giovedì 19 novembre 2015

Billy Elliot e i sogni (si spera) contagiosi dei ragazzi


Prima di tutto, una piccola confessione: non sono un'esperta di musical. Sarà per questo che ieri sera, a un certo punto, diciamo intorno alle 23, ho cominciato ad agitarmi vieppiù sul seggiolino alto del palchetto dell'affollatissimo Teatro dell'Aquila di Fermo, dal quale ho assistito alla messa in scena di Billy Elliot, tappa esclusiva regionale dell'allestimento curato da Massimo Romeo Piparo, con le musiche di Elton John tradotte in italiano.

A essere bravi, erano tutti bravi e in parte: in particolare ho apprezzato Mrs Wilkinson, l'insegnante di danza di Billy, interpretata da Sabrina Marciano. Mi ha poi molto divertito il personaggio di Michael, l'amico del cuore del protagonista, per il cui ruolo di sicuro è stato rubacchiato qualcosa a Elton.

Credibilissimo il fratello maggiore di Billy, il sanguigno minatore difensore dei diritti della classe operaia, che non riesce a capire, insieme con il grosso degli uomini-machi della piéce, per quale motivo un ragazzino preferisca la danza al pugilato.

Forte anche la nonna, anche se un po' troppo caricaturale, per i miei gusti.

Che cosa non mi è piaciuto?
A mio personalissimo avviso, a parte l'eccessiva lunghezza, i balletti non erano eccezionali, a parte quelli a base di tip tap e i volteggi del Billy grande con quello giovane.
La musica, mi spiego meglio, molte volte era troppo potente e troppo energica, mentre lì, sulla scena, il leggiadrissimo protagonista Alessandro Frola, continuava a roteare su se stesso, anche quando, sempre secondo me, avrebbe dovuto tirare fuori più fervore.

A ben guardare, per buona parte dello spettacolo è giusto che Billy non sveli a noi del pubblico tutto il suo talento, ma a me è sembrato che non l'abbia fatto neanche nella canzone danzata davanti alla commissione del Royal Ballet, nella quale ci stava, per l'appunto, spiegando perché ama così tanto ballare. Ma può anche darsi che fossi semplicemente stanca morta e che a mancare d'energia fossi solo io.

Nel complesso, comunque, è stata un'esperienza interessante: davanti a me c'erano due ragazzi più o meno della stessa età dei due protagonisti e del grosso delle ballerine sul palcoscenico. Uno dei due teneva segretamente il tempo e canticchiava le canzoni dello spettacolo. Dall'accento ho dedotto che non fosse di Fermo, ma non ho capito bene se facesse parte anche lui della compagnia. Di certo lui e il suo amico (o il fratello?) con i capelli lunghetti avevano l'aspetto di ballerini. Solo nell'intervallo mi sono resa conto che il teatro era strapieno di adolescenti così ed è stato davvero straordinario osservarli tutti insieme. Quanti talenti, quanto entusiasmo, quanti sogni.

Nelle interviste della Rai che ho guardato ieri alle due piccole star del Billy Elliot nostrano, mi ha colpito proprio quello che entrambi dicono sul loro futuro: tutti e due vogliono diventare "artisti completi". Lo affermano con una sicurezza dalla quale ci si vorrebbe far contagiare, come capita alla già citata Mrs Wilkinson, la fascinosa e disillusa insegnante di danza che è la prima ad accorgersi di quale etoile in potenza abbia davanti a sé.

Il vero spettacolo, in definitiva, erano proprio i giovanissimi attori in scena e quelli intorno a me, immersi nei loro progetti a tutto tondo, bisognosi, però, di tutto il sostegno dei grandi.
Ed è poetico, e si vorrebbe credere anche vero, che il maschilista papà di Billy (l'attore Luca Biagini) addirittura metta da parte la sua aspra battaglia sindacale pur di stare accanto al figlio "diverso".

Il potere delle storie più amate dai noi esseri umani è, concludendo, proprio questo: trasmettere sentimenti di speranza e spiragli di vita nuova. Quindi, onore a voi, artisti e ragazzi innamorati di Billy Elliot.
E soprattutto, buon futuro.

Ps guarderò presto il film che ha dato vita a tutto ciò e, nel caso, ne parlerò. Vi toccherà tornare a trovarmi :)

mercoledì 18 novembre 2015

Umorismo sotto assedio: strategie di resistenza


Sono giorni che rimugino sull'umorismo e sulla sua importanza. Lo stavo facendo, a dire il vero, da prima dell'ennesima barbarie parigina (che viene dopo quella libanese, quella giornaliera della Siria, quella degli studenti keniani di qualche mese fa, quelle periodiche di Boko Haram, etc etc. Così siete tutti contenti, ok?).

