martedì 29 dicembre 2020

Una grossa fregatura e Borgo Sud: due libri imperdibili dalla mia terra



Ci sto pensando da giorni, ma niente, non riesco a venirne a capo. Per questo motivo, so già che sarà durissima trovare un titolo a questo scritto, che non è un articolo né tanto meno una recensione.

Però sentivo, sento, che avevo bisogno di parlarne in questa forma, forse per trovare, grazie alla disciplina che sono costretta a darmi quando mi rivolgo a un ipotetico pubblico, una risposta

A quale domanda?, direte voi.

Eccola qua.

Che cos'hanno in comune Borgo Sud (Einaudi) di Donatella Di Pietrantonio e Una grossa fregatura (Chiaredizioni) di Marcello Nicodemo? 

Tanto per cominciare, la città in cui si svolgono le due storie: Pescara, vera e immaginaria. Nel libro di Marcello, c'è anche qualche altro pezzo di costa adriatica e vari passaggi in Campania, regione di origine dei suoi genitori, ai quali il libro, dolente e sincero, è dedicato.

Nel libro di Donatella, c'è anche un po' di entroterra, lo stesso che aveva fatto da scenario a L'Arminuta il bellissimo romanzo di cui il nuovo è per così dire il "sequel".

In tutti e due, poi, appare qui e là anche Chieti, la mia città natale.

Conosco personalmente i due autori, ecco un altro punto che hanno in comune. In entrambi i casi, si tratta di una conoscenza che, per quanto limitata, non lo è non abbastanza perché io possa mantenere da loro il giusto distacco che richiederebbe una recensione.

Ma questo scritto, per l'appunto, non è una recensione ed io posso dire apertamente di provare per tutti e due gli autori una grande simpatia.

Coming out fatto. Andiamo avanti.

Ho letto Una grossa fregatura la scorsa estate, portandomelo via da casa dei miei al termine del mio breve soggiorno in patria.

Ho letto Borgo Sud nel viaggio di andata e ritorno da Vienna a Chieti dieci giorni fa.

In entrambi i casi, li ho divorati.

Sul libro di Marcello non avevo particolari aspettative, ma solo una grande curiosità mista anche a un certo timore. Già dalla prima pagina ho colto qualche elemento autobiografico che mi ha rattristato molto. Il padre del protagonista ha un grave incidente e i lunghi e ben descritti giorni di degenza che ne seguono non sono stati, per me, solo l'ossatura principale attorno alla quale ruota tutta la narrazione, ma qualcosa di molto più personale.

Quando ho aperto il libro di Donatella, mi sono accorta invece che in testa mi risuonava la voce dell'autrice, con la sua bella erre arrotata.

Ci ho messo un po' per ritrovare la mia, per lasciarmi andare, voglio dire, al ritmo della storia. Avendo amato moltissimo L'Arminuta, in questo caso, sì, avevo delle aspettative. 

Insomma: avrei bisogno di rileggerli entrambi daccapo per parlarne con maggiore precisione, ma niente, non ce la faccio.

A pensarci bene, è come se avessi subito un incantesimo.

Mi sento un po' come il critico gastronomico del cartone animato Ratatouille, quando assaggia il piatto omonimo che gli ha preparato il topo chef. 

Ogni pagina di Una grossa fregatura e di Borgo Sud mi riporta a casa, tra le colline che scolorano nei tramonti rosa, nella cupezza sonnolenta e umida della pianura, tra i capannoni dell'area industriale in disarmo, e poi giù, fino al mare adriatico, tra le palazzine corrose dalla salsedine della riviera.

I personaggi di Donatella e Marcello parlano della mia gente, spesso gretta e calcolatrice come si può essere solo nelle province minime. La violenza, ben tratteggiata in entrambi i romanzi, ecco, quella io personalmente non l'ho vissuta, o, se c'era, non l'ho vista, coccolata come sono stata fino al termine della mia giovinezza (e pure dopo). 

La morbida protezione familiare non mi ha però del tutto schermata dalla desolazione rancorosa che sentivo aleggiare attorno a me. Ne avvertivo la presenza con una specie di morsa allo stomaco, la stessa che prende, forse, l'Arminuta quando parla con i suoi genitori e in particolare, in questo romanzo almeno, con il padre, una figura che mi pare quasi di aver conosciuto.

