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mercoledì 2 luglio 2014

Un vuoto dopo l'altro, e l'Iva se ne va


E' fatta: la partita Iva è chiusa. Quando sono uscita dallo studio della commercialista, mi è venuto istintivo dirigermi verso il Passetto, simbolo della città di Ancona che conosco veramente poco.
Paradossalmente, la zona che mi è più nota del capoluogo regionale marchigiano è proprio quella intorno al monumento presumo di origine neoclassica.

Non ho fatto granché un affare a venire da queste parti, ormai lo posso dire senza infingimenti.
Il correttore automatico mi segna l'ultima parola della precedente frase come errore. Non la cambio, tanto, a che cosa mi serve saper scrivere?

Mi stoppo immediatamente, non ho intenzione di lagnarmi. Facevo solo della stupida ironia vagamente partenopea. A dirla tutta, sto pensando come al solito a Totò e al suo meraviglioso lamento arabeggiante nel personaggio di Le Mokò "io non ci volevo venireeeee", quando scopre di trovarsi nella casbah in gravi, comicissime, pesti. Ogni volta che vedo quella scena mi escono le lacrime, dalle risate.

E insomma. Non avevo scelta. Non avendo guadagnato granché lo scorso anno (quest'anno non ne parliamo proprio), non potevo di certo correre il rischio di farmi massacrare dal Fisco.

Ai tempi della chiusura della Voce delle Marche mi si diceva continuamente "si chiude una porta, si apre un portone". Era novembre 2007: sette anni dopo mi pare che si sia aperta una bella voragine.
So che il problema non riguarda solo me. La mia commercialista non sembrava particolarmente sorpresa davanti alla mia decisione: devo essere stata l'ultima di una lunga serie.

Mi trovo a sperimentare nuovamente quell' "e dopo?" che ho descritto in un raccontino che (mi pare) potete trovare nella pagina in alto, sul mio passato di pseudo-scrittrice.
Solo che adesso ho quasi 43 anni e temo seriamente che il dopo sia la caritas che immaginava mia madre, equivocando la parola che le avevo detto al telefono, ossia "carisap", una banca che oggi non esiste più.

Mio cognato italo-tedesco oggi se ne va da suo padre nella terra che gli ha dato i natali, ma da quel che ho capito saranno vacanze molto diverse. Inconsciamente spero quasi che ci spiani la strada.
Come ho detto a qualcuno, questi sono strani giorni: mi sento più lucida e confusa che mai.

Ho in testa tutti gli errori commessi e tutte le strade che non voglio (o posso) più percorrere, ma non riesco ancora a decidermi da dove cominciare. Da dove ricominciare.
Torno a vivere a Chieti? Provo a mandare curricula dove capita in regioni più dinamiche?
Organizzo altre presentazioni del libro? Compro una casetta e l'affitto? E poi come campo, però?

Sapete come ho reagito all'affollamento della mia testa? Andando al mare.
Mi sono incremata ben bene, ho preso il mio libro in inglese per sentirmi meno in colpa e via, lettino, occhiali da sole, cappello di paglia, tutto il pomeriggio.

E adesso, via, verso mio padre, che ha bisogno di me. Almeno a qualcuno sono utile.
Passerà, lo so. Passa sempre. Passa tutto, del resto.