Ci rifletto, a dirla tutta, da sempre.
Subito dopo il terremoto dell' '87, mia sorella ed io, guardandoci in faccia nel cortile del palazzo, tra gli altri condomini atterriti, abbiamo fatto qualche battuta idiota su come eravamo conciate. Magliacce da casa, ciabatte schiantate e, conoscendomi, pure un vago unto nei capelli.

Non so più, per amor di verità, se era quello l'argomento che ci aveva aiutato ad allontanarci almeno per un attimo dal dramma collettivo del momento, ma in generale ho sempre pensato, quella volta e in molte altre, che chi non ride mai è piuttosto inquietante.
E di gente che vorrebbe eliminare una delle poche facoltà che ci distinguono dal grosso degli altri animali (ma pare che ridano pure loro), ahimè, ce n'è fin troppa, non solo tra i bastardi del terrore mondiale.

Illuminante è, in questo senso, un articolo dello scrittore Jonathan Coe comparso sul Guardian, che il settimanale Internazionale ha tradotto nel numero di questa settimana, cambiandogli il titolo in La morte dell'umorismo, ben più diretto per il pubblico non britannico dell'originale Is Martin Amis right?.
Nel pezzo, Coe commentava la recente uscita del suo collega Amis, il quale giudica Jeremy Corbyn, il nuovo leader labourista, "un ignorante privo di senso dell'umorismo", una colpa, per lo scrittore, gravissima, quasi più del fatto che si esprima per frasi fatte.

Coe sospende il giudizio su Corbyn (e io, che non so nulla né di Corbyn né di Amis, mi unisco a lui), ma utilizza la storia per parlare della sempre più diffusa abitudine mutuata dai social network di avere sui fatti del mondo due sole opinioni, una positiva una no, su modello dei mi piace/non mi piace di Facebook.

Per suffragare la sua tesi, parla di Charlie Hebdo e delle vignette "anti" Islam all'origine della strage d'inizio gennaio (e del mancato premio americano per la libertà d'espressione per via delle medesime) e poi di un'altra, su Aylan, il povero bambino ritrovato senza vita sulla spiaggia turca, di certo di difficile digestione, forse ancora di più di quella che vedete sopra. 

Sinceramente: in molte di queste vignette io non mi riconosco, ma voglio poterle vedere e semmai giudicarle apertamente oppure, semplicemente, ignorarle. Non accetto, né mai lo farò, però, la censura da parte di chi saprebbe (forse) ridere solo davanti all'idiota che fa che le boccacce su Youtube (che, comunque, per me, ha diritto di starci. Basta non me l'impongano un giorno o l'altro pure sulla pubblicità come hanno fatto con il facciotto di Pif).

Temo tuttavia che Coe abbia ragione. Temo che, davvero, ci sia sempre meno gente in grado di riconoscere i meccanismi dell'umorismo, ossia, riassumendo quanto scrive lo scrittore inglese, quell'evidente contrasto tra due diversi piani di realtà per cui, per esempio, smetti di piangere e cominci invece a ridere perché qualcuno ti ha fatto notare che ti sta calando il muco sul collo, oppure, come con Crozza quando fa De Luca, perché l'imitazione diventa talmente iper-reale che non puoi non ridere anche se ci sarebbe da piangere.

E dire che Crozza non è neanche uno dei più raffinati o, per meglio dire, ha un umorismo abbastanza diretto e popolare. E' proprio il De Luca reale, invece, a dimostrare quel che Coe vorrebbe facesse Corbyn,  ossia l'essere dotato di notevole presenza di spirito: dalla Gruber, quando se n'è uscito con una battutaccia sulla Bindi, che ha scatenato l'ufficiale sdegno governativo, poco prima aveva detto che ogni tanto si trattiene per non essere troppo crozziano. Ci ride su, in definitiva, come Coe spera per il leader labourista che, certo, ha problemi ben più importanti da risolvere che quelli di rispondere agli attacchi di Martin Amis.

Tornando a noi: come fare per non perdere il gusto di ridere? Come resistere al clima di conformismo e di censura/demonizzazione in salsa social? 
Coe cita un libro: The philosophy of humor di un tale Paul Mc Donald. Chi volesse tentare, lo legga e poi lo diffonda.
Mi pare che c'era qualcosa di analogo pure di Pirandello: ma io, mo' ve lo dico, Pirandello non riesco più a leggerlo.

Che altro fare? Innanzitutto, secondo me, usare quella cosa che sta sulla sommità del corpo, appena sotto la pelle della testa (per i pelati) e dei capelli (pochini ma biondini, per quanto mi riguarda).
E poi, lavoro duro, amici miei, cioè training quotidiano, né più né meno che se stessimo esercitando i bicipiti femorali (ahiai...) e il lato B, troppo, davvero troppo, preso di mira da varie, diciamo così, fonti indesiderate (Crozza e il suo InCool8 lo spiega piuttosto bene).

