del flamenco e dintorni, tratta da giornali
dell'epoca, è riportata nel libro nel punto in cui Greco parla della vigilia
del debutto a Broadway, a pochi metri da dove ha fatto il "ticket
runner", quando il suo futuro agente Jack Nonnebacher gli consiglia di lasciar
perdere la danza e di fare piuttosto il camionista.
Chi avrebbe mai immaginato, invece, che un giorno il suo
nome sarebbe comparso a caratteri cubitali e luminosi sulla facciata del Lee
Shubert Theatre? Probabilmente non l'avrebbe mai detto nemmeno l'impresario che
dava il nome a quest'ultimo se non l'avesse notato nel film
"Manolete", visto per caso qualche anno dopo l'uscita in una sala di
Parigi.
E dire che il nostro Costanzo non ne parla benissimo nel libro:
ricorda, sì, di aver ballato molto bene (altro che), ma le riprese durano molto
più di quello che gli avevano promesso, in anni in cui lui si è già fatto
conoscere e apprezzare direttamente a Siviglia, durante una tournée molto
impegnativa che gli permette di accumulare sufficiente denaro per tornare in
Italia per la prima volta dall'infanzia e portare una montagna di regali ai suoi compaesani.
Ancora oggi, dalle parti di Montorio, si rievocano di tanto
in tanto i bauli carichi di vestiti (e molto, troppo pepe!) collocati dal
danzatore italo-americano in mezzo alla piazza perché ognuno potesse scegliere
quello che voleva.
Divertente l'aneddoto-postilla che di sicuro avrà prodotto
analoga reazione anche sullo scrittore che l'ha aiutato a buttare giù i suoi
ricordi. Gli dice infatti lo zio: "Sei stato così generoso con noi,
Costanzo, ma la prossima volta...". "La prossima volta cosa?",
gli risponde la nostra star. "Beh, il denaro sarebbe più utile. Con il
denaro potremmo comprarci da soli le cose, magari più economiche di quelle che
ci hai comprato tu".
Della serie: evviva la gratitudine.
Da migrante transitato per l'Oceano Atlantico a bordo di una
nave come tanti prima e dopo di lui, Greco però capisce il senso della
richiesta del suo parente, perché conosce, eccome, il valore del denaro, un
tema che percorre tutta la sua autobiografia e che, credo, lo avrà preoccupato
fino alla fine dei suoi giorni.
Perché il successo non ti regala necessariamente anche la
stabilità economica, ribadisce a più riprese: pagine e pagine, anzi, sono
dedicate proprio all'analisi delle spese affrontate per organizzare le tournée,
altre alle trattative con gli artisti, non tutti descritti come il massimo
dell'affidabilità. Più di qualcuno, anzi, l'abbandona nel mezzo dei preparativi
di un nuovo spettacolo, per altri Greco è costretto a fare da mediatore per via
di intrecci amorosi piuttosto complicati.
A volte si sente la fatica che gli
costava tenere tutto in piedi, considerando anche i suoi, di intrecci amorosi,
un aspetto di cui parla piuttosto diffusamente.
Al di là di tutto, a me sembra vero solo questo: Greco
doveva danzare e diventare la star che tutti gli appassionati di danza spagnola
conoscono e ammirano ancora oggi.
Se non l'avesse fatto, la storia dell'umanità lo avrebbe
rimpianto per sempre.
Per capire di che cosa sto parlando, basta vederlo atterrare
con il ginocchio piegato con quel "mix di eleganza e forza" che gli
attribuiscono i critici all'indomani del debutto a Broadway. Le repliche
dovevano essere una quindicina, ma Mister Shubert le allunga a un paio di mesi.
Nel frattempo, Greco va anche in tv e riceve altre proposte cinematografiche.
Nel '52 esce il film "Sombrero", un rifacimento di Don Chisciotte in
salsa messicana, racconta, girato da Norman Foster. Nel film è costretto a dare
uno schiaffo alla protagonista (Chyd Charisse) che interpreta la parte di sua
sorella, mentre lui è un discendente di una famiglia di zingari spagnoli, oltre
che un torero. La pellicola non lo
convince, o forse è più esatto dire che è lui a non essere convinto di se
stesso, perché un conto è danzare, un altro è essere pronti ai ripetuti ciak
chiesti dal cinema.
