domenica 7 luglio 2019

Mark Knopfler e i buchi del cuore



Ascoltavo "My heart full of holes" mentre stavo andando a intervistare un architetto di Fermo.
Ai tempi lavoravo per il settimanale diocesano con cui era cominciata la mia avventura in terra marchigiana. La crisi era già in atto e io ricordo perfettamente quanto mi sentissi, già allora, il cuore pieno di buchi.

Lo studio di quell'architetto aveva un ingresso improbabile, vagamente neoclassico. Ci sono ripassata varie volte davanti negli anni successivi e tutte le volte mi è tornata in mente quella prima volta. Mi sono sempre chiesta come diavolo fosse venuto in mente, al tipo, di adornarlo così. Mi capita spesso di fissarmi su dettagli che non saprei se definire insensati o salva-vita, nei momenti per così dire più drammatici.

Dopo la scossa di terremoto, ci siamo ritrovati tutti fuori, mamma papà e intero condominio. Ho scambiato uno sguardo con mia sorella: dovevamo essere conciate in maniera bislacca. Abbiamo ridacchiato, forse vergognandoci anche un po', visto il panico generale.

Ai tempi non credo che il mio cuore fosse pieno di buchi. Quelli li senti più avanti, non so bene a partire da quale età. 

Alla fine, un pochino te ne compiaci pure, appena appena eh, perché quando li senti ti illudi di averci capito qualcosa, della vita.

Mi piace però sapere di aver nutrito da sempre un certo senso di disincanto. Altrimenti non avrei riso con mia sorella anche a quell'età.

Per questo, forse, mi piace così tanto, a distanza di tanti anni, la musica di Mark Knopfler. 
Invecchiando (ma forse anche prima con i Dire Straits), i suoi testi hanno parlato spesso di figure variamente piegate dalla vita, dalla poetessa Beryl Bainbridge del penultimo album al tipo con il cuore pieno di buchi. La musica, però, è rimasta sempre piena di energia vitale, anche nelle ballate più intime, come in I am a slow learner dell'ultimo album.

Prima di tornare a vederlo, la scorsa settimana, qui a Vienna, sapevo dalla scaletta che l'avrebbe cantata. 
Allora l'ho riascoltata e mi è tornato in mente l'architetto.

Volevo predispormi alla nostalgia, forse. Causarmi "uno stato di esaltazione" romantico e decadente, come dice l'algida Ninotchka a Leone, quando lui la corteggia (con successo). E invece è saltata fuori l'ironia. Sì, è più forte di me.

In tutti i modi, la versione di "Heart full of holes" del concerto di quest'anno è bellissima. E per un attimo, mentre l'ascoltavo dal vivo, mi sono quasi commossa.

Con questa tournée, Knopfler ha deciso di dare l'addio ai live. 
L'ha ripetuto in ogni tappa: nel video di sopra è a Milano. "E' la vita", dice a un certo punto in italiano. 

Che tristezza, direte. Eppure no, non lo è. 
Bisogna saper voltare pagina. E poi ci sono i ricordi, quelli non te li toglie nessuno. 

A distanza di tempo, anche i momenti più oscuri lasciano tracce di colore. 
Non è stato bello il periodo finale di lavoro al giornale diocesano, proprio per niente. Però mi è rimasto il sapore di quel tardo autunno a Fermo, l'aria pulita, la poca luce, gli sguardi dei miei ex colleghi e le risate degli anni precedenti. 

Invecchiando, si mescolano le esperienze e le stagioni dell'anno con i loro profumi diversi. 
Vanno lì a riempire quei buchi, anche solo per qualche istante, mentre lavi i piatti o scrivi il prezzo del polpo surgelato.

Alla fine sei felice di avere qualche buco, vorresti solo trattenere quel ricordo un pochino di più, lasciartene intenerire fino alle lacrime. 
Poi però ti riscuoti e ti ributti nel presente. Ein bisschien anstrengend, manchmal, ma mica tanto.