La nuova resistenza passa da cosette così, insomma.
Amanti della risata, unitevi.

lunedì 16 novembre 2015

Valeria Solesin, mia sorella. Grazie, mamma



Valeria Solesin mi somiglia. Soprattutto, somiglia a molte donne tra la sua e la mia generazione che continuano tutti i giorni a lottare per affermare e mantenere il proprio ruolo sociale nel mondo.
Da pochissimo mia sorella maggiore ha cominciato un dottorato di ricerca. Ebbene sì: alla sua veneranda età (48 anni) ha fortemente voluto sfruttare l'opportunità che le offre il suo datore di lavoro pubblico (ah, questi statali) di darsi alla ricerca.
Per riuscire in questo intento, ha studiato tutta l'estate, fino a tarda notte, dopo essersi occupata dei figli, della casa e anche del padre in difficoltà.

Si è sentita pure fare delle battute sciocche (non dico da parte di chi, non vorrei metterla nei guai) sul fatto che, ma come, ti rimetti a studiare tu, che c'hai una famiglia e vari anni sulle spalle? Alla faccia dei cretini di ogni religione e (sub) cultura, lei è riuscita a superare uno scritto e un orale e ora avrà a che fare, forse, anche con giovani come Valeria, una sua possibile sorellina minore, quasi figlia volendo, una di quelle che doveva vivere e continuare a studiare come mai in Italia le donne con figli (ma purtroppo non solo loro) spesso stanno a spasso o sono (troppe volte) semplicemente sotto pagate e in generale sotto valutate solo perché portano tacchi e smalti colorati.

Giusto qualche ora prima che questa splendida mia sorellina minore (volendo mia figlia, se fossi stata una di quelle spose bambine di cui tanto si chiacchiera spesso a sproposito) venisse barbaramente cancellata dalla Terra, mia sorella vera mi stava appunto esponendo le sue indecisioni in merito all'argomento che dovrà trattare nella ricerca: l'istinto la stava conducendo verso la sociologia politica, ma, molto appropriatamente, si domandava se non sarebbe meglio proseguire nei suoi studi condotti quando Valeria andava ancora alle elementari, anno più anno meno, ossia il diritto amministrativo e le sue procedure.

Non so quale scelta farà alla fine, ma potete stare certi che a qualunque cosa si dedicherà, l'affronterà con la stessa serietà ed entusiasmo presenti nell'articolo che la giovane dottoranda italiana alla Sorbona aveva inviato due anni fa a una rivista francese, vedendoselo pubblicare pur essendo un'illustre sconosciuta.
Un fatto che in Italia capita molto, molto di rado.

Colpisce, non solo me, la dignità con cui la madre parla di sua figlia, la voce rotta, ma presente a se stessa. Mancherà, dice questa signora, alla società, Valeria, perché era una persona meravigliosa.
Una madre non dovrebbe mai piangere per la morte dei propri figli.
Se la mia fosse stata ancora qui, sarebbe stata così orgogliosa di mia sorella e se mia sorella ce l'ha fatta a dimostrare ancora una volta quanto sia meravigliosa, il merito è anche suo.

Non è una consolazione, non può esserlo, ma vorrei tanto che la mamma di Valeria lo sapesse: se sua figlia aveva quel gran talento, ma soprattutto se lo stava mettendo in pratica in modo così brillante, il merito è anche suo.

La mia tesina per diventare giornalista professionista riguardava il Libro Bianco di Marco Biagi, ucciso da vigliacchi bastardi non musulmani: i signori colleghi della commissione, nel 2002, mi fecero i complimenti per l'argomento e per lo stile.
Alla tesi di laurea, idem, applausi, per il mio stile di scrittura giornalistico.

Se ho ancora qualche chance di uscire dal guado, lo prometto solennemente in questo momento, lo farò anche in nome di Valeria.
E in nome di mia madre, che per fortuna non ha assistito alle tragedie di questi ultimi tempi.

Aggiungo solo un piccolo, patetico, grazie.

E ora, forza, sotto a lavorare, donne.

domenica 15 novembre 2015

Dedicato a Parigi e alla civiltà



Ci risiamo: bastardi terroristi uccidono nel cuore dell'Europa e sui social si scatenano dibbbbattiti sul fatto che siano o meno da condannare tutti i musulmani del mondo e se quella in corso è una guerra di civiltà.
Sulla seconda parte, lo dico apertamente, io la penso così: quella che si combatte - una guerra, senza se e senza ma - ha a che fare con la cultura e la convivenza democratica e civile tra gli umani, ma la religione, almeno per me, è un elemento di sfondo.

