mercoledì 28 giugno 2017

La ragazza del mondo e l'Arminuta, due a zero per l'umanità


Cercavo un collegamento tra "La ragazza del mondo", il film di Marco Danieli che ho visto venerdì scorso alla Comunità di Capodarco, per l'apertura dell'Altro festival, e "L'arminuta" di Donatella Di Pietrantonio.
Quando si dice il caso.
L'attrice protagonista che vedete sopra nella foto si chiama Sara Serraiocco ed è di Pescara.
L'autrice del libro che ha per protagonista una ragazza ancora più giovane vive a Penne. Forza Abruzzo, mi verrebbe da dire, ma solo perché sono una senza patria alla ricerca costante delle proprie radici.

Tolto l'orgoglio regionale, comunque, tra i personaggi visti e letti più o meno negli stessi giorni il legame c'è e ha a che fare con l'identità.
"Arminuta" vuol dire "ritornata" ed è il soprannome che viene affibbiato alla ragazzina al centro della storia dagli abitanti del paese nel quale torna a vivere, quando viene restituita alla famiglia biologica da quella adottiva, per ragioni che verranno spiegate durante la narrazione.

La ragazza del mondo è invece ciò che diventa Giulia-Sara, la diciannovenne testimone di Geova, che finisce per essere "disassociata", quando si scopre il suo legame d'amore con un ragazzo "di fuori" dalla comunità religiosa.

Al di là degli aspetti sociali delle due vicende (che pure sono significativi, altrimenti non si capirebbe granché della tensione narrativa che le pervade), sono rimasta colpita dalla forza di queste due giovani donne, capaci, ciascuna a modo proprio, di ricomporsi pezzo dopo pezzo dopo pesantissime fratture.

Alla fine del film (no spoiler, promesso) verrebbe da chiedersi che adulta diventerà Giulia, se riuscirà un domani ad amare nel modo giusto chi è dentro e chi è fuori dal mondo dal quale si è dovuta (o voluta?) allontanare. 
Nel caso dell'Arminuta, invece, si sa che la trama si avvia quando la protagonista ha più o meno trent'anni, per cui già si intuiscono i mutamenti prodotti dalla scoperta tardiva di avere due mamme o forse nessuna.

In entrambe le storie, il dolore resta lì, muto e galleggiante, come quando si è smesso finalmente di piangere, ma si è ancora spossati dalle lacrime.
E tuttavia uno spiraglio c'è ed è molto femminile sia per i personaggi che lo rappresentano sia per il modo in cui viene espresso.

Mi colpisce, anzi, a pensarci adesso, che il regista della "Ragazza del mondo" sia un uomo: è proprio vero, allora, che quando ci si mettono quelli che stanno dall'altra parte del cielo sono capaci di grande sensibilità, epurata, direi, dalla retorica in cui spesso, ahimè, noi donne finiamo per cadere.

Donatella Di Pietrantonio, al contrario, sa dare voce anche agli uomini, ai maschi direi meglio, nel modo giusto, ma pure per lei la salvezza della protagonista è declinata al femminile.

Il film con la magnifica Sara Serraiocco e la terza opera edita di una - a mio avviso - delle migliori scrittrici italiane contemporanee non sono perfetti ed è anche questa una ragione della loro bellezza. 

L'innamorato di Giulia poteva pure non essere un tossico-spacciatore, mentre qualche dialogo del libro poteva essere ancora meno esplicito di come è stato stampato, per aumentare la meravigliosa asciuttezza della prosa adottata dall'autrice. E tuttavia, ho amato tutti i personaggi principali di entrambe le opere: nel libro mi è piaciuto Vincenzo, il fratello-non fratello dell'Arminuta, e ancora di più la mamma ritrovata, con quell'incapacità apparente di compiere gesti d'affetto. 
Nel film, invece, nonostante quello che ho scritto prima, mi sono immedesimata nella disperazione di Libero, il ragazzo di Giulia interpretato da un assai convincente Michele Riondino.

Sono storie alle quali ti affezioni, insomma, capaci di riscuoterti dal torpore di giorni troppo identici a loro stessi. Già solo per questo motivo, non posso che dire grazie a chi ci ha lavorato con tutta la passione e la competenza che ci vuole.