Un attimo dopo mi soffermo a soppesare mentalmente l'insensatezza del gesto di qualcuno intorno a me. E ridacchio, aspettando il momento in cui ne parlerò al Bipede.

A proposito di ironia, a dirla tutta, il grande Mark è stato molto più brillante a Milano di quanto non lo sia stato a Vienna. 
Si vedeva proprio che gli piace l'italiano, il suono della nostra bellissima lingua.
A Vienna, invece, nichts, manco una parola auf Deutsch. E dire che l'hanno acclamato a gran voce (ma con quei suoni gutturali non funziona, spiacente per voi). 

Ovviamente il concerto è stato "super" (come dicono sempre qua) e io sono certa che anche questo sarà un ricordo destinato a riaffiorare all'improvviso, al prossimo giro di vita, chissà da dove.

Grazie, Mark, a nome dei buchi del cuore di tutti noi.







martedì 2 luglio 2019

Attaccarsi al presente, oltre ogni nostalgia



Mi piace godermi il tramonto guardando dalla grande finestra che dà sul giardino.

L'ho fatto dal primo giorno in cui sono entrata in questa casa, quasi un anno fa. Sono esperta di affitti, in fondo.
Quando si è trattato di comprarne una, ho voluto che in più ci fosse almeno un balcone. Tornando a stare in casa d'altri, naturalmente, non potevo avere la stessa pretesa.
Ma mi è andata bene: vivo a cinque minuti dal posto di lavoro e ad altrettanti dal parco di Schonbrunn.

Mi accorgo solo ora che digito finalmente dal mio computer vecchiotto di quanto mi sia disabituata alla tastiera italiana, senza umlaut (i due puntini sopra alcune vocali, per i non cruccofoni) e con una diversa posizione per la z e alcuni accenti.

Da dove scrivo? Dove sono? 
A Vienna.

E che diavolo ci faccio qui?
Lavoro. 
E dovevi arrivare fin là per lavorare?
Sì e no.

E non vorresti tornare indietro?
...

Domandona.

Mi manca l'Italia, come mai avrei immaginato prima.

Ultimamente sto pensando di meno alla mia casa, quella che ho comprato, con, non uno, ma addirittura due balconi.

Se ci penso, provo una stretta.
L'ho chiusa, l'abbiamo chiusa insieme, il Bipede ed io, a Pasqua e da allora non siamo ancora tornati. Quella volta lì ho dovuto buttare tutte le piante residue ormai defunte, riuscendo (forse) a salvare solo l'ulivo che ho dato alla vicina.

Solo da pochi giorni ho comprato dei vasi nuovi qui. Il bipede mi ha regalato una piantina di lavanda per il nostro undicesimo anniversario di matrimonio. 
Bisogna vivere e dare vita a quello che ci circonda.
Almeno, io ne ho bisogno.

Il giardino di fronte a me mi stimola molto.
Una mattina di inizio primavera, quando gli alberi erano ancora spogli, abbiamo avvistato un essere in movimento.
Batteva furiosamente con il suo becco contro la corteccia di uno degli alberi che ora mostra la stessa bella chioma che mi ha accolto lo scorso anno.

Era un picchio che stava preparando la sua tana.
Poi ne sono venuti altri e solo qualche settimana fa ho realizzato che i miei proprietari, che abitano al piano di sopra, hanno riempito appositamente per loro due diversi cilindri traforati, appesi poco sotto la mia finestra, riempiendoli di noci e altra frutta secca.
Ogni tanto si presentano in due: uno prende le noci dal tubo e l'altro, più piccino, aspetta di essere imboccato.

Queste scene da Super Quark sollevano lo spirito. Vederle con il Bipede ancora di più.

In questo lungo primo anno da espatriata, in verità non ancora finito, ho capito alcune cose.

Non mi piace stare da sola.
In verità l'ho sempre saputo, ma ne ho avuto la riprova in un momento piuttosto oscuro e scuro dello scorso inverno.