Quella desolazione rancorosa è forte, fortissima, nell'ex marito dell'infermiera bionda del libro di Marcello, un uomo verso il quale si prova da subito una mistura di disprezzo e pena.

Per contrastare e poi neutralizzare quella desolazione rancorosa là, che affonda le radici in secoli di servitù e sfruttamento, occorre molta nobiltà d'animo, ma nei due romanzi si capisce che sono in pochi a possederla.

Ne ha da vendere il papà del protagonista di "Una grossa fregatura", ne ha, a ben guardare, anche Adriana, la sorella dell'Arminuta, che condivide con il primo, almeno in parte, la stessa sorte. 

Se e quando leggerete i due romanzi, insomma, non aspettatevi a tutti i costi il lieto fine. Non immaginatevi però nemmeno finali shakespeariani: noi abruzzesi (almeno quelli del teatino - pescarese) siamo comunque dotati di una certa pudica ironia che, se ben esercitata, può diventare anche geniale (vedi quel folle di Maccio Capatonda).

Il riscatto, però, c'è, ve lo garantisco. Bisogna solo coglierlo tra le righe, in particolare ne Una grossa fregatura, in modo leggermente più scoperto in Borgo Sud

Ecco. Lo sapevo: scriverne mi ha aiutato a schiarirmi le idee.

Adesso posso dirlo: il 2020 è stato un anno parecchio duro, va bene, ma almeno mi ha regalato due libri così.

Grazie agli autori per come sono e per le storie che continueranno a raccontarci. Non esiste miglior cura di leggere pagine sanguigne come queste per gente strenuamente in fuga dalle grosse fregature.   

Buon anno di riscatti a tutti noi.

venerdì 11 dicembre 2020

Melisa Erkurt e il futuro dei giovani austriaci di origine straniera



Come si vive in Austria? Tolti quelli che la confondono con la Svizzera, agli altri non saprei sinceramente cosa rispondere.
Di sicuro, un'idea di come si vive a Vienna ormai me la sono fatta, ma se proprio fossi costretta a dire qualcosa, vi esorterei a rivolgervi a chi l'ha scelta come patria definitiva
Mi riferisco agli immigrati di prima e seconda generazione, adottati dalla capitale asburgica in particolare. Una di loro è Melisa Erkurt, la giornalista autrice del libro di cui vedete sopra la copertina.

La storia di questa giovane donna, nata ventinove anni fa a Sarajevo, è emblematica. 
Praticamente ancora in fasce, è arrivata a Vienna con sua madre, in fuga dal terribile conflitto della Bosnia Erzegovina, una delle guerre della ex Jugoslavia scoppiata poco dopo la sua nascita.

Il più grande torto subito da chi lascia il proprio Paese è non potervi più tornare, se non un domani come turisti, alla ricerca di qualche traccia delle proprie radici.

Di un viaggio del genere parla per l'appunto Melisa Erkurt nel suo libro, dedicato alle ragazze e ai ragazzi con "Migrationshintergrund", ossia con origini migranti, alle prese con il difficile compito di diventare adulti in una terra straniera, frequentando scuole spesso non adeguate a comprendere i loro reali bisogni.

Del libro della giornalista che ora lavora per la Orf, l'equivalente della nostra Rai, ho parlato durante la mia presentazione al corso di tedesco (la trovate qui), uno dei molti offerti dall'Arbeitsmarketservice (AMS) ai migranti che vogliano inserirsi meglio (almeno si spera) nel mercato del lavoro austriaco. 

Ai tempi ne avevo sentito parlare leggendo un articolo sul Wiener Zeitung, il primo quotidiano che ho sfogliato praticamente già appena sbarcata dal treno due anni e passa fa, senza capirci granché. 
Inevitabile rimanerne colpita, considerando anche i magnifici occhi chiari su capelli corvini di questa giovane collega, che illuminano di forza e determinazione tutta la figura. 

I suoi primi anni qui non devono essere stati facili: in alcune pagine del libro, mi è parso di risentire le parole di una mia compagna del corso precedente, di origine afgana. Dal suo Paese Marzia, così si chiamava la mia ex compagna, è arrivata in Europa a piedi. Con lei c'erano il marito e i figli, che oggi le stanno dando tante soddisfazioni con la scuola e il lavoro. "Non avevamo niente", mi ha raccontato: una volta qui, organizzazioni caritative li hanno aiutati con vestiti e altri beni di prima necessità. 