Non basta una vita, probabilmente, per capire chi siamo e che diavolo ci facciamo qui: qualcuno, però, ha almeno il dono di fornire un po' di senso al nostro vagare. 
L'umanità ha ancora qualche chance.
Voglio crederci, fatelo pure voi.

giovedì 15 giugno 2017

Fenomeno Gabbani e il segreto del successo


Sono incappata nel fenomeno Gabbani per questioni di lavoro.
Ora: non credo sinceramente che mi procurerò tutta la sua discografia, ma devo ammettere di esserne rimasta conquistata.
Mi piace su tutto la sua grande ironia non stronza, ossia di quelle che non virano verso il sarcasmo, bensì del genere sagace e divertente.

Nella full immersion che ho fatto nei giorni scorsi, tra l'altro, ho ascoltato anche pezzi poetici e riflessivi. Io però sto parlando soprattutto dei testi, mentre so benissimo che un buon ottanta per cento del successo di questo trentaquattrenne carrarese dipende soprattutto dalla grande energia che trasmette la sua musica.

Di base gli arrangiamenti sono radiofonici, concepiti per far ballare (o comunque ballonzolare) le persone mentre fanno la spesa (o stirano, come farò io forse tra poco), e questo, per una pallosa come me, è un limite.

Almeno in generale.
In questo caso, invece, intendo nella canzone che linko sopra, il connubio tra testo, musica e commercio è perfetto e a me non viene che inchinarmi per tanta professionalità.

Perché diciamocelo: ci sono tanti bravi musicisti e discreti interpreti, ma nel successo, quello che ti rende un nuovo Celentano o Battisti, voglio dire, contano, oltre alla fortuna personale, una cazzutissima preparazione (anche fisica), idee e staff qualificato che curi ogni minimo aspetto del personaggio che aspiri a diventare.

Qualche anno fa, se ho visto bene cercando i suoi pezzi sul web, Gabbani non era così in forma come è apparso ieri sera sul palco di Fermo. Avrà di certo pure un personal trainer.
Anche il look, quel ciuffo scolpito e quelle t-shirt semplici ma curate, la barbetta disegnata sopra quel magnetico sorriso sono studiatissimi.

Più invecchio e più capisco, insomma, che se vuoi sfondare non puoi lasciare niente al caso.
E la spontaneità, direte?
La spontaneità la usi anch'essa come marketing se lo sai fare, altrimenti cerchi di nasconderla con l'aiuto di un insegnante di public speaking o con la respirazione yoga, se sei uno che va in panico a contatto con la folla.

Molto probabilmente Gabbani ha doti naturali di comunicatività, però non è così per molti aspiranti artisti, pur bravi e talentuosi.

Oltre una certa età, detto ancora meglio, se non si è riusciti a governare la propria emotività o al contrario il proprio eccesso di ego, è piuttosto improbabile che il successo alla fine arrivi.

Per riuscire non basta il talento, insomma. Bisogna invece pure avere l'umiltà di farsi rivoltare come calzini da chi ha visto qualcosa in noi, purché, naturalmente, questo qualcuno sia un professionista con le contro-palle.

Diffidate dai dilettanti della comunicazione e delle arti in genere, voi che credete ancora di avere qualcosa da lasciare ai posteri.

Una scrittrice che ho intervistato tempo fa e che rivedrò stasera in una conferenza, mi ha parlato dell'importanza della sua agente letteraria nel farla salire di livello quanto a casa editrice con cui pubblicare.

Per arrivarci, la stessa si è fatta un mazzo così nella scrittura, innanzitutto, ma anche in tutto quello che comporta diventare un personaggio pubblico. I vestiti sono tutto, il modo di atteggiare il corpo anche, l'uso della voce, etc etc.

Con questo, ovviamente, non voglio dire che ci si debba imbalsamare, anche perché, se il risultato finale è troppo giustapposto, poi il pubblico se ne accorge e ti bastona.

Sto dicendo però che non bisogna aver paura di farsi un po' modellare, quando chi lo fa ha chiaro con te l'obiettivo di farti brillare, non di trasformarti in un clown.

