Ho ascoltato questa canzone forse quattro o cinque volte quasi un anno fa, intorno alle undici e quaranta o poco più. Come faccio a ricordarlo così precisamente (e pedantemente)?
Impossibile dimenticarlo.
Era domenica 7 aprile, stavo per concludere la mia prima mezza maratona, qui a Vienna. Prima e unica, al momento, a dirla meglio.
Era domenica 7 aprile, stavo per concludere la mia prima mezza maratona, qui a Vienna. Prima e unica, al momento, a dirla meglio.
Quel giorno felice oggi mi pare lontanissimo, eppure la consapevolezza di aver vissuto un'esperienza davvero esaltante mi accompagna ancora, nonostante tutto.
Con me c'erano anche il Bipede e Michela, una mia amica di Fermo amante della corsa molto più di me. Nei giorni in cui è stata qui ha corso con lui almeno un paio di volte: con me, invece, solo una passeggiata alla vigilia della gara. Niente invidia da parte mia, giuro. Semmai molta contentezza per il sodalizio che si era creato tra loro, un po' come ci capitava da bambini quando ci si metteva a giocare con un amichetto nuovo.
Mi faceva piacere che si fossero trovati così bene anche perché avevamo cominciato a sgambettare nello stesso periodo: giusto ieri ho rivisto una bella foto di gruppo, in cui c'eravamo noi tre con altri amici, al termine di una dieci chilometri di fine primavera, tra oleandri in fiore e profumo di mare.
Insomma, voglio ribadirlo: chi ama la corsa, ma direi lo sport in generale, lo sa. Tra chi pratica insieme un'attività fisica si crea una complicità inesprimibile a parole. Contano di più gli sguardi che ci si lancia mentre ci si sforza di dissimulare la fatica, le lingue di fuori quando si sta per cedere e i sorrisi, i larghi sorrisi, che affiorano sui volti una volta concluso l'allenamento.
Tutto questo succede, poi, anche se si corre da soli e ci si ritrova solo alla fine, a confrontare tempi e sensazioni.
Inutile nasconderselo: c'è anche un po' di competizione e si vorrebbe sempre strappare quel metro in più tra noi e chi ci precede.
Ma l'anno scorso, alla mia finora unica mezza maratona della vita, ho dovuto competere innanzitutto con me stessa e con la paura, eh sì, autentica paura, di non farcela.
Per vincerla, mi ero portata anche denaro, chiavi di casa e soprattutto un prezioso biglietto della metropolitana, nel caso malaugurato in cui non me la fossi proprio sentita di andare avanti.
Pochi metri dopo la partenza, tra l'altro, mi sono ritrovata da sola, senza il supporto del Bipede che ha preso la volata, saltando sull'altro lato della strada a quattro corsie facendomi ciao ciao con la mano.
Michela era più avanti, pensando che ci fosse una gabbia per quelli che facevano la competitiva. Invece no: c'era talmente tanta gente, che gli organizzatori hanno semplicemente fatto partire prima i maratoneti e poi noi, esercito di mezzi maratoneti di ogni età e taglia. Ricordo il freddo prima dello start, i balletti organizzati per farci scaldare, i look diversi, e i sorrisi, molti sorrisi.
Non so come ci sono riuscita, ma per un bel tratto ricordo di non aver voluto ascoltare la musica: desideravo concentrarmi sul mio respiro e volevo anche guardarmi intorno, cercando, forse, la solidarietà di qualche sconosciuto o sconosciuta.
Ho percorso lunghi tratti di città che non avevo mai visto, fino a ritrovarmi all'improvviso davanti al palazzo di Karlsplatz in cui c'è l'ambasciata indiana, dove ho passato svariati brandelli di pomeriggio a fare yoga con una donna, che è un'autentica bellezza, esteriore e interiore.
A lei avevo chiesto consigli su come prepararmi alla gara nelle settimane precedenti: sono sicura che mi abbia davvero aiutato, in molti modi. Solo tempo dopo ho scoperto che in quello stesso palazzo c'è la "Julius Meinl Bank", dedicata al piccolo folletto portafortuna che appare sulla facciata di un palazzo del Graben.