La comprensibile gratitudine per chi ti ha salvato la vita, indirizzandoti verso un futuro migliore, può tuttavia confondere le acque.

Mi piacerebbe infatti parlare con i figli della mia ex compagna per sapere se hanno vissuto, o stanno ancora vivendo, le esperienze che racconta Erkurt nel libro, ossia le piccole e grandi discriminazioni subite dai nuovi austriaci di nome Mohammed (un capitolo si chiama proprio "Muhammed ist ein Urteil", ossia "M. è una sentenza", o qualcosa del genere). 
Per chi porta quel nome, oppure per le ragazzine che girano con il capo velato, la vita scolastica, e non solo quella, è sicuramente più dura, sostiene la giornalista.

Particolarmente problematica è la quotidianità delle giovanissime musulmane, che non di rado scelgono il velo per sottolineare la propria diversità, per darsi, anzi, un'identità. 
Proprio per questa ragione, sottolinea l'autrice, non ha senso, a suo giudizio, proibirne l'uso a scuola: finirebbe per alimentare il sentimento di separazione tra gli studenti con o senza pedigree.

Semmai, propone apertamente alla fine del libro, bisognerebbe rifondare daccapo il sistema scolastico, affiancando agli insegnanti tout court, altre figure, dal mediatore culturale allo psicologo, per favorire il dialogo tra docenti e discenti e tra i ragazzi stessi, in modo da prevenire e risolvere eventuali conflitti prima che sia troppo tardi.

Troppo tardi per cosa?, direte. Innanzitutto per completare gli studi fino in fondo e con successo. Ancora troppi ragazzi di origine straniera - precisa la giornalista - si fermano all'istruzione dell'obbligo o tutt'al più si avviano alla formazione professionale per accedere prima possibile al mondo del lavoro. I posti ai quali questi ragazzi aspirano sono perciò, nella maggior parte dei casi, di livello più basso, come se, detto in altri termini, tra loro (tra le ragazze in modo particolare) non ci fosse nessuno portato per mansioni più qualificate.

E dire che Melisa Erkurt di giovani donne capaci come lei ne ha viste diverse. Prima di diventare una giornalista, ha infatti studiato Pedagogia, lavorando, dopo la laurea, come insegnante
Il suo testo prende spunto proprio dall'esperienza didattica, raccontata con grande passione, in una miscela perfetta con i suoi ricordi personali, che ne agevolano la lettura anche a chi (come me) non ha una conoscenza avanzata del tedesco.

Per come la vedo io, insomma, sarebbe interessante tradurre "Generation Haram" anche in italiano, perché immagino che anche da noi si siano affacciati, ormai da anni, problemi di integrazione analoghi a quelli descritti per l'Austria.

Prima di chiudere la mia sghemba recensione, mi soffermo sul titolo e sul sottotitolo, sperando con questo di invogliare qualcuno ad approfondire l'intera faccenda.

La parola "haram", spiega l'autrice, si riferisce ai temi tabù per la maggioranza delle ragazze e dei ragazzi di origine musulmana. Su tutti, facile intuirlo, c'è la sessualità, un argomento trattato piuttosto male, rimarca Erkurt, anche nei corsi organizzati a scuola.
 
A saperne poco, d'altra parte, sono pressoché tutti gli adolescenti, precisa l'autrice, che spesso nascondono la loro inesperienza dietro eccessivi moralismi o atteggiamenti machisti (nel caso dei maschi), tipici in quella fascia d'età a prescindere dalle proprie radici. 

A maggior ragione, ribadisce Erkurt, diventa perciò essenziale che la scuola "impari a dare una voce a tutti", come recita il sottotitolo del suo libro. 

Perché se è vero che storie di successo come la sua già di per sé testimoniano che la direzione giusta sia stata già imboccata, è purtroppo ancora vero che molti di questi giovani di origine straniera rappresentano una "generazione perduta"

A ripeterlo piuttosto spesso, in vari capitoli, è sempre l'autrice, che nella quarta di copertina però precisa come la medesima generazione finalmente sia "pronta a parlare!", scritto proprio così, con il punto esclamativo, assai utilizzato in Austria anche dalla pubblica amministrazione. Ogni volta che ne vedo uno, a dirla tutta, mi viene l'ansia.