venerdì 8 novembre 2013

L'antimarketing a scuola di marketing con Valentina Falcinelli e gli altri



Come volevasi dimostrare. Valentina Falcinelli mi pareva brava già sulla carta. E' brava anche dal vivo. Conosce bene la sua materia, sa molto probabilmente di marketing 1, 2 e pure 3.0, si mette la giacchetta fucsia come i colori del suo sito PennaMontata e parla pure in un buon italiano.
Non le ho sottoposto i miei esempi di tweet e di post per facebook, perché con il vino io non c'entro nulla. Però mi ha fatto molto sorridere quando ha mostrato a noi che l'ascoltavamo in un'aula un po' buia, ma secondo me accogliente, della facoltà di Economia di Ancona (nella foto, un dettaglio del cortile su cui si affacciavano penso quasi tutte le aule dell'università), la fanpage fb della Pasetti, un'azienda vinicola di Francavilla al Mare, praticamente casa mia, come una delle migliori in circolazione. Massaggiato l'orgoglio per le radici sudiste, ho avuto anche ulteriori conferme sulla necessità di tenere separate le attività di promozione da quelle intimistiche, volutamente anti-marketing.
Di questo aspetto hanno ulteriormente parlato i blogger che ho ascoltato nel pomeriggio, in un'aula ben più grande, anche se non so se magna.
Innanzitutto, con i blog personali non si mangia. Lo ha detto con particolare enfasi Paolo Campana di Bloggokin, un ragazzone con la maglietta di Tintin, che fa anche il grafico e l'illustratore. "Non mi leggevano neanche i parenti", ha specificato a un certo punto. Come lo capisco. "Facevamo la fame", ha rilanciato Simone Sbarbati, l'apparente rasta-blogger di Frizzifrizzi, a mio avviso più quadrato dell'amministratore delegato della Coca cola, oggi a capo di una mini e attivissima redazione, che si può permettere il lusso di restarsene separata dall'area pubblicità.
Molto interessante, poi, la biografia della salernitana oggi groupie torinese, Maria Chiara Montenera, ossia l'anima di thefishisonthetable, facciotta intelligente dietro occhiali neri, amante della buona scrittura e dei ristoranti, corteggiata anche dai giornali mainstream, dai quali però la medesima preferisce restare lontana.
Bravi e competenti anche Massimiliano Levi, che dalla finanza è passato alla comunicazione online dei notai, un mondo all'apparenza così lontano da like e tweet, e delle possibilità di fare impresa per i giovani dai 18 ai 35 anni con il sito larancia.org; e Nicoletta Battistoni, che proprio dalla tesi con cui si è laureata alla Giorgio Fuà ha partorito l'idea del blog saponetteverdi.com che fa le pulci alla comunicazione che si autodefinisce green, riuscendo a ottenere un sacco di visibilità in solo un anno.
Insomma: ho incontrato giovani in gamba, niente affatto depressi e/o schiacciati dalla crisi.
Per quanto possibile, cercherò di seguirli per fissarmi ancora di più la testa qualche strumento tecnico che potrei utilizzare anch'io.
Resta tuttavia una differenza ineludibile tra loro e me, che passa tutta dalla parola comunicazione.
A me hanno insegnato a fare informazione, anche se, naturalmente, quest'ultima è buona quando si trasforma un po' anche nella prima.
Il cittadino comune, per essere più chiari, capisce che cos'è la Trise se si riesce a raccontargliela come si farebbe al bar. Più o meno, ovviamente.
Per poter fare il botto (si fa per dire), insomma, forse dovrei smetterla di parlare di me e invece raccontare di trise-imu o dei prezzi del pane, come ne parlerei alle mie amiche di palestra o alla mia parrucchiera. Rendendo insomma questi argomenti friendly, semplici, dando un servizio a qualcun altro.
Voglio farlo? Non lo so. Oggi non è la giornata migliore per rispondere. Sono francamente un po' confusa.
Però va bene così: rimestando nell'ovvio, la crisi è anche un'opportunità.
Anche.

mercoledì 12 giugno 2013

Un'aliena a scuola di business... accidenti che esperienza!

