Dovevo capirlo già qualche mese fa e invece ci sono arrivata solo da pochi giorni.
Meglio tardi che mai.
Non è più tempo, per me, di stare dietro a un blog così generico e semi-personale o semi-professionale, a seconda dei punti di vista.
Sto lavorando, ho lavorato molto durante l'estate (sempre per i miei parametri) e continuerò, con ritmi tutti da scoprire, anche nell'autunno che si approssima.
Poi c'è il resto della giornata, da vivere, se possibile, con pienezza.
Non ho voglia di stare anche qui, in sostanza.
Sappiate, cari amici, che continuerò sempre a ringraziarvi per l'affetto che qualcuno è venuto a dimostrarmi anche quaggiù.
Non bisogna mai dare nulla per scontato, perché so bene che chi mi ha letto ha scelto di dedicare qualche minuto proprio a me ed è sempre un grande onore.
Scoprirò, da cronista locale, altri tipi di pubblico e forse altro genere di visibilità. Spero di non farmene troppo intimidire e di mantenere la giusta distanza che serve per scrivere per altri che non sia il mio sciocco ego.
A proposito di scrittura, però, ho bisogno di fare una piccola precisazione.
Non smetterò di scrivere per me, ma lo farò in un altro modo.
Voglio farlo sul serio, insomma, per rendermi conto se ho davvero qualcosa da dire o se, com'è probabile, si tratta solo dell'ultima illusione di questa giovinezza che mi ostino a non lasciar andare (psicologicamente parlando).
Sono felice, davvero felice, di aver avuto la possibilità di ricominciare a lavorare.
Non capita tutti i giorni e anche se dovessi stancarmi dopo pochi mesi, beh, stavolta non potrò dire di non averci provato.
E nel frattempo scriverò, forse a penna, forse al computer, non lo so ancora, ma non qui.
Lascerò comunque aperto questo spazio, qualora volesse venirmi la voglia di documentare come procedono gli esercizi di stile. Non ne sono ancora sicura, ma se lo farò, ve ne accorgerete.
Ho cominciato a lavorare per un sito di informazione locale a Fermo a primavera inoltrata, sottoscrivendo un contrattino che mi permette, diciamo così, di tamponare un po' il flusso in uscita dal mio conto corrente.
E' una piccola premessa necessaria giusto per dirvi che, in fondo, non sono una che ha grandi pretese.
Vorrei solo lavorare, pagarmi qualche spesa e sentirmi meno in colpa per aver buttato nel cesso le mie possibilità di carriera lasciando la grande città. Fino a martedì scorso, tutto sommato, mi era sembrato possibile: mi era parso, voglio dire, che me ne potessi stare qui sulla costa adriatica, lontana dai grandi fatti della storia, a scrivere di sagre, di consigli comunali, di concerti e tante altre belle e piccole cose che accadono in provincia.
Ma poi è successo quello che ora sa tutto il mondo, a pochi metri, oltretutto da me e dai colleghi che ho incontrato in questa micro fetta di 2016.
L'autopsia, a breve, dirà penso con precisione, se Emmanuel è morto per via del pugno subito o per arresto cardiaco o chissà cos'altro.
Il punto, però, non è questo. La causa scatenante resta quell'insulto "scimmia africana" che il buon cuore dell'arrestato fermano (qualcuno lo dipinge come un povero diavolo, purtroppo anche tra qualcuno dei miei conoscenti) si è permesso di indirizzare alla sposa ventiquattrenne o forse anche al marito e all'amico che era con loro, chi lo sa.
Credo di aver conosciuto veramente Fermo solo ora, dopo undici anni che ci abito e altri quindici che la bazzico.
Ho vissuto (qualcuno lo sa) l'esilio in terra marchigiana per circa otto anni dopo la mia esperienza, finita malissimo, al settimanale dell'arcidiocesi, ma, davvero, soltanto adesso sto capendo perché, a distanza di tutti questi anni, io continui a rimanere, per la maggior parte della gente che ho conosciuto (non per tutti, ovvio), un'estranea.
Completa estranea. Anche ieri in Prefettura, tra colleghi locali e non, ho provato un forte, dolorosissimo, senso di solitudine.