Aggiungo, a scanso di equivoci, che io non sono credente e che ogni volta che vedo il pur degno papa Francesco nei tiggì, penso che sarebbe l'ora di finirla con il confessionalismo da bar che ormai ha catturato tutti i media. Se proprio mi dovete fare vedere l'Angelus, allora informatemi pure su che cosa hanno predicato il Rabbino, l'Imam e il Dalai Lama. O anche no: lasciate che le prediche vengano ai fedeli nelle rispettive chiese.
Detto ciò, veniamo a Parigi e alla bandiera tricolore bianca, blu e rossa che pure io ho scelto, temporaneamente, di piazzare sulla foto del mio profilo.

Qualche mio contatto la pensa diversamente e sostiene che allora dovremmo mettere la bandiera di Beirut (Libano), ma, a questo punto chioso io, pure curda e pure armena, tanto per citare alcune delle tanti stragi passate e presenti che la storia ci dispensa copiosamente.

So benissimo che si tratta di emozioni del momento e che, ahimè, di tragedie di come quella di venerdì sera ce ne potrebbero essere ancora molte.
Però, amici, Parigi è Parigi e per la maggior parte dei cittadini europei sopra i quarant'anni almeno, ma pure di vari giovani italiani che a Parigi continuano ad andare a vivere, è un luogo unico, forse uno dei pochi nel mondo nel quale, forse con un po' di ingenuità provinciale, molti di noi pensano che ci siano ancora spiragli di crescita culturale e professionale.

Aggiungo un'altra nota, piuttosto triste.
La sera di venerdì, con mia sorella, dopo anni che non passavamo insieme un po' di tempo sole lei ed io (e nostro padre), avevamo appena finito di vedere Crozza. Dovete sapere che io fino allo scorso anno non mi ero mai filata "Nel paese delle meraviglie": da quando ho scoperto che piace ai miei nipoti, cuore di zia, ho cominciato a seguirlo. Lo aspetto, anzi, con piacere, sperando di alleggerirmi un po' l'animo (ma come mi sono ridotta).

Avevamo appena spento la tv, ma Linda (mia sorella) mi ha chiesto di riaccendere: "Dai, vediamo se c'è qualcos'altro". Crozza aveva invitato a guardare Mentana, quello vero, e, in effetti, Mentana era lì, abbastanza crozziano, ma, ahimè, con cose da comunicare nient'affatto divertenti.

Siamo rimaste attonite, letteralmente, davanti alle immagini dello stadio pieno di gente immobile. 
Da lì, almeno io, ho cominciato a compulsare freneticamente Twitter, mentre cambiavo canale alla ricerca anche di altre voci. Le prime cronache erano, ovviamente, imprecise e, direi, tutte molto caute e serie.

Perché, come ha scritto qualcuno dopo, stavolta siamo stati colpiti noi cittadini comuni.
Scusate se mi permetto di parlare di nuovo della mia povera vita: la tristezza personale è stata amplificata ancora di più dal fatto di non poter esserci anche io, in uno qualunque di quei tg o di qualche giornale, a seguire e a scrivere con gli altri. Perché l'unico contributo che può dare un giornalista, in momenti come questi, è lavorare a un prodotto collettivo che aiuti chi non fa questo di mestiere a capire che diavolo ci sta succedendo.

Perciò oggi scrivo giusto queste righe. Voglio darvi il mio modestissimo contributo da qui, da blogger quasi ex giornalista, che spera, ancora nella civiltà e nel bene pubblico.

La canzone che linko sopra era in una colonna sonora di Mark Knopfler: ho appena letto di che cosa parla il testo. Parla di ragazzi e ragazze alle soglie della maturità. L'ho scelta perché è affiorata spontaneamente alla mia memoria insieme con una delle sigle di Maigret (Le mal de Paris) interpretato da Gino Cervi, che immagino sarebbe stato assai affranto se fosse vissuto oggi.

La dedico alle vittime del Bataclan, in massima parte ragazze e ragazzi che volevano solo passare una serata insieme a sentire musica che io presumo orribile.
La dedico pure alle ragazze e ai ragazzi che scelgano, alla fine, di non farsi esplodere, pur sentendosi fragili e disperati.

La dedico, infine, alle vittime più adulte di ogni colore e ogni nazionalità, scusandomi se non metto le bandiere delle loro terre ogni volta che qualche bastardo (e purtroppo bastarda) tecnologizzato, ma per me con l'anello al naso, infila una cintura esplosiva o usa un kalashnikov ammazzandoci tutti ogni giorno di più.