Stavolta, invece, auspico davvero che la personale biografia di questa giovane donna non sia un "Ausnahme", un'eccezione, come è scritto sempre nella quarta. 

A mio modesto avviso, di generazioni perdute ce ne sono state già troppe, a partire dalla mia, la mitica nata tra i Seventies e gli Eighties, come sostenne un po' di anni fa un illustre ex premier italiano.

Rimanendo nell'ambito della politica, segnali confortanti, almeno qui in Austria, si vedono in Alma Zadic, la ministra della Giustizia del secondo governo Kurz, nata in Bosnia, come Melisa, nel 1984.
Anche di lei la giornalista parla come di un'eccezione, dotata com'era di un talento straordinario per gli studi e lo sport.

D'accordo, due eccezioni non fanno la regola, però aiutano. 
La terza, per me destinata a confermarla, è l'apparizione della giornalista in un calendario dell'Avvento interattivo, dove anima una delle 24 finestrelle, insieme con altri Vip austriaci. 
Il suo volto, per la precisione, è comparso il 6 dicembre, il giorno di Nikolaus, il vescovo barbuto che nelle terre teutoniche lascia frutta e dolci nelle scarpe dei piccini. In sintesi: un giorno importante per i nativi di sangue bianco rosso, come i colori della bandiera nazionale.

Non casualmente, Melisa consiglia tre libri, il primo dedicato al tedesco, il Deutsch, che lei parla e scrive meglio della sua lingua madre. Lo afferma nel libro, ma lo si intuisce sentendo a quale velocità lo parla.

Grazie alla sua competenza linguistica, rivela peraltro, non di rado ha aiutato i genitori con documenti e burocrazia varia (un vero incubo per tutti gli Ausländer, ve l'assicuro).
E dire che a suo padre non sembrava poi così importante che continuasse a studiare: per lui era essenziale che invece si rendesse autonoma prima possibile.

Considerando l'età che ha e dove si trova, direi che, beh, in fondo non ha affatto tradito le aspettative del papà

Un giorno, ne sono certa, si chiariranno. Suo padre, in particolare, capirà che cosa fa la figlia e ne sarà orgoglioso.
Quando succederà, quel legame interrotto tra generazioni, l'una radicata per forza di cose più nel passato, l'altra proiettata con energia da vendere nel futuro, porterà frutti ancora più abbondanti. 

Un augurio simile lo estendo a tutti i nuovi austriaci, giovani e meno giovani. 
Le generazioni perdute hanno fatto il loro tempo.
Pensiamo adesso a quelle ritrovate. E andiamo avanti insieme. 

mercoledì 2 dicembre 2020

Un matrimonio riuscito


Non se n'era mai andato, ma è da qualche giorno che ne avverto la presenza nitidamente. 

Sto parlando del volto di mia madre, ma non solo di quello.

La vedo a figura intera, in alcune sue pose tipiche.

La sera dopo cena spesso la trovavo seduta in cucina nel suo modo bizzarro. Poggiava le ginocchia sulla sedia, sempre la stessa, dal lato dei fornelli, e i gomiti sulla tavola. A volte si teneva il mento tra le mani, altre volte sfogliava i giornali del mattino in quella posizione, come se volesse dominarli dall'alto con il suo busto, avvolta nella vestaglia, lunga e materna. 

La schiena la teneva piuttosto piatta, vagamente inarcata all'indentro, come quando si fanno certi esercizi di ginnastica. Nelle sere d'inverno, quella posa piaceva moltissimo a Sancio e Stino, i due gattoni di casa.

Non di rado se li ritrovava addosso, un peso enorme, tutto considerato, per il quale, chiamandomi a gran voce, rideva fingendo sconforto. 

Sono sicura di avere una foto in cui l'ho ritratta così, con quei due vitelli a pesarle sulla bella schiena di mamma.

Aveva anche un'altra postura stravagante, che poi le ho rubato. Seduta al solito posto, girava la sedia verso la televisione e, per guardarla, poggiava i piedi sulla sediolina impagliata della nonna. Per la precisione, di solito li infilava sul sostegno orizzontale delle piccole gambe di legno. Non sia mai che dovesse rilassarsi del tutto.  