Sia come sia, noi profani non ce ne accorgiamo e ogni scena
in cui l'hanno immortalato mentre accompagna l'aria con il suo corpo è un puro
piacere per gli occhi. E l'anima. O il cuore, se preferite.
Lo sapeva persino Simone Signoret, sua compagna di cast nel
film La nave dei folli, accanto a molti altri famosissimi attori,
che un giorno gli dice: "Sai, José, non avrei mai potuto avere una storia
con te". "E perché?", le risponde lui sorpreso. "Beh, sei
troppo simile a mio marito, Yves Montand. Se avessimo avuto una storia mi
sarebbe sembrato di fare l'amore con lui. E quello posso averlo di tanto in
tanto".
Simpatica e intelligente la Signoret, non c'è che dire, come
riconosce Mister Greco, che apprezza molto anche Vivien Leigh, David Niven, suo
compagno di cast nel "Giro del mondo in 80 giorni" e svariati altri
Vip.
Tra i più famosi c'è sicuramente Frank Sinatra, che gli
regala un mucchio di soldi salvandolo dai guai in un casinò di Las Vegas. E
poi ci sono gli incontri ufficiali, come quello che Charles De Gaulle, che si
vede stringergli la mano durante una cerimonia di gala. Prestigiosissima è la
Croce di Cavaliere al merito civile di Spagna ricevuta in ambasciata a
Washington l'8 aprile 1962.
Proprio quell'anno è nato José jr, uno dei figli di Lola DeRonda, un'altrettanto indimenticabile regina della danza spagnola, che sarà celebrata
con l'immortale papà in una serata omaggio prevista a Porto San Giorgio il
prossimo 2 febbraio nel teatro della cittadina marchigiana a partire dalle
21.15.
Come mai lì? Perché proprio a Lu Portu vive il quartogenito di Costanzo, José jr, ballerino e insegnante come poi è stato anche suo padre:
a lui e all'attrice Elisa Ravanesi innanzitutto il merito di aver organizzato lo
spettacolo al quale parteciperà anche la sorella minore Lola e altri artisti appassionati
di musica e danza spagnola.
Molto disonorevolmente sono stata coinvolta anch'io nelle
vesti, davvero poco abituali, di presentatrice.
Non vi nascondo l'ansia, ma insieme anche l'emozione,
autentica, per questo viaggio alla scoperta di una vita davvero straordinaria.
Verso la fine del libro Costanzo cita una vecchia storiella
vaudeville che gli racconta una volta il suo caro amico Nonnebacher, per
risollevarsi reciprocamente di fronte agli ennesimi problemi economici.
"C'era un uomo che affermava di avere di un asino
parlante, ma quest'ultimo non parlava mai". Greco non rammenta i passaggi
intermedi, ma sa che a un certo punto c'è un impresario che aspettava e
aspettava che l'asino finalmente parlasse che dice all'uomo: "Quando
l'asino parlerà, diventerai ricco". Bene: per Jack un giorno o l'altro
l'asino avrebbe parlato.
Proprio nelle ultime righe mister Greco si sofferma sulla
sua grande ed estesa famiglia, dedicando parole a ciascuno dei suoi sei figli e
a Nana Lorca, la penultima compagna di vita prima della giovanissima Anna, che
si innamorerà di lui quando ha appena sedici anni e lui molti di più: e infine
ad Argentinita, vera e propria sacerdotessa della danza spagnola, colei che gli
dà il nome d'arte José oltre che l'anello simbolo dell'unione imperitura con
l'arte. Quindi conclude: "In qualche modo, credo che il futuro si farà da
solo. E chi lo sa: forse l'asino finalmente parlerà".
Speriamo abbia ragione. Ma sì che ce l'ha.
Nell'attesa, chi può, intanto, venga in teatro a vederci.
Come pensi si debba reagire di fronte a un cambiamento lavorativo? Cosa ti ha lasciato il fatto di aver dovuto affrontare nuove situazioni, conoscere nuovi colleghi, etc?
La domanda in corsivo mi è stata fatta via Whatsapp da un amico che mi ha onorato della lettura del post precedente sul libro di Vitaliano Trevisan.
Con mia grande sorpresa, mi ha spiazzata: e mo' che gli rispondo?, mi sono detta.