Finisco con la cronaca da Parigi da Facebook di un mio conoscente, un fotografo di Fermo che si chiama Marco Illuminati, che sembra quasi che si sia sentito in colpa per essere riuscito a mettersi in salvo.
Non credo che il suo racconto abbia bisogno di ulteriori parole: giudicatelo voi che sapete tutto su islamici e non islamici. Però, per cortesia, non fatemelo sapere.

Non riesco e non voglio uscire dal letto. Ci sono entrato alle 3h17, intero, cosciente, e scosso. Cerco di rompere questo surreale isolamento domestico nel quale siamo chiusi.
Stavo mangiando una pizza ad Acqua e Farina a pochi metri da La Belle Equipe. Eravamo dentro, ho sentito dei botti molto forti, tutti li hanno sentiti. Qualcuno si è affacciato, continuavano i botti. Vedevo qualcuno sulla strada, ci domandavamo se fossero petardi, tutti se lo domandavano. Tra la paura e lo stupore, nessuno osava fare altro che porsi delle domande. Dopo diverse raffiche e colpi singoli, un odore di polvere da sparo. Abbiamo pensato fosse la conferma che si trattasse di fuochi artificiali, non sapevo che le armi da fuoco potessero avere questo fortissimo odore. Poi di seguito, un auto nera si ferma di fronte alla brasserie colpita con le quattro frecce e riparte, gli asiatici dell’emporio di fronte capiscono per primi cosa è accaduto (forse la guerra l’hanno vista) e chiudono per primi la serranda, esco, mi avvicino, con la certezza crescente che non si trattava di una festa a sorpresa. Vedo altri ragazzi nascosti dietro una campana del vetro, due tornano, gridando « sono tutti morti ». Da questo momento, la vista si fa opaca. Mi ricordo solo dei dettagli, mi ricordo una sedia spaccata dai colpi, il legno era spaccato, non forato, credo le armi pesanti facciano questo. Poi il sangue, e poi la terrazza, a fianco del giapponese. La terrazza come un contenitore di corpi, ammucchiati, tra i tavoli e i vetri. La carne macellata era ancora fumante, c’era quel silenzio di morte che si immagina tra il trauma e la reazione, come quel tempo sospeso tra la caduta di un bambino e il suo pianto. Poi una ragazza con i pantaloni neri e la scarpa con il tacco, con la gamba forata sul tavolo, forse con qualcuno che la stringeva, comincia a gridare, e si rompe il silenzio, o forse comincio a sentire. Mi ricordo un uomo a petto nudo che urlava, mi ricordo un ragazzo che filmava e un altro che lo attaccava gridando. Mi ricordo un lavoratore del locale, forse un cuoco sulla porta, immobile, sotto shock. Mi ricordo un ragazzo con la testa sull’unico tavolo in piedi, con un occhio di fuori e lo spot luminoso ancora puntato sul tavolo come in un teatrino dell’orrido. Mi ricordo le luci spente, i vetri rotti, mucchi di ragazzi ben vestiti. Cercavo di ripetermi che erano persone vere. Poi improvvisamente non mi sono più sentito al sicuro, sono scappato, senza aiutare nessuno e senza pensare. Ho corso, sono rientrato all’ Acqua e Farina e ho avuto una fitta allo stomaco. Siamo scappati nella casa di un’amica, fino a quando non siamo riusciti a rientrare. 
A questo aggiungo solo poche considerazioni a caldo. La scena di quella carneficina era uguale a quella che ci capita spesso di vedere nei media quasi quotidianamente dopo un attentato: stessa architettura dei corpi, stesso odore, stesso ambiente di morte. Però questa volta sono vestiti come me. Questo cambia tutto. Il nostro immaginario non si riconosce in queste scene, e il décalage è forte. Non hanno tuniche, non hanno barbe, non gridano in arabo. Sono vestiti come te, hanno la tua età, ti somigliano. Era quello che volevano i terroristi, colpire l’intimità di ognuno, creare immedesimazione. 
Non ho aiutato nessuno, e mi domando perché. Come si fa ad aiutare un cumulo di persone? Puoi aiutarne uno, una persona ferita, mi è capitato più volte. Ma come si fa quando sono tanti? Non sapevo dove mettere le mani, e me ne sono andato, come quando spegni la televisione. 
Penso a chi vive quotidianamente questa situazione, penso alle innumerevoli persone che sono in Francia immigrate che hanno già vissuto queste situazioni. E penso a noi, figli della « belle époque » del « non ci riguarda » o ci riguarda ma in fondo…. 
Per la nostra generazione europea è la prima volta che la guerra entra nelle nostre case, nei nostri occhi, sulle nostre strade in maniera così eclatante e pesante. Non si tratta di una bomba, né della distruzione di un obiettivo sensibile. A fare questa strage sono ragazzi della tua età armati che si mettono di fronte a te per ucciderti, faccia a faccia a pochi metri, per ucciderti, per distruggere la tua illusione di benessere, per strapparti la convinzione che in fondo capita sempre ad altri. 
Lo straniamento è un processo di autodifesa, cerco di restare presente a me stesso.