Ho sentito giornalisti che, tra una telefonata a un avvocato e l'altra, parlavano di vacanze in Sardegna, altri che protestavano per non aver avuto abbastanza ribalta (Alfano effettivamente si è degnato di rivolgerci la parola con quasi due ore di ritardo). Ho fatto da dittafono vivente grazie al computer del collega per mancanza di mezzi tecnologici che qualunque giornalista che si dica tale dovrebbe avere (se volete, ve lo spiego meglio perché non li posseggo, se non fosse abbastanza chiaro), ho scritto su una scrivania di fortuna in mezzo agli scatoloni e ho lavorato cercando di non pensare allo squallore che ho visto intorno a me.
Per esempio, quello di giovani colleghi che si fanno i selfie esaltati dalla giornata speciale col ministro, dei mezzi sguardi di scherno lanciati tra una strisciata sullo smartphone e l'altra, e poi le chiacchiere da social-paese sul buon Mancini (e sugli italiani uccisi dai brutti negri) e quelle di chi manifesta, strumentalizza e, ancora una volta, cerca solo e sempre di mostrare se stesso.
Non sono fermana, non sono chietina, non sono milanese, non sono giornalista, non sono fotografa, non sono militante, non sono qualunquista, non sono.
Finora ho pensato questo sotto voce, in cuor mio anche con una certa autoironia da disadattata cronica.
Da martedì qualcosa ha cominciato a rompersi.
Sarà questo il capodanno che aveva previsto Branko per noi cancerini del cavolo questo maledetto martedì.
Adesso è ora di dire chi sono e cosa provo.
Sono antirazzista e antifascista. Sono una giornalista. Sono una che scrive e che fotografa. Sono un'amica dei più deboli, da qualunque posto provengano, purché siano onesti e sinceri (la badante albanese che ha trattato male mia madre mentre se ne andava, non posso perdonarla, non ci riesco). Conosco il dolore. Conosco il lutto e so che la violenza genera, sempre e comunque, la violenza.
Sappiatelo, cari conoscenti, anzi: non più cari conoscenti, se siete tra quelli che a mezza bocca dicono il contrario di quello che sto sostenendo in questo istante. Rispetto le opinioni, ma non potrete mai essere miei amici.
Quello che è successo a Fermo, nella cittadina dalla quale sono fuggita per non soffocare scegliendo la costa per potermene, almeno, ogni tanto, più agevolmente andare, è di una gravità enorme.
Ed è ancora più grave, e più triste, che solo in pochi qui se ne siano veramente accorti.
Una cosa del genere non si liquida con una fiaccolata (pure giustissima, naturalmente), né con un corteo antirazzista con i soliti slogan visti mille volte.
Da una barbarie di questa portata ci si può (forse) risollevare studiando, leggendo, viaggiando, incontrando e, soprattutto, guardandosi bene innanzitutto dentro e poi anche l'un l'altro, negli occhi. Senza pregiudizi. Anche verso chi viene da sotto la linea tracciata dal fiume Tronto. Ce la fate?
Dimenticavo. Non sono credente. Non sono.
Credo, però, ancora nell'uomo. E, di più, nella donna e spero che la giovane Chimiery diventi un giorno un medico, come sognava di fare prima che la tragedia le piombasse in casa, dilaniandola materialmente e moralmente. Spero, anzi, che sia proprio lei un domani a curare i Mancini di turno che, temo, continueranno a spuntare come funghi.
Finisco con due canzoni del mio amato Paolo Conte che alla scimmia e all'orango ha dato una dignità che la maggioranza dei cosiddetti esseri umani non avranno mai. Se le scimmie sono queste, allora lo sono anche io.
Porto San Giorgio, le zumbere/i al saggio della Fermo 85 al Palasavelli
Già all'arrivo ho capito che sarebbe stato un grande evento. Mai stata prima al palazzetto dello sport de Lu Portu, sono stata accolta da un assembramento di auto piuttosto notevole.
Mi avevano anticipato, in effetti, che la Fermo 85 organizza saggi spettacolari, ma, davvero, non mi aspettavo di rimanerne così colpita.
Ogni anno l'associazione sportiva sceglie un tema attorno al quale far ruotare tutti i numeri degli allievi iscritti ai propri corsi, agonistici e non.
Sulla pedana morbida (un tantino faticosa, per usare un eufemismo), si sono così alternati bambini, ragazzi e adulti, parlando con il corpo dei "Mesi e le stagioni", il titolo scelto per il saggio edizione 2016.