Per prendere tempo, gli ho chiesto di mandarmi la sua mail: ho bisogno di "nascondermi" dietro le parole scritte, ho precisato.
E' davvero difficile dire qualcosa di univoco. Spero almeno di riuscire a essere chiara.
Dunque, cominciamo.
Parto dagli stage, per definizione destinati a concludersi in tempi più e meno rapidi.
Nelle aziende più grandi (la più grande per definizione nel settore pubblico della tv, per capirsi) mi vedevo talmente ragazzina professionalmente parlando, da non aver mai neanche per un momento pensato che quello sarebbe stato il mio futuro luogo di lavoro. Accomiatarsi alla fine, perciò, è stata più una festa di fine anno scolastico che altro. Poco tempo fa, tra l'altro, ho ritrovato le foto che avevo scattato l'ultimo giorno ai colleghi, alle cui scrivanie (com'è successo in tutti i successivi stage che ho fatto dopo) mi alternavo in coincidenza con le loro ferie. Che bella esperienza e che ambiente rilassato, almeno all'epoca.
Un po' diverso è diventato il mio atteggiamento con i primi contratti di collaborazione fino alla sostituzione di maternità nel giornale economico più importante d'Italia, vissuta, francamente, non al massimo della mia lucidità.
Lì chiudere non è stato affatto semplice (mi ricordo i pianti e la scatola con i pochi effetti personali che ho dovuto portare via con me), anche se a distanza di tempo ho fatto pace innanzitutto con me stessa per l'incauta scelta di andarmene dalla città.
Poi sono venuti i primi tre anni marchigiani, partiti, romanticamente, benissimo. Lo strappo finale è stato duro, molto duro, e mi ci è voluto del tempo per abituarmi alla solitudine di una casa non mia, a pochi passi da una piazza addormentata nella nebbia, a svolgere un lavoro a distanza, parlando quasi tutti i giorni con gente che abitava, guarda caso, proprio nella città che tanto mi era parsa ostile. Era strano non incontrarsi, ma con il tempo, però, finisci per abituarti al silenzio e anche all'indipendenza che ti regala l'assenza di subordinazione.
Quel lavoro è finito poco alla volta, come un paziente terminale che man mano se ne va. Ed è coinciso, in effetti, con la malattia di mia mamma, per cui, sinceramente, non ne ho avvertito più di tanto la conclusione definitiva.
Poi sono sbarcata a Lu Portu, con un'energia e un'incoscienza forse tipiche dei cani che viaggiano da troppo tempo a briglia sciolta.
Le chiusure degli ultimi tempi non sono state, quindi, granché dolorose, perché via via ho finito per considerare normale che qualcosa finisca (soprattutto quando non si crede che valga la pena proseguire), con tutto quello che comporta in termini di relazioni umane che saltano. Di qualcuna sento la mancanza, ma è meglio andarsene nutrendo un sentimento positivo piuttosto che arrivare a non sopportarsi più.
Sia che si scelga di andarsene, ma anche in caso contrario, resta però latente un certo sapore amaro, che non so dire se sia senso di colpa o una sottile forma di auto commiserazione, ma dura poco: giorni, settimane, al massimo pochi mesi. Almeno, finora è stato sempre così.
In tutto questo gran peregrinare disordinato, ho comunque fatto chiarezza su quello che mi aspetto da un lavoro e mi pare già un grande risultato.
Rimando alla prossima domanda del mio amico (se mai avrà il coraggio di farmela) la spiegazione della precedente frase (una persona disoccupata è bene che tenga un basso profilo: non si sa mai che si giochi qualche buona occasione di lavoro), però davvero lo ringrazio di avermi dato l'occasione di tornare sulle riflessioni scatenate dalla lettura del bel libro di Trevisan.
Ero indecisa se scrivere qualche riga su Works, il libro di Vitaliano Trevisanche ho finito di leggere ieri mattina. Non vorrei che si confondesse la forte impressione che hanno prodotto su di me le oltre seicento pagine che lo scrittore vicentino ha dedicato ai suoi svariati e più lavori che l'hanno impegnato dai tempi della scuola al 2002 con il mio personale percorso professionale così disastrato.