venerdì 13 novembre 2015

Kafka sulla spiaggia, metafora della nostalgia. Una furberia che ammalia



Mentre scrivo questo post, sto ascoltando il Trio dell'Arciduca di Beethoven, in un'esecuzione di Rostropovich and company che, sinceramente, non mi ricordo già più se è citata in Kafka sulla spiaggia, il libro di Murakami (Haruki, il nome di battesimo, poco nipponicamente parlando) che ho finito di leggere ieri sera.

L'ultima parte, ve lo confesso, mi ha lasciato un po' perplessa: troppo, troppo onirica e fumettistica per i miei gusti. E al contempo, anch'essa, come il grosso di questo affascinante libro, molto, molto attraente.

Perché più passano gli anni e più ne ho la certezza: la perfezione rompe le balle, le crepe nella narrazione e i passaggi inverosimili che mi hanno fatto sorridere in modo spontaneo sono tra i motivi principali per cui posso dire che sì, valeva davvero la pena trascorrere varie ore in compagnia del poco credibile quindicenne Tamura Kafka, dell'uomo-donna Oshima, di Nakata l'autistico che parla in terza persona e dello scombinato camionista Hoshino, tra tutti, il personaggio che meno ho capito.

C'è qualcosa che mi ricorda i cartoni di Miyazaki in questo libro, anche se, obiettivamente, so talmente poco di Giappone e di letteratura dell'estremo Oriente in generale che potrei pure star scrivendo una boiata.

Mi piace comunque assai l'animo pop di Murakami e pure quella che alcuni giudicano un'autentica furberia, ossia il suo continuo citare marchi di abbigliamento in particolare (e calzature: la Nike magari gli passa qualche dollaro per ogni volta che ce la infila, ma chissà), perché, come tutte le altre cose che scrive, lo fa con un'apparente naturalezza che me lo rende simpatico.

E poi la cucina: accidenti quanta attenzione dedica ai piatti della sua terra (pure ai surgelati: voi sapevate che in Giappone si trova il riso fritto surgelato? Io proprio no) e in generale alle funzioni corporali dei suoi personaggi. La cacca è citata almeno un paio di volte. Per non parlare delle eiaculazioni e del glande appena sbocciato di Tamura. Abbiamo capito che vuoi farci credere che parli di un quindicenne, ma, per quanti sforzi tu faccia, caro Haruki, non ci caschiamo. Quello sei tu, rassegnati.

Veniamo però alla storia. O meglio, alle sensazioni che mi ha lasciato leggerla.
Tutti quei dettagli di vita quotidiana e poi la primissima parte e l'ultima, in cui la facoltà di parlare con i gatti passa da Nakata lo scemo (per così dire) al suo improbabile amico camionista, mi hanno messo una malinconia che non so dire.

In certi momenti mi affioravano alla memoria le canzoncine giapponesi del Castello errante di Howl e della Città incantata, i primi due lavori di Miyazaki che ho conosciuto e che tanto hanno significato per me in altri tempi. Forse dovrei rivederli ora, forse mi direbbero cose ancora diverse. O forse rivederli mi darebbe ancora di più la misura del tempo passato.

Ho trovato davvero commovente la descrizione della signora Saeki, il personaggio femminile chiave della narrazione, la mamma con la quale, come Edipo, Tamura Kafka deve giacere.
In vari punti c'è lei quindicenne come il protagonista e lei cinquantenne, identica ma con un sorriso forzato e i tacchi e le perle a differenziarla da com'era un tempo.

Per puro caso (ma chissà), durante questi giorni di lettura, ho scorso velocemente il mio archivio fotografico. In una mezza mattina ho rivisto me e non solo me in questi ultimi dieci anni e pure di più.
Non ho avuto tempo né voglia di soffermarmi troppo a lungo su nessuna delle fotografie (ne stavo cercando una in particolare, volevo ritrovarla nel più breve tempo possibile).

Ebbene: ho avuto una prova materiale della nostalgia di cui è impastato tutto il romanzo. Se si può dare una definizione breve, da tweet, di Kafka sulla spiaggia, potrei solo dire che sia una metafora (una parola ripetuta spesso nel libro) della nostalgia.
Avrebbe potuto parlare anche d'altro, avrebbe potuto non infilarci i soldati dell'esercito imperiale e neppure il serpente vischioso e bianco che Noshino deve uccidere verso la fine: il sentimento principale non sarebbe cambiato.