Gabbani riluce, insomma, e persino una criticona come me l'ha capito.

Tutto sta a vedere come saprà gestire nel tempo la sua fama. In conferenza stampa si diceva tranquillo per la consapevolezza che, comunque, cambiando lui come accadrà nel corso del tempo, cambierà anche la sua musica. Da parte sua continuerà a scrivere canzoni. Meno male.

Oh my darling, che simpatica scoperta.

martedì 13 giugno 2017

La storia non siamo noi, ma trattateci comunque da cittadini. Lettera ai vincitori delle amministrative


Se fosse stata in bianco e nero, o di colori meno metallici, la foto che pubblico sopra sembrerebbe provenire direttamente dagli anni Settanta-Ottanta.
Invece no: l'ho scattata ieri sera, al termine dei festeggiamenti per la rielezione del sindaco di Porto San Giorgio, Nicola Loira, uno di cui, secondo lo slogan elettorale, ci si potrebbe fidare.
A sventolarla, è un anziano, verso il quale non si può che provare un misto di tenerezza e malinconia.

Era dai tempi dell'università, a inizio Novanta del secolo scorso, che non vedevo una bandiera con la falce e il martello. Di sicuro sarà comparsa mille altre volte in analoghe manifestazioni, ma credo davvero che risalga a inizio Duemila l'ultima volta che ho preso parte a qualcosa di tinta rosseggiante, pur se in circostanze completamente diverse.

Non sono tipo da folla né amo, in linea generale, le sfilate di protesta con tanto di canti e tamburi (se sei incazzato, che ti canti, mi viene sempre da pensare). Mi sentivo fuori tempo massimo già a vent'anni, quando me ne andavo con la fotocamera analogica a immortalare i manifestanti che furono. Ho ancora da qualche parte un album con gli scatti raccolti a Firenze in occasione di una protesta anti-Berlusconi. Alcuni si erano messi in posa, esattamente come fanno i partecipanti a maratone e altre amenità di massa.

Credo che stare dall'altra parte dell'obiettivo protegga anche un po'. Che ci faccio qui? Ma è ovvio, scatto foto: mica crederete che la penso come voi?

Eppure.
Era già caduto il muro di Berlino quando frequentavo le feste dell'unità e simili. Anzi: ricordo anche vagamente un comizio di Fausto Bertinotti in un prato della periferia pisana. Ci si andava per stare con gli amici (toscaneggio pure, per l'occasione), ma evidentemente il mio cuore militava da quelle parti. Di certo non sono mai stata a un'analoga kermesse missina o post-non so cosa (c'era Fini, giusto. Le mie coinquiline un giorno sono tornate a casa con le bandierine italiane e me le hanno sventolate davanti alla faccia per provocarmi. Ci sono riuscite. Lo ammetto).

Insomma, dentro di me alberga una piccola comunista, amica dei deboli e degli sconfitti.
Mi dispiace sempre assistere al rammarico di chi ha perso: mi scatta istintivamente un istinto materno difficile da controllare.

Mi immedesimo più facilmente negli sfruttati e maltrattati di rinogaetaniana memoria.
Capisco, però, che dalla tristezza altrui occorra anche difendersi per non confondere le proprie con le altrui frustrazioni.

E poi ho realizzato un'altra cosa: bisogna anche saper gestire le vittorie.

Sedersi sugli allori è, come dicevano gli antichi, l'errore più grave che si possa compiere.
L'omino che agita la falce e martello probabilmente non lo sa, ma quel partito in cui hanno riposto le speranze generazioni e generazioni di italiani è diventato ostaggio di una classe dirigente che ormai gli allori ce li ha per biancheria intima.

Non sto parlando nello specifico del piccolo comune nel quale sono venuta a vivere, ma a giudicare dalle molte facce non più giovani presenti anche tra i neo consiglieri comunali del posto in cui ho comprato casa, investendovi denari e progetti per il mio futuro di persona altrettanto anzianotta, ci vorrà ancora un po' prima che, davvero, questo Paese (non solo Lu Portu) si riscuota dalla stasi in cui è piombato ormai da troppo tempo.