Certo, se Trevisan mi ha colpito vuol dire che ha toccato qualche corda che mi riguarda molto direttamente, ma il rischio che corro, quando succede com'è effettivamente successo con lui, è di diventare barbosa oltre ogni misura.
Posso solo dirvi che consiglio la lettura di questo viaggio nella ricca provincia italiana del Nord Est, partito negli anni Settanta del secolo scorso e approdato nei primi due dell'attuale, a chi abbia voglia di immergersi in una scrittura cervellotica e sinuosa, ironica e amara.
Ho letto qui e là paludatissime recensioni che ne coglierebbero citazioni più e meno esplicite da Thomas Bernhard, un autore a me del tutto sconosciuto. Niente di più facile, visto che Trevisan lo nomina nel libro a più riprese come uno dei suoi tre numi tutelari, letterariamente parlando, insieme con Samuel Beckett e Ludwig Wittgenstein. La mia crassa ignoranza mi ha preservato finora dalla lettura pure degli altri due, quindi figuriamoci se mi metto a negare l'esistenza di punti di contatto tra lui e loro.
Sia come sia, Trevisan mi ha fatto invece nascere proprio la curiosità di saperne di più, di Bernhard and co, e in generale ho apprezzato la generosità con la quale si è messo a nudo, o ha finto di farlo (restando però credibilissimo), probabilmente, più di quello che dichiari in corso d'opera.
Dev'essere, in ogni caso, un grande rompicoglioni proprio come si dipinge, dotato contemporaneamente di un istinto speculativo (alla Wittgenstein?) non comune.
Oggi dice di vivere in un paesino di collina lontano dal centro storico "che gli fa schifo" e di passare poche ore al giorno a scrivere, e il resto a camminare o a spaccare la legna.
A vederlo, non dà l'idea che voglia fare il guru e francamente spero di non sbagliarmi.
Mi toccherà a breve restituire al legittimo proprietario una delle migliori scoperte dell'anno passato: un sentito grazie va a lui, e in generale agli organizzatori del Premio Volponi per la letteratura e l'impegno di civile, tornato a Lu Portu dopo vari anni di migrazioni.
E' già la seconda volta che uno dei libri in concorso (anche l'altra volta non il primo classificato) mi dice talmente tanto da provare quasi dispiacere di averlo concluso. In quel caso si trattava di Sebastiano Nata e il suo "Il valore dei giorni": tutt'altra atmosfera e storia, ma, per me, uguale generosità letteraria.
Che altro posso aggiungere?
C'è troppa retorica sul lavoro come modo per "realizzare se stessi", come dice l'autore di Works. Bisognerebbe, se possibile, tentare di capire chi si è e ciò che si può fare con il solo fatto di essere in vita a prescindere dalle proprie ambizioni, chissà se morali o materiali.
L'inquietudine e più ancora la depressione e la voglia di mandare tutto a ramengo sono fedeli compagne di chi arranca giorno dopo giorno senza una meta precisa, ma io credo, in ogni caso, nell'istinto di sopravvivenza, lo stesso penso che faccia Trevisan e molti di noi.
Meno male, poi, che ogni tanto qualcuno fissa sulla carta qualcosa di fondamentale. Di doloroso, anche, ma di quel genere che di dolore che fa bene, perché ti spinge a non addormentarti, o a farlo nei tempi giusti.
E alla fine il posto in prima fila ce l'hanno sempre loro: gli amici a quattro zampe.
Sono mesi che non aggiorno il blog e non credo che tornerò a farlo in modo regolare, però ho proprio avvertito l'esigenza di ripassare di qua dopo aver letto un articolo dedicato a George Winston, pianista americano noto (soprattutto) per aver riarrangiato la musica di Vince Guaraldi da quest'ultimo composta per i film sui Peanuts.
Ignoravo quale ruolo avessero giocato i gatti nella vita di questo musicista, autore di un cd di commovente bellezza, intitolato Spring Carousel.
Nell'articolo si spiega come e dove l'abbia realizzato, ossia di sera nella sala musica dell'ospedale nel quale Winston era ricoverato dopo un serio intervento chirurgico.
Non so se questo pianista dal viso etereo e il sorriso rasserenante abbia sconfitto definitivamente il male, ma di sicuro i ventidue gatti che ha incontrato durante la sua esistenza dall'infanzia a oggi l'hanno aiutato a elevarsi al di sopra di ogni dolore.