Voglio fare tesoro di ogni giorno che trascorrerò ancora qui, cercando di prendere il meglio di questo posto. 
A cominciare dalla lingua. 

Vorrei anche reimparare a rilassarmi per bene, cosa che qui, all'apparenza, mi pare sappiano fare meglio di noi italiani.
O sarà che quando non hai entrate certe, difficilmente ti rilassi per bene. 

Però l'Italia è bella, molto bella. 
Lavorando con italiani, certo, non ho perso i contatti soprattutto con l'informazione nazionale, ma ogni tanto mi sorprendo a fissare gli sfondi dietro i giornalisti che, magari, stanno raccontando qualche pessimo fatto di cronaca, un pezzetto di piazza, una collina fiorita e i gelsomini, uh, i gelsomini, dietro un intervistato.

Non penso tanto alla mia casa lontana, ma prima mi è venuta in mente la finestra di quella della mia stanza da ragazza. Le nuvole sopra la speculazione edilizia, i profumi diversi nell'aria.

Ho sognato di proporre a una ragazza di fare conversazione in entrambe le lingue. Le parlavo in tedesco, accidenti. Allora è vero che a un certo punto si sogna in altre lingue. Ma francamente in questo caso mi pare prematuro. 

Poi mi sono successi due episodi carini comprandomi le scarpe e durante la spesa. Lì ho davvero parlato in tedesco e come nel sogno avevo il mio carrellino lilla, ma a differenza che nel sogno, sono tornata a casa contenta. E sollevata di non sapermi sola.

Ci sono anche i gatti, naturalmente. Loro mi pare si siano perfettamente ambientati. Saggezza felina. 

Non so, insomma, come andrà a finire,  se a un certo punto la nostalgia ci sovrasterà.

L'ultima cosa che credo di aver imparato è l'essere riuscita ad attaccarmi il più possibile al presente, come una cozza (ah, le cozze dell'Adriatico) con il suo scoglio (madonna che metafora).

Per il resto, mi è mancata la scrittura, mi mancano da morire i giornali italiani (incredibile), ma mi riferisco a quelli di carta, che qui non si trovano proprio, se non in pochi posti e con vari giorni di ritardo (gli austriaci ci cagano solo per la cucina, praticamente).

Insomma, sono una nostalgica signora di mezza età giunta in terra straniera forse per liberarmi del tutto delle illusioni adolescenziali.

Accettare il tempo che passa non è facile, ma come per quella cosa della cozza e lo scoglio, quando cominci a farlo, ti senti meglio.

E corri più forte.
Sorridendo anche un po'. 



martedì 25 giugno 2019

Le parole che mi hanno detto. E che mi hanno convinta a ricominciare

Gentile Madama Tap,
sono incappata nel Suo blog da poco e ne sono già innamorata. L'ho scoperto essenzialmente per due ragioni: amo Giudice Amy alla follia e ho moltissimo tempo libero, essendo disoccupata.
Ho visto questo telefilm per la prima volta quando ero ragazza - ho quarant'anni adesso -, e lo seguo ancora e ancora tutte le volte che lo danno. Mi piace l'integrità delle due protagoniste, adoro il fatto che vivano insieme nella stessa casa, una tribù matriarcale in cui Maxine è la saggia e anziana elefantessa capobranco. Mi piace perfino la luce, soprattutto la mattina, quando la casa è immersa in un giallino che a me sa tanto di speranza, di buoni propositi, di "anche oggi sarà una giornata produttiva".
Anche a me manca la stanchezza. Infilare un caffè di corsa tra un impegno e l'altro, telefonare correndo sul marciapiede, aggiornarmi coi colleghi. Più di tutto mi manca l'esperienza, il saper fare il proprio lavoro, i trucchi del mestiere, quelli che si accumulano e acquisiscono solo facendo, facendo la stessa cosa per tanto, tanto tempo. Essere brava in quello che faccio. Essere disinvolta e sicura nel mio mestiere. Avere un senso.
E anche a me arrivano le soluzioni facili di amici e parenti. Le ripetizioni, il baby-sitting, lavare le scale - lavori che ho fatto e che faccio, peraltro. Perché è meglio di niente. Mah, considerato che magari devo usare l'auto per spostarmi e per lavorare 1 ora e guadagnare 6-7 euro sì, a volte è meglio niente. Ed eccoci, ti guardano come se fossi un insetto, perché, "cosa ti ho detto, qualcosa è meglio di niente, e poi sto solo cercando di aiutarti, forse non hai tutto questo bisogno di lavorare. Oppure non ne hai la voglia".
E in un battibaleno diventi la sfaticata della famiglia, quella schizzinosa, quella ambiziosa. Voglio di più, ma allo stesso tempo non ho coraggio e autostima sufficienti.
Mi sono ritrovata così tanto nel Suo articolo, Madama. Non so cosa Lei desideri dalla vita, sia quel che sia Le auguro di trovarlo. 