"La storia siamo noi", diceva la canzone di Francesco De Gregori utilizzata per aprire la festa per la vittoria, anche quella un classico dei miei anni verdi.
Mi intenerisco e provo anche un po' pena per me stessa pensando a quando, in sella alla bici con i freni a bacchetta, troppo alta per me e pericolosissima per come la guidavo, mi avviavo verso un altro quartiere periferico di Pisa, più o meno nello stesso periodo di adesso, per andare a servire al ristorante della festa di Rifondazione comunista. Per un bel pezzo sulla canna dell'improbabile mezzo di locomozione è rimasto appiccicato un bollino con il simbolo sovietico.

Ricordo pure un cuoco, forse quarantenne, uno anzianissimo per una come me fin troppo pischella per l'età che avevo, nell'atto di avvicinarmi al busto il suo forchettone per la carne. Broccolava un po', credo, ma se ce l'ho ancora fisso davanti agli occhi è solo per il senso di vergogna che ho provato. Polla da infilzare, ingenua e sognatrice come i tanti che negli ideali propagandati dal Pci e i suoi eredi ci hanno creduto davvero.

Poi gli anni passano e la storia, per l'appunto, prende nuovi corsi e tu te ne senti ogni giorno di più meno parte.
"Siete finiti!", dicevano dei giovinastri da un'auto in corsa che passava accanto alla festa pisana.

Qualcuno forse li avrà rintuzzati, ma sinceramente non so cosa avessi pensato io in quel momento.
Sotto sotto, però, ho sempre saputo che di quel mondo mi piaceva essenzialmente la vera o presunta veracità dei compagni di una volta, quelli che dopo aver mangiato i fagioli all'uccelletta si buttavano tutti in pista a ballare il liscio.

Mi parevano autentici, incapaci di scorrettezze o peggiori nefandezze.
La cosiddetta base tanto mitizzata pure nei programmi di Guzzanti e Dandini di quegli anni, gli eroi pasoliniani che in verità io non avevo mai frequentato, piccola borghese com'ero di famiglia.

A distanza di tanto tempo che cosa è rimasto di quella specie di ideale di purezza?
Lo incarnano forse solo i semplici come quell'anziano che sventola la bandiera nella foto o è possibile essere per lo meno credibili pur nel crescendo di amarezze che ti riserva l'età adulta?

Come proteggersi da volgarità e meschinità, nonostante tutto?
Non ho una risposta precisa, o forse una mi viene in mente.

E la indirizzo a chi ha vinto questa tornata: abbiate rispetto degli altri, fateci sentire parte del vostro progetto di città, non a chiacchiere, non ad amarcord musicali, ma con le opere.

Siate degni del vostro essere vincitori: siate condottieri di questa nave piena di rattoppi e cercate con il massimo dell'abnegazione di rimetterla in sesto.

Voglio sentirmi vincitrice anch'io, per una volta: non voltate la faccia a chi non fa parte della vostra famiglia. Abbiate rispetto per il ruolo che vi siete assunti.

E' già un miracolo, voglio dire, che chi ha accolto l'eredità di quel partito fortemente novecentesco possa ancora fare numeri importanti, non solo nella piccola città de Lu Portu.

Agite da amministratori, non da feudatari.
E' l'unica preghiera che vi rivolgo da cittadina, con la fotocamera al collo, dall'altra parte del palco.

Lasciate che alla fine dai miei scatti di fotoamatrice venga fuori anche la vostra anima. Mostrateci di averne una.

mercoledì 7 giugno 2017

Ti aspetto nei miei sogni

Tre anni fa, più o meno a quest'ora, mia mamma se n'è andata. Ho sempre il timore (e il terrore) di scadere nella retorica, per cui perdonatemi se non scriverò molto di più su quel momento.
Erano però vari giorni che pensavo di buttare giù qualche riga, partendo dal presente.

In tre anni la mia vita è cambiata quasi totalmente.
Ho la sensazione che mi si sia seccato il cuore, da una parte; dall'altra, di aver sgombrato la mia pur sempre confusionaria e velleitaria testa da un mucchio di ciarpame.