La schiena, però, le si piegava un po' in avanti, soprattutto quando poggiava i gomiti sulle ginocchia e si teneva, stavolta sì, il mento tra le mani. A pensarci adesso, in quei momenti sembrava più vecchia di come fosse in realtà.

E d'altra parte, non ho mai ben capito perché, nonostante avesse sonno, amava restarsene lì in cucina fino a tardi, spesso fino a dopo mezzanotte, la porta della cucina accostata per trattenere ancora un po' il calore dei termosifoni ormai spenti e forse per non disturbare mio padre e, quando c'ero, anche me.

Dopo aver chiuso la tv in sala, prima di andare a letto passavo dalla cucina per salutarla, spesso le davo proprio il bacio della buonanotte, anche da grande.

Una volta, però, mi ha scioccato.

Mia nonna, sua madre, era morta da pochi giorni e lei era davvero a pezzi. 

Io ero appena uscita per sempre dal liceo: negli ultimi due anni avevo dormito spesso dalla nonna, via via che la sua salute si faceva più precaria. 

In genere andavo da lei volentieri: mi piaceva il latte bollente (mi pelavo proprio la lingua) con il Nesquik e i biscotti Atene Doria (sempre quelli) che la nonna mi faceva trovare tutte le mattine nel soggiorno, dopo aver lasciato la tazza sulla stufa a gas, per tenermela meglio in caldo.

Ricordo il tratto in macchina che separava il nostro appartamento dalla sua grande casa. Partivamo dopo cena, mentre guidava la mamma mi dava spesso una breve carezza sul ginocchio sinistro, quello più vicino al cambio. Poi arrivavo dalla nonna e aprivo io con le chiavi: lei mi salutava dal letto, gli occhiali sulla punta del grande naso. 

Tutto questo, dicevo, un giorno d'estate è finito e forse me ne sento ancora un po' in colpa. 

Gli esami si avvicinavano e io avevo bisogno di concentrarmi. Ho espresso questo mio desiderio probabilmente a entrambi i genitori, con la mia proverbiale veemenza. Oppure, chissà, quella volta la veemenza ce l'ha messa mio padre, sempre così pronto a farsi in quattro per le sue bambine.

Come sia andata, insomma, non lo ricordo più. So solo che quello è stato uno dei rari casi in cui ho visto mio padre alzare la voce con mia madre. Pareva proprio l'avvocato della pubblica accusa durante l'arringa finale, la mamma la controparte messa rabbiosamente nell'angolo.

La nonna, però, stava male davvero e, a posteriori, capisco quanto mia madre, sua figlia, dovesse essere preoccupata. Come posso lasciarla da sola?, si sarà detta, Chi veglierà su di lei durante la notte? Alla fine la scelta è ricaduta su mia sorella, tornata da Roma, dove frequentava l'università, non so bene se richiamata apposta o perché in pausa tra un esame e l'altro. 

Proprio a mia sorella è toccato effettivamente soccorrere la nonna nei drammatici momenti finali. Quattro giorni dopo il mio esame orale, ci ha lasciato. Eravamo annichiliti. Il voto finale, per me, alla fine, non è contato più nulla.

Molto più importante, era invece riuscire a trovare un modo per stare vicino alla mamma, affranta come mai l'avevo vista.

Non potevo sopportare che soffrisse, è stato così anche molti anni dopo, quando si è ammalata. Solo in un'altra circostanza, qualche tempo prima, l'avevo trovata distesa sul divano della sala, senza forze. Chissà se aveva l'influenza o se era solo un ciclo particolarmente doloroso, fatto sta che io ero nel panico. 

Ricordo di averla quasi sgridata: "Dai, su, alzati!", penso di averle detto e lei mi ha sorriso debolmente e mi ha risposto, qualcosa del tipo: "Sì, sì, domani sto meglio". Chissà se lo pensava davvero o se voleva solo rassicurarmi.

Stavolta la sua infelicità aveva un'origine diversa, non sapevo proprio come maneggiarla. Gli strepiti non sarebbero serviti e nemmeno altre lacrime.

Però una sera sono entrata comunque in cucina per il solito saluto della buonanotte. La mamma non piangeva più. Seduta davanti alla tv con i piedi sulla seggiolina, aveva la fronte corrugata di chi già da minuti stava rimuginando su un pensiero preciso e sgradevole. 

Con una certa cautela mi sono avvicinata a lei, l'ho abbracciata e discretamente l'ho baciata sulla guancia magra.