Un abbraccio solidale,
S. 

Sono rimasta davvero colpita dalla mail di questa giovane donna. 
Come le ho scritto in privato, la mia vita è totalmente cambiata dai tempi in cui scrivevo quelle parole.

Sono tornata a sentire la stanchezza da lavoro, ma per farlo sono dovuta emigrare dall´Italia.

A quasi un anno dal mio trasferimento in terra asburigica, è giunta l´ora di riprendere ad aggiornare il blog.

Sì, sì, lo so che è una di quelle notizie da prima pagina e che davvero stavate tutti aspettando di riavermi qui nel magico mondo cibernetico.

Ma, oltre ogni ragionevolezza e senso di decoro, la scrittura mi è mancata molto. E non solo quella.

Grazie per la fiducia.

A presto, cari amici. 

mercoledì 6 giugno 2018

Always on my mind


Bettye Lavette ha cambiato le parole di questa canzone di Bob Dylan quel tanto che basta per renderla perfetta. Per me e per te.
Che resterai per sempre dentro di me.

Te la dedico con tutta me stessa, idealmente con la stessa forza con cui la canta questa leonessa della musica, capace di farti sentire tutta la malinconia che non passa per l'assenza di qualcuno che non rivedremo mai più.

Domani saranno passati quattro anni da quel momento in cui qualcuno ha sollevato le tue palpebre per vedere un'ultima volta i tuoi occhi blu.

Come dice lei, pure io quando mi guardo allo specchio ti trovo nel mio riflesso, anche se non ci somigliamo come tutti dicono, se non nei colori, che sono decisamente i tuoi.

You are always on my mind. 

Mamma.

martedì 5 giugno 2018

Muoversi Insieme... a Coatesa, da Luciana e Paolo!

Alla fine ce l'abbiamo fatta, almeno in parte. Sto parlando di alcuni dei membri del comitato scientifico che ha animato per anni il sito di un'azienda dedicato agli anziani e alle persone disabili, parlando davvero di tutto. Da loro ho imparato molte cose che ancora adesso porto con me.

Mi dispiace per chi non è potuto venire, ma d'altra parte non era facile ritrovarsi tutti il 2 giugno, giorno della data prefissata per la nostra reunion sul lago di Como, a casa di Luciana e Paolo, un vero e proprio luogo dell'anima da loro ribattezzato Amaltea.

Non credo sia il caso di aggiungere ulteriori parole al resoconto visivo (e musicale... grazie doppio, Paolo!) che ho voluto preparare in luogo del classico scritto "internettiano", come lo chiamerebbe il padrone di casa.

Vi rimando ai suoi blog per conoscere meglio Coatesa, frazione di Nesso, e la casa con un giardino terrazzato immenso, raccontato stagione dopo stagione dal nostro sociologo, con una passione dalla quale è impossibile restare immuni.

Che altro dire?

Grazie per la bellissima esperienza e a presto... magari sul lago d'Iseo!

Buona visione a tutti, amici vicini e lontani.



