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domenica 15 novembre 2015

Dedicato a Parigi e alla civiltà



Ci risiamo: bastardi terroristi uccidono nel cuore dell'Europa e sui social si scatenano dibbbbattiti sul fatto che siano o meno da condannare tutti i musulmani del mondo e se quella in corso è una guerra di civiltà.
Sulla seconda parte, lo dico apertamente, io la penso così: quella che si combatte - una guerra, senza se e senza ma - ha a che fare con la cultura e la convivenza democratica e civile tra gli umani, ma la religione, almeno per me, è un elemento di sfondo.

Aggiungo, a scanso di equivoci, che io non sono credente e che ogni volta che vedo il pur degno papa Francesco nei tiggì, penso che sarebbe l'ora di finirla con il confessionalismo da bar che ormai ha catturato tutti i media. Se proprio mi dovete fare vedere l'Angelus, allora informatemi pure su che cosa hanno predicato il Rabbino, l'Imam e il Dalai Lama. O anche no: lasciate che le prediche vengano ai fedeli nelle rispettive chiese.
Detto ciò, veniamo a Parigi e alla bandiera tricolore bianca, blu e rossa che pure io ho scelto, temporaneamente, di piazzare sulla foto del mio profilo.

Qualche mio contatto la pensa diversamente e sostiene che allora dovremmo mettere la bandiera di Beirut (Libano), ma, a questo punto chioso io, pure curda e pure armena, tanto per citare alcune delle tanti stragi passate e presenti che la storia ci dispensa copiosamente.

So benissimo che si tratta di emozioni del momento e che, ahimè, di tragedie di come quella di venerdì sera ce ne potrebbero essere ancora molte.
Però, amici, Parigi è Parigi e per la maggior parte dei cittadini europei sopra i quarant'anni almeno, ma pure di vari giovani italiani che a Parigi continuano ad andare a vivere, è un luogo unico, forse uno dei pochi nel mondo nel quale, forse con un po' di ingenuità provinciale, molti di noi pensano che ci siano ancora spiragli di crescita culturale e professionale.

Aggiungo un'altra nota, piuttosto triste.
La sera di venerdì, con mia sorella, dopo anni che non passavamo insieme un po' di tempo sole lei ed io (e nostro padre), avevamo appena finito di vedere Crozza. Dovete sapere che io fino allo scorso anno non mi ero mai filata "Nel paese delle meraviglie": da quando ho scoperto che piace ai miei nipoti, cuore di zia, ho cominciato a seguirlo. Lo aspetto, anzi, con piacere, sperando di alleggerirmi un po' l'animo (ma come mi sono ridotta).

Avevamo appena spento la tv, ma Linda (mia sorella) mi ha chiesto di riaccendere: "Dai, vediamo se c'è qualcos'altro". Crozza aveva invitato a guardare Mentana, quello vero, e, in effetti, Mentana era lì, abbastanza crozziano, ma, ahimè, con cose da comunicare nient'affatto divertenti.

Siamo rimaste attonite, letteralmente, davanti alle immagini dello stadio pieno di gente immobile. 
Da lì, almeno io, ho cominciato a compulsare freneticamente Twitter, mentre cambiavo canale alla ricerca anche di altre voci. Le prime cronache erano, ovviamente, imprecise e, direi, tutte molto caute e serie.

Perché, come ha scritto qualcuno dopo, stavolta siamo stati colpiti noi cittadini comuni.
Scusate se mi permetto di parlare di nuovo della mia povera vita: la tristezza personale è stata amplificata ancora di più dal fatto di non poter esserci anche io, in uno qualunque di quei tg o di qualche giornale, a seguire e a scrivere con gli altri. Perché l'unico contributo che può dare un giornalista, in momenti come questi, è lavorare a un prodotto collettivo che aiuti chi non fa questo di mestiere a capire che diavolo ci sta succedendo.

Perciò oggi scrivo giusto queste righe. Voglio darvi il mio modestissimo contributo da qui, da blogger quasi ex giornalista, che spera, ancora nella civiltà e nel bene pubblico.

La canzone che linko sopra era in una colonna sonora di Mark Knopfler: ho appena letto di che cosa parla il testo. Parla di ragazzi e ragazze alle soglie della maturità. L'ho scelta perché è affiorata spontaneamente alla mia memoria insieme con una delle sigle di Maigret (Le mal de Paris) interpretato da Gino Cervi, che immagino sarebbe stato assai affranto se fosse vissuto oggi.

La dedico alle vittime del Bataclan, in massima parte ragazze e ragazzi che volevano solo passare una serata insieme a sentire musica che io presumo orribile.
La dedico pure alle ragazze e ai ragazzi che scelgano, alla fine, di non farsi esplodere, pur sentendosi fragili e disperati.

La dedico, infine, alle vittime più adulte di ogni colore e ogni nazionalità, scusandomi se non metto le bandiere delle loro terre ogni volta che qualche bastardo (e purtroppo bastarda) tecnologizzato, ma per me con l'anello al naso, infila una cintura esplosiva o usa un kalashnikov ammazzandoci tutti ogni giorno di più.