Se lo si legge con la giusta predisposizione d'animo, insomma, alla fine si piange. O comunque si dovrebbe farlo se non si avesse un cuore pesante più della pietra dell'entrata che ossessiona il lettore da un certo momento in poi della storia.
Io, per dire, ho solo pensato di piangere; ma ho versato talmente tante lacrime in altri momenti (pure recenti) che stavolta, no, nemmeno un po' di sterili goccioline.

Chissà che diavolo stava succedendo nella testa di Murakami mentre scriveva Kafka sulla spiaggia.
Ho fatto un po' di conti: ci ha lavorato quando aveva più o meno cinquant'anni. Credo che questi passaggi decennali angoscino un po' tutti (alla vigilia dei quaranta io, per lo meno, sono andata in forte paranoia). Gli uomini, forse, temono di perdere vigore fisico, ma non saprei.
Sono certa, in ogni caso, che ci abbia infilato dentro un po' dei suoi sogni: si fa davvero fatica a distinguere il reale dal surreale, il che è sicuramente voluto, figuriamoci.

Giusto ieri, per caso, ho letto un pezzo sull'autore nipponico uscito sul Giornale la scorsa estate: era molto ironico (ben scritto, devo dire) e giudicava Murakami assolutamente sopravvalutato.
Non avendo letto che poche cose di lui, non posso concordare.
Però l'articolo ha avuto il grande merito di farmi scorgere le analogie tra lo scrittore e un'altra grande mia passione. Indovinate un po' di chi sto parlando? Ma ovviamente di Paolo Conte, che da poco ha pubblicato dei racconti sulla sua vita (titolo: Fammi una domanda di riserva. Ovviamente me lo procurerò quanto prima).

Invecchiando, il mio amore per il maestro astigiano non è passato, ma ammetto di aver imparato a smitizzarlo.
Sì, perché nel frattempo ho conosciuto vari dei suoi autori di riferimento, da Duke Ellington a Glenn Miller, ma pure autori meno famosi scoperti guardando un sacco di film in bianco e nero e ascoltando qui e là la musica del Bipede soprattutto.
Il buon gattone avvocato ha letteralmente saccheggiato dal jazz e dalla musica francese (e pure quella italiana alla Carosone) un sacco di elementi ritmici e di scrittura.

L'ha fatto, preciso, perché li ha interiorizzati talmente bene da essergli venuto naturale creare uno stile tutto suo, talmente suo da non essere ripetibile per nessun altro musicista che tenti di suonare/cantare alla sua maniera (chi ci prova, in genere, è patetico: ho in mente esempi precisi, ma non sto qui a scriverli).
Il "mio" Conte, insomma, è furbo e sornione, con quei baffoni indisponenti sotto gli occhi azzurro cerei, ma sono ben contenta che lo sia. Che ci sia.

Allo stesso modo, credo, Murakami deve aver fatto lo stesso con i suoi maestri: Checov, per esempio, dev'essere uno che gli piace assai, visto che ne parla espressamente, ma anche Dostoevskij e di certo la tragedia greca, sulla quale, tra l'altro scrive cose interessantissime.

Per me che non so assolutamente nulla, insomma, un po' di intelligente furberia altrui è un elemento positivo, non certo un demerito. Chi è capace di rubare con classe è un grande, per me, detto altrimenti.

Perché tanto, nessuno inventa nulla, la storia, la letteratura, l'arte sono percorse da temi che si ripetono all'infinito: tutto sta a saper trovare la propria voce per tramandarli ancora e ancora a chi verrà dopo di noi. E se questa voce si è formata copiando il timbro di qualcun altro, ma aggiungendovi anche solo un diesis che prima non c'era, beh, tanto di guadagnato per chi ascolta, legge e interiorizza.

So già che molte delle suggestioni che ancora aleggiano in me di Kafka sulla spiaggia sono destinate a sparire. Di Dance dance dance non ricordo nulla, se non qualche riferimento alla cucina (mi piacerebbe vedere Murakami preparare qualche piatto. Magari su You tube c'è pure), ma non importa.

Mi ha fatto ben più che compagnia in questa fase di vuoto e di trasformazione.
Già solo per questo motivo, se siete in analoga fase, leggetelo.
E poi continuate nella vostra vita. Come Tamura Kafka riprende la propria, dopo molto vagare, reale, forse, immaginario di sicuro.

lunedì 9 novembre 2015

Murakami e l'attrazione irresistibile per il micro



Non riesco a smettere di leggere Murakami.
La vita di una persona di una certa età è più amara per la maggior parte del tempo, ed è anche per questa ragione che quando si passano ore in appassionata letteraria compagnia, sembra davvero un miracolo.

Ammetto, comunque, che il clima mite di questo inizio novembre mi stia aiutando non poco a mantenermi lucida. A tratti persino incoscientemente positiva.