La mia felicità ha raggiunto però il picco poco dopo, quando mi sono ritrovata davanti al palazzo della Secessione, meta dei nostri giri di allenamento delle settimane precedenti.
Lì mi sono fermata a scattarmi una foto, convinta, anche di essere ormai a buon punto. Credo fosse il quindicesimo chilometro.
Appena ripartita ho capito che la musica mi sarebbe stata davvero indispensabile.
Fiato ne avevo ancora abbastanza, erano le gambe che cominciavano un po' a scricchiolare. In più dovevo fare pipì già da un pezzo, per cui, pur continuando ad andare, cercavo di adocchiare bagni a portata di percorso.
Eccone uno, mi dico. Mi fermo dietro a una donna, e insieme faccio stretching. Un minuto, due minuti: niente, non esce nessuno. Che faccio? Aspetto ancora, non aspetto?
L'istinto mi dice di andare. E così vado e vado, gli auricolari ben piantati nelle orecchie, con la musica di Frank Stallone (il fratello di Sylvester, ebbene sì) che va. Da un banco afferro una mezza banana, ma mi limito solo a succhiarla leggermente, temendo effetti nefasti per l'intestino nel caso avessi ceduto alla tentazione di mangiarla.
Ormai siamo intorno al diciottesimo chilometro: dai, manca poco, mi dico. Ahiaia, il disco è finito. Se mi fermo per sceglierne un altro, non riparto. Armeggio con il tastino dell'auricolare e tac, riparte l'ultimo brano. Sì, proprio quello che potete ascoltare sopra.
Tonight, tonight, you feel so right, canticchio. Dirà così? E chi lo sa? Mentre si ripete, mi trovo in cima a una discesa, credo sia la Mariahilfer Strasse, ma sì, è lei. In fondo, che cosa c'è? Una enorme freccia luminosa che separa il percorso dei maratoneti da quelli a metà. Imbocco la strada giusta e procedo.
Ormai è fatta, dai, quanto potrà mancare? E intanto Stallone va.
No! C'è una curva! Guarda là quanto manca ancora! Non ce la posso fare, non ce la posso fare. Sulla corsia alla mia destra vedo sfrecciare i maratoneti: sì, ho detto proprio sfrecciare. A grandi falcate, eccoli là, belli freschi a guadagnarsi un buon piazzamento.
No, no, non esiste. Cedo. Eh sì: mi fermo e cammino, tenendomi bene a destra per non bloccare gli altri. Con la banana in mano, cammino e scuoto la testa. Ma dentro di me scatta qualcosa, non so bene cosa.
Fatto sta che alzo lo sguardo e vedo che all'arrivo mancano davvero cinquecento metri. Mi rimetto a correre. La musica non serve più.
Alzo lo sguardo sull'orologio: segna qualcosa come le 11 e 39. DEVO riuscire ad arrivare entro i 40. DEVO riuscire a farlo. Vai, vai, vai... vai!
Ce l'ho fatta!
Nei minuti successivi praticamente non riuscivo a muovermi, ma la banana me la sono magnata eccome.
Chiamo il Bipede facendolo anche sentire in colpa per avermi abbandonata subito al mio destino, litighiamo un po' per questo, ma dopo, solo dopo, quando ho recuperato le forze e ci siamo ritrovati con Michela, beh.
La foto che riporto sotto dice tutto.
Dedico questo post a tutti noi, amici cari, perché possiamo presto tornare a solcare le strade, di corsa, a piedi, da soli, in compagnia, con la testa per aria, le mani in tasca, le cuffie in testa, fischiettando, sbadigliando, ridendo, ma pure smadonnando contro la macchina che ci rovescia addosso la pozzanghera.
Comunque liberi di muoverci, felici di andare da qualche parte, per ritrovarci e ricominciare daccapo.
Una volta ancora.