Come vorrei dirlo a lei, che pure, se lo sapesse, mi guarderebbe ancora con un misto di amore e scetticismo.
Quante volte ci siamo ritrovate in cucina, io seduta nella sedia di lato alla credenza, lei su quella che ora uso sempre io quando resto lì a guardare la tv la sera, spesso anche quando papà se ne va a letto.
Prima non vedevo l'ora che quest'ultimo sgomberasse per potermi piazzare sul divano a fare zapping sul mega-schermo (pure negli anni Ottanta il salotto era il luogo deputato all'apparecchio più grande).

Di ritorno dall'università mi fermavo a lungo, di solito dopo pranzo, a raccontarle i fatti rilevanti dei giorni passati lontano da lei. Qualche volta scendevo pure più sul personale, come quella volta - ce l'ho davanti ancora chiaramente - in cui le ho svelato di essermi fidanzata.

Conoscendola, doveva impazzire di gelosia e di rabbia: "chi sarà mai quest'ennesimo scansafatiche?" Di certo si augurava solo che non facessi qualche leggerezza, anche se, sul fronte sesso, in verità, sapeva essere piuttosto esplicita. "Guai a voi se fate la pizza". O qualcosa del genere, di solito riferito a qualche figlia di sedicente amica di collega, che, per l'appunto, l'aveva fatta e addio scuola e altri progetti.

Voleva proteggermi dall'amore, una parola così abusata la maggior parte delle volte in cui la si associa al rapporto sentimentale.

Lo sapete: non sono madre, per cui quella roba strappa-budella che ti succhia sangue ed energia da dentro la conosco solo per sentito dire.

So però che in molti casi aveva ragione lei: non c'è quasi nessun legame che duri per sempre, ma quando ne incontri qualcuno che vale la pena alimentare e far fiorire non c'è genitore che ti possa trattenere.

Mi dispiace di averlo capito troppo tardi, cioè di non averglielo potuto dire. Ma forse non avrei dovuto usare le parole: mi avrebbe sgamata guardandomi in faccia.

Per amare bisogna avere rispetto di sé, curarsi profondamente, ascoltarsi davvero.
Tu hai saputo amare me e Linda perché ci hai saputo parlare a volte con brutalità elefantiaca, ma insieme con rispetto.

"Sembri proprio una giornalista", commentavi leggendo qualche boiata che vi costringevo a sciropparvi. Mi è sempre piaciuto questo sano ridimensionamento del narcisismo da prima della classe e anche se faccio tuttora quotidianamente i conti la mia scarsa soddisfazione professionale, so che quella è l'unica strada per diventare persone equilibrate.

E' insomma come se, perdendoti, tu ti fossi installata stabilmente dentro di me aiutandomi quasi minuto per minuto a non sprecare energie in operazioni fallimentari, in relazioni inutili e altre cretinerie.

Non ho ancora la forza che hai dimostrato tu nell'ultima fase della tua vita né so nulla di quasi nulla su perché diavolo di ragione io sia piombata sulla terra.

So di più sulla fragilità umana, anche sulla tua e, se possibile, mi manchi ancora di più anche per questo. So pure che le lacrime non vanno sparse al vento come gocce di caligine.
Quando piangerò di nuovo, sul serio, sarò da sola: quelle lacrimucce di commozione che facevo fatica a mostrare da adolescente e che, invece, ogni tanto spuntano fuori adesso che mi avvio ai cinquanta, non sono altro che piccole melensaggini.

Dentro, sono un gigante, cara mamma, ma sto ancora crescendo, le articolazioni scricchiolano per questo (sì, come no).

Mi sono accorta di essere passata dalla terza persona al tu, parlando di lei. Parlando di te.

Perdonami per non aver capito tutto il dolore che provavi mentre te ne andavi. Per aver avuto così tanta paura della vita per lunghi, lunghissimi anni, da seguire alla lettera le tue raccomandazioni maternamente rigide anche quando non sarebbe stato necessario.

La verità è che io non ero in grado di amarti come tu hai fatto con me, ora lo so.

L'amore non si sceglie, l'amore arriva e basta, come io (e mia sorella) siamo arrivate da te.

Non so come chiudere: la banalità chiama.

Ti aspetto nei miei sogni.