Bene: era tutto, oserei dire, perfetto. Musiche, costumi, esecuzione degli esercizi, presentazione (a cura di Daniela Gurini di Tvrs), coordinamento tra backstage e on stage.
Immaginavo di intenerirmi guardando i più piccini, ovvio, ma non avevo idea che tra loro vi fossero così tanti talenti della ginnastica.
Che energia, che concentrazione. Davvero un gran regalo poterli guardare dal vivo mentre si lanciavano (letteralmente) sulla scena.
Vorrei realizzare una galleria fotografica, ma essendoci molti minorenni, aspetto di ricevere l'autorizzazione.
Ciò che conta, comunque, è quello che sono riusciti a trasmettere anche a una come me e forse, presumo, anche ai genitori che si assiepavano sulla ringhiera pur di afferrare qualche volteggio dei loro figli.
Bisogna buttarsi nella vita, partecipare, mettersi alla prova, cercando però di non smarrire mai le giuste proporzioni di ciò che si fa e di ciò che si è.
Non possiamo essere tutti campioni, però non c'è niente di peggio di chi rinuncia prima dell'impresa, di chi non rischia almeno una fettina di se stesso.
Sono piuttosto sicura che i partecipanti al saggio dell'altro giorno lo sappiano ed è per questo motivo che hanno restituito a noi che li guardavamo un'immagine gioiosa e armoniosa.
E se qualcuno è ancora lì che si mangia le mani per il passo sbagliato o il tempo fuori sincrono, beh, ormai è andata. Di certo chi li ha preparati saprà aiutarli a sbollire l'eventuale rabbia o frustrazione.
Ha detto bene, a un certo punto, la presentatrice (accidenti com'era alta rispetto a me!): se quei ragazzi sono riusciti a dare il meglio l'altra sera, il merito non è solo dei bravi insegnanti della Fermo 85 che li hanno preparati fisicamente e corazzati psicologicamente, ma è soprattutto di quegli stessi genitori che si assiepavano sulla balaustra, perché stanno credendo in loro.
E se anche un giorno dovessero fare tutt'altro, non importa. L'altra sera sono stati grandi e lo saranno ancora. Come dimostrano i "grandi" del gruppo di Zumba, che hanno chiuso il saggio con una scarica di adrenalina pura che si porteranno dietro... fino alla lontanissima vecchiaia!
In bocca al lupo e buon futuro a tutti voi.
A tutti noi...
I saluti finali di insegnanti e soci della Fermo 85: arrivederci all'anno prossimo!
Il gruppo di zumba della Asd Fermo 85 parteciperà al saggio
di sabato prossimo al Palasavelli di Porto San Giorgio
Mese dopo mese, stagione dopo stagione, è quasi finito il mio enne... anno con la Fermo 85, l'associazione sportiva dilettantistica, come si dice in gergo, che da oltre trent'anni educa allo sport e al sano uso del corpo generazioni di fermani.
Ho praticamente imparato a memoria l'incipit che ho scritto sopra, perché ci credo davvero. L'ho sperimentato giorno dopo giorno, da metà settembre a metà giugno, facendo ginnastica con Rita Sacripanti, Tiziana Bastiani e qualche volta anche con Francesco Catini, l'istruttore di zumba.
L'ultima disciplina, amatissima dalle ragazze che vedete nella foto sopra (e pure da un paio di simpaticoni del cosiddetto sesso forte e la medesima bionda Tiziana) parteciperà sabato prossimo, a partire dalle 21, al saggio di fine anno al Palasavelli di Porto San Giorgio.
Da quel che ho capito, si tratterà di un'esibizione a base di ritmi latini-arabeggianti-rappeggianti (questa è zumba, per chi non la conoscesse) di circa cinque minuti.
Il gruppo, coloratissimo ed entusiasta, sta provando i passi e la disposizione sul palco proprio in questi giorni, subito dopo le lezioni di fitness del lunedì e del giovedì che frequenta abitualmente la sottoscritta.
Devo ammettere che mi sta salendo la curiosità: non vedo l'ora di assistere al loro numero e di bombardarli (oddio, di questi tempi è meglio non usare una parola simile...) di fotografie.
Tra gli scatti dell'inverno scorso effettuati in occasione di Intanto, la mostra collettiva natalizia di Fermo, sono stati infatti proprio quelli durante la lezione di zumba che mi hanno divertita di più.