Basta sentire la sua musica per capire di cosa sto parlando.
Ho corso con i brani di Spring Carousel nelle orecchie durante l'ultima dieci chilometri che ho affrontato in buona parte da sola. Era la prima volta che l'ascoltavo e ne ignoravo la genesi.
Eppure.
L'album è dedicato alla primavera, racconta sempre il musicista nell'intervista, ossia il periodo della sua convalescenza in ospedale.
Un'analoga primavera si è portata via mia madre, ma io non ho smesso di amarla, come stagione, né ho smesso di credere nel potere curativo dei gatti (ma anche dei cani, per chi li ha), che pure lei ha imparato a conoscere a partire da un certo momento della sua vita.
C'è qualcosa in queste creature che ti costringe alla contemplazione. La grigia che vedete sopra sulla radio, per dire, tutte le mattine mi miagola fortissimo finché non mi costringe a sedermi e a tenerla in braccio.
Non crediate che lo faccia per affetto: sono certa che voglia solo scaldarsi un po', ma non nascondo che il suo opportunismo mi piaccia davvero molto, perché è come se mi spingesse a fare altrettanto.
Molla gli ormeggi, biondina, sembra voglia dirmi, intiepidendomi le cosce.
Uno dei brani dell'album di Winston porta il nome di uno dei gatti più importanti nella sua vita (si chiama Pixie #13 in C - Gobajie).
L'intervistatore lo giudica particolarmente ispirato e in effetti ha ragione, forse anche perché anticipa bene i pezzi conclusivi dedicati all'amore, in tre diverse declinazioni, difficili da descrivere con le parole.
Se proprio devo sforzarmi, direi che nei brani di Winston (anche in quelli dedicati ai Peanuts) c'è sempre qualcosa che ti invita a lasciarti andare, esattamente come fanno i corpi di questi animali quando dormono.
Al contempo, una musica di così immensa grazia richiede un ascolto attento, così come fa la gatta grigia, quando mi assale con i suoi miagolii finché non mi trasformo nel suo scaldino.
Durante la corsa c'eravamo solo io, le mie gambe e le note di questo straordinario personaggio. Sono arrivata al traguardo quasi riposata. Qualcosa del genere mi capita dopo una seduta con la gatta sulle gambe, tolti gli scricchiolii delle giunture e lo stiramento sonoro molto poco felino.
Sono momenti di presente assoluto e di nostalgia.
Chissà se capisce quello che le dico. Perché, naturalmente, con i nostri piccoli amici si parla. In particolare, arriva sempre un momento in cui muovo un arto preceduto dal mio: "Ok, adesso è ora di scendere, forza". Di solito alza prima mezzo orecchio e solo al secondo o terzo micro movimento salta giù con un vago senso di fastidio. I cuscini umani non valgono una cicca, penserà.
La seduta mattutina mi costringe ad accettare lo scorrere del tempo, a spurgarmi, a volte, dai sensi di colpa per la mia protratta inattività.
La musica di Winston si adatta perfettamente a questo stato d'animo.
Intuisco la grandezza del privilegio che mi è capitato in sorte proprio durante attimi del genere.
Dov'è andata la rabbia? Perché, anzi, ero arrabbiata prima?
Poi, certo, il cd finisce e la gatta si accoccola nell'angolo del divano sulla sua copertina.
Io sono ancora in pigiama o in tuta, non ho nemmeno messo la crema sul viso e non so bene che cosa sarà della mia giornata, ma non è il caso di preoccuparsi.
La vita va avanti lo stesso.
E qualcosa accadrà.
Fino alla prossima seduta musico-felino-terapeutica.
Sto per scrivere parole di lagna e di dolore, ma ne ho bisogno, quindi passate oltre, se vi annoio.
Ho scoperto Chantal Kreviazuk grazie a mio marito, molto attento alla musica, tanto più se declinata al femminile.
Lei è un'artista canadese a tutto tondo: oltre a cantare magnificamente, scrive musica e parole, recita ed è pure madre, mi pare di tre figli. In più, è bella e di classe, insomma: una strafiga, almeno per i miei parametri.