 

mercoledì 23 maggio 2018

Eva Cassidy, l'arcobaleno che mi ha colorato il cuore


E' difficile scrivere questo post su Eva Cassidy, la voce più bella che io abbia mai sentito, per molte ragioni.

La prima è che rischio di essere retorica, vista la fine prematura di questa musicista e cantante americana avvenuta nel 1996 a soli 33 anni per colpa di un melanoma che se l'è portata via in pochi mesi.

La seconda è che, davvero, adesso che so chi era e quanti articoli, cd, documentari (come questo bellissimo della Abc che ho appena visto) le hanno dedicato, non so proprio cos'altro aggiungere.

Mi limito perciò solo a raccontarvi come l'ho scoperta.

Il merito è di Giorgia Pulcini, studentessa di canto jazz al Conservatorio di Pescara, che mi ha linkato la versione di Cheek to cheek proposta dalla grandissima Eva. 
Già dalle prime parole mi sono subito accorta di che mostro è stato questa biondina dal naso a patata, all'apparenza abbastanza simile al mio. 

Facile immedesimarsi in un viso così, pur avendo molti più anni di quelli che lei aveva allora e molto, molto meno, talento.

Vado per approfondire chi diavolo fosse Eva, convinta che si trattasse di una giovane stella del jazz.

Precipito negli articoli di cui sopra: il primo in ordine di tempo, però, resta quello che più mi è rimasto impresso (oltre al documentario che vi linko sopra. Se capite l'inglese, guardatelo assolutamente).

Si parla di pattinaggio artistico e del sua versione di Fields of gold utilizzata durante una competizione internazionale. Secondo il pezzo dell'Inkiesta, è stato quello il momento in cui miss Cassidy è diventata una star mondiale.

Prima di allora, l'aveva scoperta un produttore radiofonico inglese, poi le riviste di musica, fino al manager discografico della Blu Note che si vede nel documentario, pentitosi di non averle fatto il contratto quando avrebbe potuto.

Il fatto è che Eva non amava mostrarsi: cantava (e suonava) e incantava tutti, ma si conciava come se stesse per partire per un trekking in montagna (dicono nel documentario) e non si truccava granché.

Eppure, non era delicata e fragile come potrebbe apparire fermandosi solo ai suoi lineamenti.
La sua amica, nel documentario, la definisce "tough", tosta, una che lavorava sodo pur di pagarsi le serate, tutte nella sua zona di residenza, certo, ma pur sempre dispendiose per chi fatica a guadagnarsi il pane quotidiano.

Non so come sarebbe stata la sua vita se fosse arrivata al successo che meritava né che donna sarebbe adesso, a poco più di cinquant'anni. Poco più dell'età che io ho adesso, a dirla tutta. 

Io però ho sempre più spesso l'impressione che niente accada per caso e che un giorno "era scritto" che avrei incontrato la musica e la voce di Eva Cassidy. 

Di lei conosco ora anche la sua reinterpretazione di Autumn leaves, pezzo spettacolare a prescindere. Provo a ricantarlo sulla sua voce, ma faccio bene attenzione che non mi senta nessuno.

A breve so che farò lo stesso esperimento anche con What a wonderful world, che ho ascoltato in uno dei miei frequenti viaggi tra lu Portu e Chieti, restandone quasi sconvolta.

Da sempre la versione di Louis Armstrong  mi smuove qualcosa che non saprei spiegarvi, ma quella di Eva non lascia letteralmente scampo.

Poco fa ho capito come mai.

E' stato il suo pezzo di commiato alla vita, sei settimane prima di trasformarsi in un arcobaleno. 

Maggio è il più crudele e più bello dei mesi, uno di quelli in cui non è lecito andarsene.
Eppure succede, eppure si va via, com'è capitato domenica scorsa a una bambina di dieci anni che non ho mai conosciuto, ma che amava il canto, come hanno raccontato le cronache uscite in questi giorni.