Ma, al di là dell'affiatato gruppo di "zumbere/zumberos", come si chiamano gli aderenti alla fittissima chat di whatsapp di cui, senza alcun merito, faccio parte pure io, sabato sera al Palasavelli sarà possibile assistere alle esibizioni delle nuove leve di ginnaste e ginnasti della Fermo 85 e c'è da scommettere che ci sarà da da intenerirsi, divertirsi e credo anche sorprendersi.
Di seguito vi riporto l'elenco completo dei protagonisti del saggio:
- direttamente dai corsi di ginnastica formativa di base della palestra Coni, i gruppi 3/4 anni, 5/6 anni, 7/10 anni;
- dai corsi avanzati della palestra Fgi (ossia l'altra, quella vicino alla pista d'atletica, per i fermani) i gruppi 5/6 anni, 7/10 anni e scuole medie e superiori;
- dal settore promozionale alla Fgi i ragazzi della prima fascia (scuola primaria), seconda (medie) e terza (superiori);
- dal settore agonistica maschile e femminile ragazzi della palestra Fgi;
- e per finire (almeno credo sia alla fine...) zumba!
L'ingresso al saggio è libero.
Ed è inutile dirvi che vi aspettiamo numerosi sabato e magari il prossimo anno direttamente in palestra!
La foto risale a un paio di settimane fa, avrei voluto usarla in un altro contesto, ma alla fine, come al solito, tutto torna.
"L'offerta è destinata al reparto di oncologia: è per dare un sostegno a pazienti e loro parenti".
Sono le parole che mi ha detto ieri una delle volontarie dell'Anpof, una onlus che lavora con l'ospedale di Fermo, presenti con il loro banchetto di fiori a Donna Rosa, la corsa-camminata di Porto Sant'Elpidio dove sono tornata ieri dopo due anni. Ho scoperto che qualcosa di analogo (e di più grande) era anche a Roma, ma il microcosmo nel quale vivo è in grado ogni tanto di regalare momenti di grande umanità.
A fine corsetta, la mia amica Maria ed io ci siamo fatte un sacco di fotografie. Anche prima della partenza, a dire il vero, ma si capisce, guardando le nostre guance più colorate, quanto sia stato liberatorio lo sforzo fisico.
"Chi ci è passato lo sa", ho risposto alle donne del banchetto allontanandomi con la piantina di lavanda.
Quando ti capita una cosa come quella che succede giornalmente a un sacco di gente, non sei più lo stesso. Per certi aspetti, diventi più lucido, per altri, lo ammetto, molto più disincantato.
Facebook mi ricorda in questi giorni eventi pubblicati uno, due, cinque anni fa. Maggio è sempre stato un mese pieno, per la sottoscritta, me ne sono accorta proprio grazie allo stupido gioco delle rimembranze socializzate.
Addirittura da prima che sbarcassi su quel mezzo, da molto prima, ho fatto in questo mese alcune delle esperienze più indimenticabili.
Penso alle mattinate tra i boschi vestita da folletto (come una cretina: ma ero giovane, si poteva ancora fare), penso al mio primo mese di lavoro in un grande giornale, le ore di luce lunghissime, le speranze, i profumi, la casa nuova.
E penso anche all'anno dopo, quando tutto questo era già sfumato, e al senso di vuoto e di strana libertà che avevo provato ascoltando un gruppo folk abruzzese in una piazza della mia città natale.
L'anno scorso, poi, giusto in questo giorno ho ritirato le chiavi di casa mia: oggi ho rivisto la mia faccia tirata e sorridente con il mazzo in mano, giusto qui sotto.
Il trasloco è capitato proprio alla vigilia del primo anniversario senza mia madre. L'assenza è molto più forte quest'anno.
Chi ci è passato lo sa e non ha bisogno di fare ulteriori domande.
Se non quelle giuste.
Sentite le risposte, non si può che andare avanti. Voltare pagina per tempo. O abbandonare la lettura perché ha capito che continuare non vale proprio la pena.
Senza inutili recriminazioni.
Senza dannosi sensi di colpa.
Con la coscienza limpida di chi ha sa che, davvero, accidenti, si vive una volta sola. E si va via molto più in fretta di quanto pensiamo.
Non avevamo capito quello che stava succedendo, non volevamo crederci.
Forse è stato meglio così, almeno abbiamo retto alla brutalità del reale.
Però i sogni continuano (lei compare molto spesso) e mi dicono che ho ancora delle cose da fare, senza paura.