La canzone "Into me" che linko sopra fa parte dell'ultimo album intitolato "Hard sail", dedicato al suo matrimonio (in estrema sintesi): il marito di Chantal, manco a dirlo, è un musicista come lei, è belloccio e ora che ci penso sto per avere un attacco di bile.
Scherzo: mai stata un tipo invidioso, io.
Il che porta al risvolto patetico della faccenda.
Non conoscevo il testo di "Into me" fino a pochissimo tempo fa, quando me lo sono scaricato.
Parla dell'inizio di una storia d'amore e dell'incredulità che prova lei, che al risveglio accanto a lui, si sente invadere dalla gioia quando realizza che lui, sì, proprio lui, non sta andando da nessuna parte.
Non capendone le parole (Chantal gorgheggia "you're not, you're not"), mi ero fissata sulla strofa in cui dice "I want more, I want more", seguito davari "more" in crescendo.
Correndo con la sua musica nelle orecchie, li ho gridati un sacco di volte, come un inno di guerra (non senza prima essermi guardata intorno: folle sì, ma in solitaria).
"Voglio di più, di quello che credi", diceva Pino Daniele in tutt'altra canzone, parlando, in questo caso, di "anni amari".
Ne ho vissuti parecchi, di anni amari. Ora basta.
Curiosamente, mi sono ricordata di un monologo che in tempi non sospetti mi avevano affidato nella compagnia amatoriale di Chieti Scalo che ho frequentato nel periodo di transizione tra l'università e la scuola di giornalismo, che fino a poco tempo fa ho creduto fosse il più buio della mia vita.
Non rammento più le parole precise, ma impersonavo una donna forse dell'età che ho adesso, che racconta i fatti suoi ad altra gente seduta come lei sulle panchine di un parco.
"Ho avuto anni buoni nella vita, diciamo pure cinque o sei", dicevo a un certo punto. Più avanti nominavo quel "tarlo" che all'improvviso ti entra nella testa levandoti la serenità.
Quel monologo mi ha portato una iella pazzesca o più semplicemente, devo rassegnarmi, io non sono predisposta al "successo".
Davvero non so spiegarmi altrimenti il perché di alcune scelte di vita, alcuni cambi di rotta e ora, a pochi giorni dal mio compleanno, perché mi ritrovi ancora a comportarmi come una vecchissima adolescente.
In verità adesso so che cosa mi farebbe stare meglio, ma purtroppo non posso ottenerlo perché non dipende solo dalla mia volontà. La visione americana dell'esistenza rassicura e quando la vedi nei film ti pare di poterla inverare pure tu (mi riferisco a quelle atmosfere da "Fame" e ai sogni da afferrare al volo).
La realtà è diversa, anche se, come si vede nel romantico video di Chantal, può capitare di avere "anni buoni" nella vita, momenti di gioia pura che poi non dimenticherai più.
La felicità insomma esiste, ne sono certa, ma è fatta di tanti "hard sails", duri viaggi come dice la bella canadese, da affrontare, se possibile, in due o più (in un'intervista parla con grande ironia e franchezza delle madri che diventano "bestie" pur di proteggere i loro cuccioli).
Non tutti abbiamo, però, uguale forza e fortuna per affrontare al meglio il lato "hard" della faccenda.
Sono scappata troppe volte spaventata non so bene da cosa, dalla città in cui sono cresciuta, dai lavori più strutturati. Persino la facoltà universitaria che ho scelto è indice della mia grande irresolutezza.
Ormai è tardi, troppo tardi, per molte cose, ma per lo meno ho imparato a godermi il più possibile gli attimi di leggerezza ogni volta che si presentano.
Vorrei solo scrollarmi di dosso del tutto questo senso di inadeguatezza alla vita che mi "pietrifica", come dice la Kreviazuk, parlando della paura che prova al pensiero che lui possa andarsene.
Al contempo, so che è giusto occuparsi del genitore in difficoltà, tirando fuori tutta la maturità di cui sono capace.
Si farà tutto quello che si deve, come sempre.
Spero solo di non arrivare alla fine della mia vita con quest'ombra di fallimento che mi porto addosso da troppo tempo.
Voglio di più, voglio di più.
Di più.
Un giorno imparerò a cantarlo per bene (la mia giovane insegnante di canto spero abbia abbastanza pazienza e pietà). E chissà se basterà questo per ottenerlo.