Anche lei ora è un arcobaleno, come lo è la mia mamma da quasi quattro anni, e tingerà i volti a noi che restiamo qui sulla terra a ripeterci, oltre ogni ragionevolezza, quanto meraviglioso sia il mondo.

martedì 15 maggio 2018

Cani, gatti e piccioni: evviva la ginnastica (e l'amicizia)


L'altro ieri me lo sono chiesto più volte, invano: a quante edizioni della Camminata Donna Rosa - l'iniziativa a sostegno dell'Associazione Noi per l'Oncologia Fermana, che lavora a stretto contatto con il reparto di oncologia dell'ospedale di Fermo - ho partecipato? 

A contare le magliette che ho nei cassetti della roba sportiva, dovrebbero essere quattro.
Il che significa che la prima volta è stata nel 2014, probabilmente ad aprile, meno di due mesi prima che mia madre se ne andasse.

Sì, deve essere così, ma d'altra parte ho rimosso quasi tutto quello che è successo prima degli ultimi quaranta giorni della sua vita. 

Diversamente, credo che non avrei voluto più prendervi parte.

E invece, eccomi lì nella foto che vedete sopra, a farmi fintamente portare in trionfo da alcune delle mie amiche di palestra.

Mentre correvo mi ha affiancato un'auto: "Signora, mi scusi, potrebbe rallentare, altrimenti non riusciamo a riprenderla con le altre?", mi sono sentita dire da una giovane armata di videocamera appollaiata nell'abitacolo assieme ad altri ragazzi.

Ridicola soprattutto io, che ho pure risposto di no perché stavo cercando di "fare il tempo".

Ancora più scema mi sono sentita quando, dopo un po' che ero arrivata, lo speaker mi ha detto di avermi riconosciuta. L'anno scorso avevo biascicato qualcosa sulla colazione sbagliata che mi aveva impedito di arrivare tra le prime tre.
Quest'anno, per lo meno, ho rimediato, ringraziando pubblicamente l'Asd Fermo 85 di cui faccio parte credo a questo punto da una decina d'anni, o poco meno.

Ed è stato così molto simpatico che alcune delle mie compagne di ginnastica del lunedì, martedì e giovedì pomeriggio mi abbiano voluto festeggiare in quella maniera.

L'ho scritto più volte e lo confermo: mi hanno davvero aiutato a vivere con più leggerezza tutti questi anni non proprio facili.

Arrivati a metà maggio, ormai, manca davvero poco alla fine delle lezioni, che torneranno a settembre, in concomitanza con la riapertura delle scuole.

Deve mancarmi molto il clima sereno dei miei anni di liceo, evidentemente.
Una mia cugina acquisita dice spesso che vorrebbe avere i problemi di quel periodo (lei parla più spesso dell'università, però) e la testa di adesso.

Mi sto convincendo che abbia ragione lei, anche se ci ho messo un bel po' a capirlo, forse perché, inspiegabilmente, non di rado mi sento ancora come se davvero avessi quegli anni lì.

Quando mi succede in palestra, o mentre corro, tutto sommato mi piace (mi piaccio) perché mi libero, almeno per qualche tempo, di tutti i pessimi pensieri di fallimento.

In questo momento, ce li ho di nuovo molto forti, quindi mi conviene farla breve e arrivare al punto.

Frequentando la Fermo 85, ho scoperto che la ginnastica ha molto a che fare con... galline, gatti, cani e altri animali.

Pensate: tra gli esercizi di stretching che facciamo alla fine dell'ora, c'è persino un piccione, inteso come tale quel movimento che ci propone più spesso Rita Sacripanti, la super Rita, di quanto non faccia Tiziana Bastiani, la finta dolce, ossia le due istruttrici che mi hanno rimesso in sesto e sentimento ritardando (almeno un pochino...) il crollo inevitabile.

Come si esegue? Facile a farsi più che a dirsi.
Ci si mette nella posizione di plank, si piega una gamba e la si schiaccia a terra di taglio, dopodiché si scende un pochino con il corpo senza sedersi del tutto. Ed eccolo là, piccione fatto.

