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martedì 16 luglio 2019

Vienna e le malinconie di mezza (età) estate

Il mio vecchio computer ci mette talmente tanto ad accendersi da spingermi quasi a desistere. Anche perché sono reduce da un'ennesima giornata a scribacchiare inezie per guadagnarmi la pagnotta. 
Mi accorgo di essere partita subito male. Non ho alcuna intenzione di lamentarmi. 
Volevo parlarvi della settimana enigmistica.
Ho cominciato a ricomprarla in occasione dei miei lunghi viaggi dall'Italia.
Non riuscendo a completarla nelle quattordici ore di treno (perché almeno una piccola parte la passo a dormire), poi il solitario numero rimane in bagno, con la penna infilzata sulla pagina, a farmi compagnia per diversi giorni. Settimane. 

Mi sono appena rassegnata a buttare la copia di fine maggio: non sono riuscita a finire un crittografato, di quelli con le frasi celebri. C'entrava Carlo V, ma ho sbagliato una sequenza di lettere, per cui, via, cestinato insieme con un femminile preso sempre nel medesimo viaggio di ritorno in terra asburgica.

Dopodomani torniamo in Italia, il bipede non lo fa da un pezzo. 
Sono giorni che carico questo avvenimento di molti significati. Inevitabile, vista la vicinanza del mio compleanno.

Dopo un giugno di un caldo qui giudicato epocale, da una settimana è tornato il fresco continentale. E il vento viennese.

Sono molto stanca, quindi poco lucida.
Però oggi, tornando dal lavoro, ho riavvertito il senso di estraneità per questi luoghi che purtroppo fatica a passare. Immagino capiti alla maggioranza degli espatriati, ma mi accorgo di quanto sia difficile farlo capire a chi transita in questa indubitabilmente bella città solo per qualche giorno.

E dire che adesso sono meno preoccupata di prima di esprimermi male in questa lingua dura. Se serve lo faccio, l'ho fatto a dire il vero da subito, ma non ho la pazienza necessaria che ci vuole per apprenderla.

Vorrei più risultati, in ogni campo.
Sono stanca di attendere una serenità che fatica ad arrivare.
Emigrare da adulti è complicato. 

Ma sono stanca, come dicevo, e conviene intanto partire. Un giorno alla volta, attaccandosi a quel presente di cui parlo spesso.
Se serve, meglio stordirsi un po' per perdonarsi gli sbagli e le mancanze.

Un'altra abitudine di questo primo anno di viaggi infiniti, è l'acquisto di qualche Diabolik nella stazione di Bologna. 
Quelli, di solito, li finisco in treno, però. Adesso che ci penso, potrei provare a rileggerli, ma non mi farebbero lo stesso effetto.

Cerco strategie di mantenimento, in tutti i campi, dal fisico che via via si stagiona, allo spirito, lunatico come al solito.

Che effetto mi farà rivedere casa mia? E quella dei miei genitori? E mio padre, i miei amici?
Ce la farò a tornare su più carica?

Guardo le nuvole mobili. I picchi sono andati già a dormire, fino a poco fa li vedevo decollare dagli alberi di fronte. Su un balcone svettano da un grande vaso dei girasoli. Sono giorni che li osservo, sono bellissimi.
Nel giardino dei proprietari c'è una rosa gialla, l'unica, più alta e superba accanto alle altre vermiglie. 
Ogni tanto spuntano un paio di bambini piccoli nel giardino confinante con il culetto in vista. Una volta i loro genitori giocavano con le racchette a quel gioco che credo si chiami volano. Mi sembrava la scena di un film, di quelli inglesi con i colori pastello.

E poi mi è venuto da ascoltare Arbore e la sua orchestra italiana.
Mai stata una particolare fan della musica napoletana, ma la nostalgia gioca strani scherzi. E comunque mi ha tirato su.

Il Bipede poi mi ha passato sul telefono un po' di dischi dei Police.
Ieri ho riascoltato "Synchronicity" mentre correvamo. Credo di avere imparato i testi a casa di mia nonna o forse ce l'avevamo anche io e mia sorella.
Anni Ottanta, mio zio ancora giovane, Phil Collins e la sua batteria.
La cameretta con il letto singolo, i mobili di legno pesanti della sala, la vetrinetta con le foto in bianco e nero del matrimonio. La vecchiaia povera ma dignitosa, gli occhi azzurri vispi e il naso di famiglia, il loro e il mio.

Poi mi compare mia mamma in sogno, ma anche nello specchio, nelle foto che mi scatta il Bipede o che mi scatto da sola. Sento la sua voce e vorrei che i legami più forti non si spezzassero mai. E forse davvero non si spezzano, se poi, ripensandoci, li senti ancora qui con te, a così tanti chilometri di distanza, e oltre ogni distacco.

Il freddo improvviso ha trattenuto ancora un po' le rondini. Giù da noi, almeno mi pare, vanno via prima.
Le vedo sotto le nuvole mobili, pian piano taceranno anche loro per la notte.

Tra poco si accenderanno le luci del palazzo di fronte. I giovani omosessuali, presumo una coppia, che fumano spesso nudi alla finestra, in questi giorni non ci sono. A volte mi verrebbe voglia di salutarli con il braccio, ma poi mi vergogno un po', anche per loro, sfrontati come io non sono mai stata.