I visi concentrati dei giovani campioni di tennis che affrontavano ieri le finali femminili e maschili mi hanno confermato quanto sia essenziale impegnarsi a fondo nelle cose e poi, una volta dato il massimo, tornare a sorridere. Non sapevo che Serena Williams, tanto per fare un esempio, sfoggiasse uno sguardo così mansueto dopo la guerra condotta a colpi di pallinate.
Ha ringraziato Dio alzando gli occhi al cielo con una tale naturalezza e semplicità che mi hanno conquistata. Idem la sua avversaria, una bambina dotata di un talento esplosivo che parla di vita e di energia pura.
Bisognerebbe avere il più possibile stati di grazia così, commisurati, ovviamente, alle nostre capacità.
Alla fine è proprio quello che ho imparato da mia madre, entusiasta del suo lavoro, oltre le pesantezze della burocrazia e le piccinerie di alcuni colleghi.
Vorrei qualcosa di simile, per me, ecco tutto.
Vorrei sentirmi parte di qualcosa senza ambiguità e rattristanti ostacoli.
Maggio è il mese ideale per ripartire.
Le strisce sono state rifatte.
La strada è di nuovo sgombra.
Fa freddo e sono nervosa. La premessa è necessaria per darvi un'idea climatico-psicologica delle mie prossime parole.
Alla foto che vedete sopra ho dato come titolo "Il posto di lavoro", cancelletto sottostante, tanto per darmi un tono trendy, #arianuova.
Si tratta più di un auspicio che di una condizione, ma davvero, rischio di apparire insopportabilmente pesante, quindi mi fermo qui.
Ieri però c'era il sole e pareva che finalmente la temperatura stesse salendo. Invece niente: indosso il maglione finto anni Ottanta che di solito sfoggio durante l'inverno sopra una felpa nemmeno quella tanto leggera.
Vorrei darvi qualche notizia interessante sulla cosiddetta fase nuova che sto vivendo, ma non ne ho.
Mi sono ritrovata, però, un'oretta fa, ad alzare un po' la voce con il padre anziano, che animato - lo so - dalle migliori intenzioni mi chiedeva aggiornamenti. "Mi stai facendo innervosire come succede a te quando ti chiedono come va la salute", gli ho detto a un certo punto con una certa acidità. Ma era proprio vero.
Chissà se adesso ha capito che cosa significa per noi affezionate figlie e/o altri parenti quando non sappiamo come prenderlo.
Mi dispiace davvero di non essere leggera né rassicurante, ma le cose stanno così.
Dopo tutti questi mesi passati a fare un po' come mi pare, lavoricchiando prima, smettendo del tutto poi, avrei voluto affrontare con serenità flutti e marosi connessi a qualsiasi lavoro.
Purtroppo non ci riesco. Non oggi, non in questi giorni.
Provo, semmai, un affanno strano e una tensione che non mi piace.
Speriamo che gli allenamenti fisici di questi anni mi preservino da colpi improvvisi.
Resta pur vero (e in fondo l'ho sempre saputo) che io tutta questa resistenza allo stress non ce l'ho mai avuta. Lo sappiano i motori di ricerca di lavoro che consulto quasi giornalmente: se mi vorrete mai nei vostri staff, prima mi dovrete portare una bella tazza di valeriana.
Dovevo lavorare all'ufficio del catasto dei tempi di Totò. E pazienza.
Però leggere ad alta voce con le cuffie sulle orecchie mi piace assai. Se già riuscissi a sentirmi più tranquilla sotto questo piccolissimo aspetto, il disorientamento e la scarsa convinzione che mi zavorrano al momento, almeno mi lascerebbe una traccia negli anni che verranno.
Mi zittisco.
Le trasmissioni riprenderanno al più presto possibile.
Con un umore (e una temperatura!) speriamo migliore.
Ho scattato questa foto qualche giorno fa, sulla spiaggia. Poi l'ho condivisa su Instagram, dandole un nome tutto sommato piuttosto banale: "In cammino". Sono rimasta sorpresa dall'alto (per così dire) numero di cuoricini ricevuti (corrispondenti ai like di Facebook) e così ho deciso di usarla per questo post sul primo maggio e il #lavorochec'èenonc'è.
Quello che non c'è, ormai, è piuttosto noto a tutti, al di là dei dati diffusi (ma che strano) giusto alla vigilia della festa odierna.