Gli animali più famosi, però, restano i gatti e cani, entrambi mutuati dallo yoga e in quanto tali utilizzati sempre nella fase finale, di stiratura.

Il gatto prevede di mettersi a quattro zampe e di inarcare la schiena, mentre si inspira (mi pare) e di rilasciarla mentre si espira. Ne esiste anche una versione più dinamica, detta da Rita del "gatto attivo", ma per come la vedo io, è una sorta di pleonasmo, visto che non esiste quadrupede più agitato del felino. Oltretutto, in questo momento, non mi ricordo come si fa. Stasera me lo faccio rispiegare.

Passiamo al cane, l'altro animale amatissimo pure dai politici. Bene, quando si arriva a questo punto ci si sta per rimettere in posizione verticale, ma prima bisogna distendere le gambe mantenendo le braccia tese con le mani a terra e simulare una specie di camminata. Dopodiché, sempre con la schiena all'ingiù, ci si abbraccia le ginocchia e, molto lentamente (tolta la nostra elastica Aurelia, una superdonna con sorriso da pubblicità) si ritorna su.

Lo zoo da palestra contempla però altre creature, dicevamo.
Ce n'è una che non rende giustizia alla grazia femminile, detta squat dell'orso. Sinceramente: mi sta sulle balle perché penso di farlo malissimo. In tutti i modi si tratta di passare dal plank allo squat tenendo le braccia tese con i palmi delle mani a terra. Nooo, brutta roba.

Pure la gallina, beh, non è proprio bellissima a vedersi, ma forse farebbe la felicità dell'universo maschile se si fermasse a guardare tutti questi lati B all'insù, mentre si eseguono i tricipiti detti, per l'appunto, a gallina.

Abbiamo anche un cavallo, che consiste nel mettersi a cavalcioni dello step e salire e scendere da un lato e l'altro ripassando sempre dal centro, un esercizio piuttosto frequente nelle fasi aerobiche dell'allenamento, che non mi fa impazzire da quando sono caduta come una pera cotta con il fondoschiena proprio sull'attrezzo. 

Fantastica, forse perché molto infantile, è invece per me la lepre, che prevede di saltare con entrambe le gambe da un lato all'altro della panca lunga, appoggiandosi sulle braccia e scorrendo in avanti. Mi pare di volare quando la faccio.

Quali altri animali mancano? Uh, dimenticavo il cobra, già, sempre nella fase di stretching, che si usa per stirare gli addominali, stando pancia a terra e sollevando la schiena con l'aiuto delle braccia piegate. Quando si arriva a stenderle, invece, dal cobra si passa alla Sfinge. 
C'è anche il ragno o posizione a quattro di bastone (dovrebbero essere la stessa cosa), ma benché sia sicura che manchi all'appello qualche altro volatile o quattrozampe, il concetto mi pare chiaro: o no? 

La ginnastica ti riporta sulla terra, sia perché materialmente sei spesso in posizione orizzontale, sia perché, man mano, finisci per sentirti davvero pure tu un po' un cavallo o un gattaccio (come la mia grigia).

E poi ti riporta a terra anche da un altro punto di vista, quello più importante: siamo carne, sangue, ossa, muscoli e respiro e quella roba che sta lassù, sopra il collo (a proposito: sono molti anche gli esercizi di stretching per quest'ultimo), è poca cosa rispetto al resto.

Per curarla (intendo la testa) è essenziale partire proprio dal basso. Dalla punta dei piedi, salendo su su, fino al cuoio capelluto.

Se poi condividi il tutto con un gruppo coeso scacciapensieri, a fine ora ti sentirai comunque meglio.

E aspetterai di ritrasformarti in qualunque di quegli animali.

Dolori, ansie e fallimenti resteranno sempre lì in agguato, ma tu nel frattempo avrai perfezionato il ruggito (esisterà anche il leone? Chissà) e niente, davvero niente, sarà più come prima. 

Grazie, amiche. 
E coraggio a tutte noi, sempre.