Ecco, mi sento meglio. Stanca, sfinita e perplessa come prima, ma meglio.

Vi lascio con il mio vecchio avvocato, rivisto ieri con molta tenerezza e sincero affetto. Osservavo la sua pancia e il suo look stazzonato e sorridevo. Mi ha interrotto la telefonata del mio giovane collega, adorabile quanto inopportuno. Ma meno male che c'è, glielo ripeterò sempre. A lui auguro di mantenersi il più a lungo possibile così, vitale, inquieto e superficiale quanto basta per non soffrire mai troppo.

A voi, grazie. E a presto.











domenica 7 luglio 2019

Mark Knopfler e i buchi del cuore



Ascoltavo "My heart full of holes" mentre stavo andando a intervistare un architetto di Fermo.
Ai tempi lavoravo per il settimanale diocesano con cui era cominciata la mia avventura in terra marchigiana. La crisi era già in atto e io ricordo perfettamente quanto mi sentissi, già allora, il cuore pieno di buchi.

Lo studio di quell'architetto aveva un ingresso improbabile, vagamente neoclassico. Ci sono ripassata varie volte davanti negli anni successivi e tutte le volte mi è tornata in mente quella prima volta. Mi sono sempre chiesta come diavolo fosse venuto in mente, al tipo, di adornarlo così. Mi capita spesso di fissarmi su dettagli che non saprei se definire insensati o salva-vita, nei momenti per così dire più drammatici.

Dopo la scossa di terremoto, ci siamo ritrovati tutti fuori, mamma papà e intero condominio. Ho scambiato uno sguardo con mia sorella: dovevamo essere conciate in maniera bislacca. Abbiamo ridacchiato, forse vergognandoci anche un po', visto il panico generale.

Ai tempi non credo che il mio cuore fosse pieno di buchi. Quelli li senti più avanti, non so bene a partire da quale età. 

Alla fine, un pochino te ne compiaci pure, appena appena eh, perché quando li senti ti illudi di averci capito qualcosa, della vita.

Mi piace però sapere di aver nutrito da sempre un certo senso di disincanto. Altrimenti non avrei riso con mia sorella anche a quell'età.

Per questo, forse, mi piace così tanto, a distanza di tanti anni, la musica di Mark Knopfler. 
Invecchiando (ma forse anche prima con i Dire Straits), i suoi testi hanno parlato spesso di figure variamente piegate dalla vita, dalla poetessa Beryl Bainbridge del penultimo album al tipo con il cuore pieno di buchi. La musica, però, è rimasta sempre piena di energia vitale, anche nelle ballate più intime, come in I am a slow learner dell'ultimo album.

Prima di tornare a vederlo, la scorsa settimana, qui a Vienna, sapevo dalla scaletta che l'avrebbe cantata. 
Allora l'ho riascoltata e mi è tornato in mente l'architetto.

Volevo predispormi alla nostalgia, forse. Causarmi "uno stato di esaltazione" romantico e decadente, come dice l'algida Ninotchka a Leone, quando lui la corteggia (con successo). E invece è saltata fuori l'ironia. Sì, è più forte di me.

In tutti i modi, la versione di "Heart full of holes" del concerto di quest'anno è bellissima. E per un attimo, mentre l'ascoltavo dal vivo, mi sono quasi commossa.

Con questa tournée, Knopfler ha deciso di dare l'addio ai live. 
L'ha ripetuto in ogni tappa: nel video di sopra è a Milano. "E' la vita", dice a un certo punto in italiano. 

Che tristezza, direte. Eppure no, non lo è. 
Bisogna saper voltare pagina. E poi ci sono i ricordi, quelli non te li toglie nessuno. 

A distanza di tempo, anche i momenti più oscuri lasciano tracce di colore. 
Non è stato bello il periodo finale di lavoro al giornale diocesano, proprio per niente. Però mi è rimasto il sapore di quel tardo autunno a Fermo, l'aria pulita, la poca luce, gli sguardi dei miei ex colleghi e le risate degli anni precedenti. 

Invecchiando, si mescolano le esperienze e le stagioni dell'anno con i loro profumi diversi. 
Vanno lì a riempire quei buchi, anche solo per qualche istante, mentre lavi i piatti o scrivi il prezzo del polpo surgelato.

Alla fine sei felice di avere qualche buco, vorresti solo trattenere quel ricordo un pochino di più, lasciartene intenerire fino alle lacrime. 
Poi però ti riscuoti e ti ributti nel presente. Ein bisschien anstrengend, manchmal, ma mica tanto.

Un attimo dopo mi soffermo a soppesare mentalmente l'insensatezza del gesto di qualcuno intorno a me. E ridacchio, aspettando il momento in cui ne parlerò al Bipede.

A proposito di ironia, a dirla tutta, il grande Mark è stato molto più brillante a Milano di quanto non lo sia stato a Vienna. 
Si vedeva proprio che gli piace l'italiano, il suono della nostra bellissima lingua.
A Vienna, invece, nichts, manco una parola auf Deutsch. E dire che l'hanno acclamato a gran voce (ma con quei suoni gutturali non funziona, spiacente per voi). 

Ovviamente il concerto è stato "super" (come dicono sempre qua) e io sono certa che anche questo sarà un ricordo destinato a riaffiorare all'improvviso, al prossimo giro di vita, chissà da dove.

Grazie, Mark, a nome dei buchi del cuore di tutti noi.