Benché abiti a soli 40 chilometri di distanza, non conosco per niente Ancona. Non ho quasi mai bisogno di andarci e, se posso scegliere, vado a Pescara in treno, o al limite nei grossi centri, tutti raggiungibili con la ferrovia.
In famiglia c'è una sola auto, vecchia e ammaccata (da me). Da qualche anno ho cominciato a guidarla anch'io, ma da quando vivo nelle Marche, ossia dall'inizio del 2005, non è che mi sia mai servita granché. Eppure, in un paese come l'Italia, fatto in prevalenza di piccoli e piccolissimi comuni raggiungibili quasi tutti solo con il mezzo proprio, non avere la macchina significa condannarsi pressoché all'isolamento. Certo, oggi meno di un tempo, in cui si telelavora (o diciamolo) non si lavora affatto. Resta però comunque ancora vero che non si può dire di conoscere un posto se non lo si va a vedere con i propri occhi. Non si può dire di incidere più di tanto in una realtà, in un contesto sociale, se ogni tanto non ci si guarda in faccia.
Tutta questa premessa mi serve per commentare in qualche maniera l'esperienza vissuta negli scorsi due giorni alla Camera di commercio di Ancona, raggiunta, all'andata il primo giorno, in treno + autobus urbano, in auto il secondo giorno grazie all'incontro fortuito con un giovane uomo di Fermo che avevo conosciuto in tutt'altro contesto, ma in analoga intensa occasione formativa.
Che ci facevo lì, direte voi che sapete quanto sia a digiuno di marketing e business? Apposta per questi motivi, potrei rispondere a bruciapelo. In verità, non è andata proprio così. A spedirmi al corso sulla "Comunicazione a basso budget", titolo del workshop di due giorni condotto da Rita Bonucchi dell'omonima srl di Milano (benché, per mia fortuna, la signora in questione fosse una rotonda emiliana: non credo che sarei riuscita a sopportare parole come brand, cms, template, business plan, etc etc se fossero state pronunciate alla maniera anglo-lumbard), è stata la mia amica grafica Maria Loreta, che, molto opportunamente, ha pensato che potesse essermi utile. Direi meglio: esserci utile, visto che insieme abbiamo prodotto un libro che adesso andrà in qualche modo promosso e venduto.
Resta però sempre il fatto che ero quasi totalmente fuori contesto, ma andava benissimo così.
Ascoltare Rita Bonucchi per me è stato infatti  come farsi di una droga euforizzante, che però il giorno dopo ti lascia triturata e frullata (mashed, direbbe lei?) su un marciapiede di periferia.
Non solo non so niente di business plan e marketing, ma non so praticamente nulla del mondo delle imprese italiane, le molte, grandi e piccole, con cui questa piccola signora dagli occhi di pece ha lavorato negli ultimi (credo) venticinque anni. Delle due giornate di lezione con lei mi ha impressionato soprattutto quanto a fondo sia complesso il nostro Paese, provinciale e internazionale allo stesso tempo, pieno di talenti e di mediocri, di inventori e di sgobboni e poi di prodotti, tanti, tantissimi, che hanno permesso e permettono ancora (si spera a lungo), a generazioni di connazionali di sentirsi parte della vita attiva. Nonostante la crisi, nonostante la concorrenza schiacciante di nazioni più attrezzate della nostra, di economie più dinamiche, di orizzonti più aperti.
E adesso che me ne faccio di un corso così? Come posso applicarlo alla mia esperienza e alle mie esigenze del prossimo futuro? Partendo da quel che so già fare, direi. Ossia scrivere. Oltre a questo post, scrivere come vorrei lanciare il mio libro, a grandi linee, certo, ma con un po' di razionalità e di pragmatismo. Rita ci ha detto che la gente non compra prodotti e che il prodotto, in sé, non esiste. Credo che sia un principio base del marketing, ma a forza di sentirmi dire, dall'altra parte della barricata, quella dei giornalisti e/o scrittori, sempre più sballottata tra marosi titanicheggianti, che il giornale, il libro sono prodotti come il copri-water con le cerniere in plastica che ho comprato l'altro giorno per soddisfare il mio bisogno stralunato di bricolage (e per non rischiare di cadere a terra tutte le volte che ci sediamo sul trono malandato), ho smesso di ragionare come dovrebbe fare un qualsiasi accorto imprenditore, micro o gigante non importa, e cioè che prima del prodotto c'è l'idea, ossia c'è l'anima. Se manca quest'ultima, addio fatturato.
Perciò, d'accordo: sto ai margini, sono minima, la mia storia lo è altrettanto, ma è unica e voglio comunicarla perché sono convinta che possa interessare ad altri minimi come me, migliori di me.
Quindi, ok, mi butto. Ma non da una rupe.
Un atterraggio morbido è ancora possibile.
Oh yes!