Vorrei, però, parlarvi, una volta tanto anche di quello che c'è.
Succede che un caro amico ha una promozione e ricomincia dal punto che aveva deciso di mettere (pazza idea) vent'anni fa. Un miracolo, certo, ma anche un cappio. Sei riuscito a tornare a galla? Allora accontentati di questi duecento euro in più contro undici ore di lavoro giornaliere e zitto, che fuori c'è la fila di gente che farebbe lo stesso per molto meno denaro e svariate ore di travaglio in più.
Oppure: vuoi che ti paghi? Eh, ma prima devi aspettare che incassi i proventi della pubblicità. Mica pretenderai uno stipendio tutti i mesi? In fondo siamo una famiglia: se vuoi ti dò un ciauscolo, almeno magni.
Ah, non ti piace come ti trattiamo? Questa è la porta e adiòs, ci frega assai se il sindacato appoggia la tua causa e se noi tuoi datori di lavoro siamo imprenditori milionari.
"Paura e solitudine": è lo stato d'animo vissuto da molti. Si parlava di giornalisti, a dirlo era Guido Besana, sindacalista e dipendente Mediaset, ma di certo non capita solo a loro.
Succede semplicemente un fatto e lo ha mostrato molto efficacemente sempre lo stesso Besana all'assemblea del Sindacato giornalisti marchigiano, più deserta di una riunione di cospiratori.
Il giornalista, omone con barba, ha alzato un braccio per riabbassarlo lentamente subito dopo, con l'intento di mimare la curva discendente dei redditi della mia categoria. Una parabola che la sta portando ad avvicinarsi sempre di più a quella del resto dei lavoratori, con una coda non trascurabile di colleghi che stanno già ben al di sotto della soglia considerata minima dalla cassa previdenziale dei giornalisti (l'Inpgi).
Giusto un paio di numeri, per fingere che servano a qualcosa: secondo Besana, contro una retribuzione media pari a circa 60 mila euro all'anno percepita dai giornalisti italiani dipendenti (mi sfugge, non me lo sono appuntato, mea culpa, quanti siano), ossia quelli con contratto regolare e con una serie di tutele previdenziali e sanitarie che non oso nemmeno immaginare, si è nel frattempo fatto largo (largone, direi) un gruppo di circa trentamila giornalisti che all'anno di euro ne prendono circa 9 mila.
Non voglio tediare i non addetti ai lavori sulla differenza tra pubblicisti e professionisti, ma posso solo dirvi che tra quelli che prendono così poco, ne conosco parecchi, dell'una e dell'altra categoria. E sto parlando di persone che non hanno modo di integrare quelle modeste entrate con altre più serie, sia per questioni di tempo (c'è gente che lavora undici ore al giorno per tenere in piedi attività che altrimenti chiuderebbero) sia per scarso appeal del loro curriculum sul mercato del lavoro.
Chi ha fatto più o meno sempre lo scribacchino, in altri termini, difficilmente riesce a riciclarsi in qualcos'altro, a meno di non avere uno zio buono o qualche altro protettore.
"Oggi ci sono molti più concorrenti a buon mercato di quanti ne avevamo un tempo", ha detto il sindacalista milanese. Che però, bisogna che lo aggiunga, ha parlato anche di una mediazione in corso tra gli editori e la federazione nazionale della stampa per rivedere in qualche maniera il contratto giornalistico fortemente disatteso al di fuori dei media mainstream, per tentare di salvare la truppa sempre più povera dei soldati Ryan dell'informazione.
Potrebbe nascere una specie di collaboratore-dipendente-a-orario-ridotto, però a tempo indeterminato. Una specie di mix in tono minore tra l'articolo 1 dell'anacronistico contratto giornalistico e i collaboratori esterni di una volta, quelli che in redazione potevano giusto entrare per farsi dare incarichi/ramanzine, senza la possibilità di lavorare al desk (ossia titolare, sistemare pezzi altrui etc etc).
Io non so dirvi se mai nascerà quello che ironicamente qualcuno ha battezzato "articolo x". E tutto sommato, francamente, penso che al grosso della gente non interessi affatto.
So solo che se devo continuare ad aggirarmi in questo mondo, mi toccherà confrontarmi con il presente. E con il futuro. Camminando sulla sabbia senza affondare, come nella foto.
Finché morte non ci separi.