Stavo quasi per allontanarmi quando l'ho sentita dire: "Voglio il divorzio".

Rammento di essere rimasta lì accanto a lei qualche istante, atterrita. Ma come? Ma perché? Papà aveva sbagliato, certo, o comunque non aveva capito la gravità della situazione, d'accordo, ma addirittura il divorzio. E io? E noi? Possibile che tutto dovesse finire così?

L'episodio mi è tornato in mente ieri, sentendo la rassegna stampa mattutina sulla radio, un'abitudine di famiglia ereditata dal nonno paterno che non ho mai più perso.

Fino a poco tempo fa anche mio padre la ascoltava sempre, non di rado a un volume piuttosto alto, negli anni più recenti, da suo lettone di vedovo. 

La mamma no, la mamma guardava la televisione, non rammento di averla mai vista armeggiare con manopole e frequenze. Se fosse stata ancora tra noi, forse avrebbe visto in tv qualche servizio sui cinquant'anni dalla legge sul divorzio, l'anno in cui era incinta di me.

Chissà che cosa ne pensava ai tempi, chissà che cosa ha votato, quattro anni dopo, al referendum. 

Di nostro padre parlava di tanto in tanto come di un uomo bravo, intelligente e serio, lodandolo particolarmente per le sue qualità di padre. "Quello che dite voi, per vostro padre, è legge", asseriva. Di solito tirava fuori questo discorso mentre era impegnata in qualche attività domestica, nello specifico mentre spazzava, ed io, a volte vagamente annoiata, ma in verità registrando ogni sua parola, l'ascoltavo dal piccolo divano dello studio, con un libro in grembo.  

A sentirla parlare, insomma, il suo era un matrimonio riuscito, anche se ripetutamente a me e mia sorella ha detto che il vero collante che tiene in piedi qualsiasi unione, all'epoca sua come ai tempi in cui abbiamo messo famiglia noi figlie, è la donna.

Credo, sinceramente, che avesse ragione, anche se, almeno lei, ha lasciato che nostro padre gestisse i conti e altre attività storicamente considerate maschili, mentre lei, pur lavorando, ha voluto mantenere il controllo della casa e della nostra educazione affettiva. Per quella intellettiva, da un certo momento in poi, ci ha pensato invece papà, spinto dal grande desiderio di farci studiare, un'attività per la quale lui stesso era molto portato, come ribadiva sempre la mamma.

E dire che lei ha insegnato, aiutando a crescere generazioni di bambini, con una passione pura e vitale, che oserei definire violenta, in certi istanti. La mamma non amava le mezze misure, anche se all'esterno, soprattutto negli anni più maturi, fingeva una pacatezza per la quale spesso l'ho presa in giro.

Se non fosse stata così, così passionale e assoluta, intendo, non avrebbe detto mai quella frase, davanti a me diciannovenne, intontita e sognatrice com'ero.

A pensarci adesso, in queste ore in cui mi appare davanti con i gatti sulla schiena e gli occhi che le si chiudono dal sonno, sono contenta di aver vissuto quel momento. Quello squarcio di verità di donna offesa, ancora giovane, ancora forte e in grado di conquistare tutti, donne e uomini, con la sua bella figura e la sua autorevolezza.  

Chissà come hanno fatto pace, chissà se papà le ha chiesto scusa, chissà in che modo l'avrà fatto, considerando la sua dolce goffaggine di uomo poco abituato alle smancerie. 

In ogni caso sono rimasti insieme fino alla fine, ma temo che non sapremo mai quanto sia stata dura, per papà, vederla andarsene giorno dopo giorno.

Non ho mai pensato davvero che avrebbero divorziato, mai più, almeno, dopo quella volta. 

Non so che cosa avrei fatto né come sarebbe stata la mia vita se fossi stata figlia di genitori separati. So invece com'è stato essere una figlia amata, una figlia che ha fatto fatica a crescere e che oggi fa fatica ad invecchiare.

Sono però grata a tutti e due per come erano e come saranno per sempre, diversamente ansiosi, ugualmente pratici, leggeri, pesanti, attenti.

Grazie, mamma, per essere sempre con me, con noi. Ti aspetto presto, davanti a me, dentro di me. Intorno a me.

E tu, papà, resisti. Pure io lo farò. Per te e per me.