Cercavo un collegamento tra "La ragazza del mondo", il film di Marco Danieli che ho visto venerdì scorso alla Comunità di Capodarco, per l'apertura dell'Altro festival, e "L'arminuta" di Donatella Di Pietrantonio.
Quando si dice il caso.
L'attrice protagonista che vedete sopra nella foto si chiama Sara Serraiocco ed è di Pescara.
L'autrice del libro che ha per protagonista una ragazza ancora più giovane vive a Penne. Forza Abruzzo, mi verrebbe da dire, ma solo perché sono una senza patria alla ricerca costante delle proprie radici.
Tolto l'orgoglio regionale, comunque, tra i personaggi visti e letti più o meno negli stessi giorni il legame c'è e ha a che fare con l'identità.
"Arminuta" vuol dire "ritornata" ed è il soprannome che viene affibbiato alla ragazzina al centro della storia dagli abitanti del paese nel quale torna a vivere, quando viene restituita alla famiglia biologica da quella adottiva, per ragioni che verranno spiegate durante la narrazione.
La ragazza del mondo è invece ciò che diventa Giulia-Sara, la diciannovenne testimone di Geova, che finisce per essere "disassociata", quando si scopre il suo legame d'amore con un ragazzo "di fuori" dalla comunità religiosa.
Al di là degli aspetti sociali delle due vicende (che pure sono significativi, altrimenti non si capirebbe granché della tensione narrativa che le pervade), sono rimasta colpita dalla forza di queste due giovani donne, capaci, ciascuna a modo proprio, di ricomporsi pezzo dopo pezzo dopo pesantissime fratture.
Alla fine del film (no spoiler, promesso) verrebbe da chiedersi che adulta diventerà Giulia, se riuscirà un domani ad amare nel modo giusto chi è dentro e chi è fuori dal mondo dal quale si è dovuta (o voluta?) allontanare.
Nel caso dell'Arminuta, invece, si sa che la trama si avvia quando la protagonista ha più o meno trent'anni, per cui già si intuiscono i mutamenti prodotti dalla scoperta tardiva di avere due mamme o forse nessuna.
In entrambe le storie, il dolore resta lì, muto e galleggiante, come quando si è smesso finalmente di piangere, ma si è ancora spossati dalle lacrime.
E tuttavia uno spiraglio c'è ed è molto femminile sia per i personaggi che lo rappresentano sia per il modo in cui viene espresso.
Mi colpisce, anzi, a pensarci adesso, che il regista della "Ragazza del mondo" sia un uomo: è proprio vero, allora, che quando ci si mettono quelli che stanno dall'altra parte del cielo sono capaci di grande sensibilità, epurata, direi, dalla retorica in cui spesso, ahimè, noi donne finiamo per cadere.
Donatella Di Pietrantonio, al contrario, sa dare voce anche agli uomini, ai maschi direi meglio, nel modo giusto, ma pure per lei la salvezza della protagonista è declinata al femminile.
Il film con la magnifica Sara Serraiocco e la terza opera edita di una - a mio avviso - delle migliori scrittrici italiane contemporanee non sono perfetti ed è anche questa una ragione della loro bellezza.
L'innamorato di Giulia poteva pure non essere un tossico-spacciatore, mentre qualche dialogo del libro poteva essere ancora meno esplicito di come è stato stampato, per aumentare la meravigliosa asciuttezza della prosa adottata dall'autrice. E tuttavia, ho amato tutti i personaggi principali di entrambe le opere: nel libro mi è piaciuto Vincenzo, il fratello-non fratello dell'Arminuta, e ancora di più la mamma ritrovata, con quell'incapacità apparente di compiere gesti d'affetto.
Nel film, invece, nonostante quello che ho scritto prima, mi sono immedesimata nella disperazione di Libero, il ragazzo di Giulia interpretato da un assai convincente Michele Riondino.
Sono storie alle quali ti affezioni, insomma, capaci di riscuoterti dal torpore di giorni troppo identici a loro stessi. Già solo per questo motivo, non posso che dire grazie a chi ci ha lavorato con tutta la passione e la competenza che ci vuole.
Non basta una vita, probabilmente, per capire chi siamo e che diavolo ci facciamo qui: qualcuno, però, ha almeno il dono di fornire un po' di senso al nostro vagare.