Finisco con la cronaca da Parigi da Facebook di un mio conoscente, un fotografo di Fermo che si chiama Marco Illuminati, che sembra quasi che si sia sentito in colpa per essere riuscito a mettersi in salvo.
Non credo che il suo racconto abbia bisogno di ulteriori parole: giudicatelo voi che sapete tutto su islamici e non islamici. Però, per cortesia, non fatemelo sapere.

Non riesco e non voglio uscire dal letto. Ci sono entrato alle 3h17, intero, cosciente, e scosso. Cerco di rompere questo surreale isolamento domestico nel quale siamo chiusi.
Stavo mangiando una pizza ad Acqua e Farina a pochi metri da La Belle Equipe. Eravamo dentro, ho sentito dei botti molto forti, tutti li hanno sentiti. Qualcuno si è affacciato, continuavano i botti. Vedevo qualcuno sulla strada, ci domandavamo se fossero petardi, tutti se lo domandavano. Tra la paura e lo stupore, nessuno osava fare altro che porsi delle domande. Dopo diverse raffiche e colpi singoli, un odore di polvere da sparo. Abbiamo pensato fosse la conferma che si trattasse di fuochi artificiali, non sapevo che le armi da fuoco potessero avere questo fortissimo odore. Poi di seguito, un auto nera si ferma di fronte alla brasserie colpita con le quattro frecce e riparte, gli asiatici dell’emporio di fronte capiscono per primi cosa è accaduto (forse la guerra l’hanno vista) e chiudono per primi la serranda, esco, mi avvicino, con la certezza crescente che non si trattava di una festa a sorpresa. Vedo altri ragazzi nascosti dietro una campana del vetro, due tornano, gridando « sono tutti morti ». Da questo momento, la vista si fa opaca. Mi ricordo solo dei dettagli, mi ricordo una sedia spaccata dai colpi, il legno era spaccato, non forato, credo le armi pesanti facciano questo. Poi il sangue, e poi la terrazza, a fianco del giapponese. La terrazza come un contenitore di corpi, ammucchiati, tra i tavoli e i vetri. La carne macellata era ancora fumante, c’era quel silenzio di morte che si immagina tra il trauma e la reazione, come quel tempo sospeso tra la caduta di un bambino e il suo pianto. Poi una ragazza con i pantaloni neri e la scarpa con il tacco, con la gamba forata sul tavolo, forse con qualcuno che la stringeva, comincia a gridare, e si rompe il silenzio, o forse comincio a sentire. Mi ricordo un uomo a petto nudo che urlava, mi ricordo un ragazzo che filmava e un altro che lo attaccava gridando. Mi ricordo un lavoratore del locale, forse un cuoco sulla porta, immobile, sotto shock. Mi ricordo un ragazzo con la testa sull’unico tavolo in piedi, con un occhio di fuori e lo spot luminoso ancora puntato sul tavolo come in un teatrino dell’orrido. Mi ricordo le luci spente, i vetri rotti, mucchi di ragazzi ben vestiti. Cercavo di ripetermi che erano persone vere. Poi improvvisamente non mi sono più sentito al sicuro, sono scappato, senza aiutare nessuno e senza pensare. Ho corso, sono rientrato all’ Acqua e Farina e ho avuto una fitta allo stomaco. Siamo scappati nella casa di un’amica, fino a quando non siamo riusciti a rientrare. 
A questo aggiungo solo poche considerazioni a caldo. La scena di quella carneficina era uguale a quella che ci capita spesso di vedere nei media quasi quotidianamente dopo un attentato: stessa architettura dei corpi, stesso odore, stesso ambiente di morte. Però questa volta sono vestiti come me. Questo cambia tutto. Il nostro immaginario non si riconosce in queste scene, e il décalage è forte. Non hanno tuniche, non hanno barbe, non gridano in arabo. Sono vestiti come te, hanno la tua età, ti somigliano. Era quello che volevano i terroristi, colpire l’intimità di ognuno, creare immedesimazione. 
Non ho aiutato nessuno, e mi domando perché. Come si fa ad aiutare un cumulo di persone? Puoi aiutarne uno, una persona ferita, mi è capitato più volte. Ma come si fa quando sono tanti? Non sapevo dove mettere le mani, e me ne sono andato, come quando spegni la televisione. 
Penso a chi vive quotidianamente questa situazione, penso alle innumerevoli persone che sono in Francia immigrate che hanno già vissuto queste situazioni. E penso a noi, figli della « belle époque » del « non ci riguarda » o ci riguarda ma in fondo…. 
Per la nostra generazione europea è la prima volta che la guerra entra nelle nostre case, nei nostri occhi, sulle nostre strade in maniera così eclatante e pesante. Non si tratta di una bomba, né della distruzione di un obiettivo sensibile. A fare questa strage sono ragazzi della tua età armati che si mettono di fronte a te per ucciderti, faccia a faccia a pochi metri, per ucciderti, per distruggere la tua illusione di benessere, per strapparti la convinzione che in fondo capita sempre ad altri. 
Lo straniamento è un processo di autodifesa, cerco di restare presente a me stesso.