Ho spedito un po' di curricula. Nella maggior parte dei casi si tratta di candidature che niente hanno a che fare con il percorso seguito finora.
L'avevo detto e l'ho fatto (sto cominciando a farlo).
Secondo la logica buddista di mia sorella (le poche nozioni che ho in materia sono mediate dalla sua esperienza di neo-adepta), già desiderare fortemente il cambiamento, ti predispone su quella strada.

Sinceramente, visto quel che mi è successo con il concorsone Rai, non credo basti la forza di volontà.
A forza di sentirmi dire dagli amici più cari, anzi, che sarei stata adatta a fare tv, che era arrivato il mio momento etc etc, avevo quasi quasi cominciato a crederci pure io. Per cui potete immaginarvi che delusione ritornare alla realtà.
E tuttavia, nel segreto della mia psiche, ho sempre saputo che poteva benissimo non succedere nulla.

Prima dell'estate, anzi, già mettendomi a cercare con sempre maggiore determinazione la casa qui sul mare, mi ero detta che dovevo ricominciare daccapo. Magari il concorsone è stata solo un'utile distrazione.

Ho avuto infatti l'occasione di leggere molti giornali, di riprendere il tedesco, di ascoltare/guardare un sacco di video in inglese, di riflettere sul mondo dei media e poi, ma sì, di divertirmi a fare prove di improvvisazione in video. Alla fine non ho fatto altro che impiegare il tempo in un modo creativo, come, tutto sommato, faccio tutti i giorni. In privato e quasi in segreto, com'è mio uso.

In definitiva, questo del blog, così minuscolo, continua ad essere la mia dimensione ideale.
Poi, sì, ho bisogno di lavorare (come quasi tutti), ma dubito che se fossi uscita dall'anonimato piombando in kafkiani corridoi aziendali, questo mio istinto alla fuga verso il micro sarebbe passato.

L'unica, sostanziale, differenza rispetto a quando ero più giovane è che oggi ne sono consapevole.
Non ho nulla da dimostrare se non a me stessa.
Da me, sempre, cercherò di pretendere il massimo dell'attenzione. Del rigore e della forza.
Queste doti (sì, sono doti) mi hanno comunque permesso di raggiungere il principale obiettivo che mi ero prefissa negli ultimi anni: comprare la casa.

Non vedo perché adesso dovrei tornare indietro.
Quindi, rifacendomi al titolo della foto che vedete sopra, su il sipario.

(Non vedo l'ora di continuare nella lettura stregata).

martedì 3 novembre 2015

Piraterie letterarie per ripartire: w Murakami


Amo questo posto, anche se non l'ho mai visto aperto, almeno non da quando sono venuta ad abitare al mare.
Ieri mattina sono passata a prendermi un orzo nel chioschetto che sta dall'altra parte della strada, un altro nuovo punto di riferimento dell'ultimo anno, scoperto prima di riuscire a comprare casa.

Ho passato lì diversi momenti, alcuni più leggeri, altri meno.
Come ho scritto qualche giorno fa su Facebook, la foto che vedete sopra è diventata il mio nuovo manifesto esistenziale.

Scherzavo, naturalmente, ma come sempre capita, fino a un certo punto.
Sto navigando a vista più del solito, però ho scelto, per tentare di lasciarmi andare al beccheggio della barca senza troppa ansia, una piacevolissima lettura.

Parlo di Kafka sulla spiaggia di Murakami. Ho scoperto solo in questa circostanza, tra l'altro, che i giapponesi dicono prima il cognome e poi il nome, come capitava a noi finché si andava a scuola o sotto le armi.
Haruki (questo il nome del grandissimo scrittore) mi aveva già colpito anni fa con Dance, dance, dance, ma di quel libro ricordavo solo le atmosfere e i continui riferimenti alla cucina nipponica. Pure in questo ne parla in continuazione, ma quel che più mi affascina della sua scrittura è il fatto che apparentemente sembra non succedere proprio niente, eppure si crea una tensione che ti impedisce di smettere di leggere.

Non so ancora come evolverà la storia, anzi, le storie parallele che so che a un certo punto si intersecheranno (l'ho letto in una recensione, ma anche se non l'avessi fatto, lo si percepisce lo stesso).
In ogni caso, per tentare di ripartire in qualche maniera, avevo bisogno innanzitutto in questa immersione nelle parole, possibilmente da leggere in posti ameni, al sole, davanti al mare e una tazza di buon caffè, esattamente come farebbero i protagonisti (soprattutto quelli maschili) di questo libro stregato.

Vi dirò il seguito prossimamente.
Buone esplorazioni nei vostri mari. Sperando che la bonaccia non duri troppo a lungo.