lunedì 19 ottobre 2015

#concorsonerai, fuori dagli eletti. Con onore



Vi assicuro, non sono depressa. Incazzata, forse, un pochino sì. Di tutto mi rode di più questa cosa: non essere riuscita a entrare nel gruppo dei 100 giornalisti professionisti che varcheranno i tornelli di Saxa Rubra (e di svariate sedi regionali Rai a partire da Aosta, Cosenza, Campobasso e qualche altra che non ricordo) mi costringerà a fare come sempre. E cioè, mai una cena fuori, pochi film al cinema, pochissimi acquisti (alla crema antirughe, però, non posso rinunciare e nemmeno alla palestra: il crollo è dietro l'angolo e le delusioni di certo non aiutano).

Minchia che vita sfigata. Fortuna che abito sul mare e che, tutto sommato, intorno a me non vedo girare molta gente con i soldi, ma davvero, quello stipendiuccio mensile, pure solo per qualche mese ogni tot, non mi avrebbe fatto schifo.
Invece ciccia, si andrà avanti così. Ho da scoprire ancora molto sulla cura delle piante da balcone (da interno no: sennò la grigia ce le fa fuori tutte. Mortacci suoi).

Ma torniamo un attimo indietro al giorno in cui avevo saputo di aver superato la prima fase del concorsone Rai, era inizio luglio, la pelle non ancora rinsecchita dal sole.
Che botta in positivo per l'autostima, accidenti. E che senso di rivalsa sapere di essere andata lì a farmi largo con il mio metro e cinquantadue tra 2.800 persone, con sole due settimane di preparazione rappezzata alla bell' e meglio, dopo mesi in cui leggiucchiavo pochissimo i giornali, assai ben più attratta com'ero (e come tornerò ben presto ad essere) da libri in lingua inglese (mo' ci metto pure il tedesco, tiè), corsette sul mare e svariati impegni familiari (trasloco compreso).

Da quel momento in poi, però, tutto è cambiato. Ho, per l'appunto, realizzato che mi si dava l'occasione, probabilmente irripetibile, di tornare a fare il lavoro che mi ero scelta quindici anni prima, da una posizione un po' meno marginale di quella che ho avuto negli ultimi dieci, mese/anno più o meno.

Risistemandomi il curriculum, oggetto di valutazione (ho appena visto che ha preso un bel 3 su 5 punti) tra gli altri elementi che hanno contribuito a formare la graduatoria finale, ho riletto la mia vita professionale sotto una luce diversa.
Ho fatto un sacco di cose, accidenti. Anche quelle apparentemente meno importanti, come la partecipazione al laboratorio dei pazienti psichiatrici della Comunità di San Girolamo di Fermo, in qualità di volontaria (o aspirante ospite? Scherzo, of course) è stata gratificante e, direi proprio, formativa.

Ho strappato il posto 210 su 400 in graduatoria (accanto ad altri colleghi - ancora per poco - tra cui un paio di donne simpatiche incontrate il giorno del concorso e su facebook), il che, considerati i punteggi che ho riportato nelle singole prove, mi consola parecchio. Studiare a qualcosa è servito, per la precisione a ottenere sette punti su sette quanto a titoli. Però, per me, la lode doveva dare un punto in più (e che diamine), tanto, comunque, non mi avrebbe permesso di entrare in Rai.

E insomma, più scrivo più mi sento sollevata.
Prendere 21 punti su 25 nella prova di radio, per dire, non è poco, considerato che le mie esperienze in materia risalivano al mitizzato stage al gr Rai all'inizio del mio viaggio nel giornalismo (e a poco altro qualche anno dopo, ora che ci penso, con un mio carissimo amico dell'Ifg di Milano, uno che ha saggiamente lasciato perdere il giornalismo diversi anni fa, quando la crisi non era ancora deflagrata).
Mi rode un cicinìn non avere preso manco un punto in tedesco, ma del resto non lo praticavo da tempo immemorabile e solo adesso (nur jetzt!!) comincio a ri-raccapezzarci qualcosa, dopo un'estate di studio matto e disperato (wie schwer ist Deutsch!!).

In inglese me la sono cavata benino (meno di come pensavo, francamente: 6,5/10), ma, ripeto, pure lì, sono sicura che se avessi preso il massimo, sarei stata fuori lo stesso.
A questo punto, spero (francamente, ardentemente) solo che i 100 ammessi siano davvero i migliori.
Lo spero con tutto il cuore perché ho trovato davvero squallido il polemicone sollevato da alcuni di quelli che non hanno superato la prima fase. E poi perché, davvero, di gente brava, motivata e dotata di grinta e di pazienza ce n'è davvero bisogno, in Rai come in altri posti.

Posti, sia chiaro, nei quali non ci si sieda e basta, bensì dotati di sedie con molle molto elastiche in maniera da essere catapultati rapidi nel mondo, per raccontarlo nei modi più rigorosi e originali possibili.
Se i cento entrati alla prima botta (smentisco tutti quelli che dicono che tanto la Rai non li chiamerà mai: non è così, rassegnatevi. LORO lavoreranno presto all'ombra dei cavalli della tv di Stato) saranno in grado di stupire pure me, che me ne starò dall'altra parte dello schermo come al solito, beh, allora vorrà dire che sono dove devono essere.

Da parte mia, continuerò ad ascoltare soprattutto la radio, in attesa di qualche voce nuova che sappia parlarmi con il giusto accento (detesto i conduttori troppo aggressivi, ma pure quelli dalle spiccate cadenze regionali). E se poi nasceranno le newsroom (pare che i tg rai vadano verso un paio al massimo di mega-redazioni), se un sacco di gente con stipendi che personalmente non ho mai sperato di avere, nel frattempo lascerà spazio a qualcun altro oltre il limite dei primi 100 che hanno passato con me l'estate a sperare (preparandosi per bene) in un cambiamento di quelli che davvero ti ribaltano la vita, beh, meglio così.

Dubito, in ogni caso, che lo squarcio nel filo spinato degli eletti si allarghi fino alla zona della classifica nella quale mi sono fermata io: o, se lo faranno, potrebbe, magari succedere tra due-tre anni, ossia il tempo massimo di durata della graduatoria dei 400 aspiranti e non (più).

Io, comunque, non posso permettermi di aspettare tempi così lunghi: nessuno può farlo (potremmo morire per colpa delle emissioni truccate della VW domani mattina), ma tanto meno una che non vede un euro di entrata da mo'.

Quindi adesso che succede?
Non ne ho idea. Come ebbe a dire l'ex sindaco di Fermo (non dico quale) a qualcuno che gli chiedeva forse di piazzargli un nipote: "Checcosa farò".

Per forza.
Grazie, amici, e scusatemi per la lunga assenza.
Tornerò (credo) a essere più assidua.
Scrivere fa parte di me, non c'è niente che possa cambiare questo dato di fatto.

Bis bald (a presto).

sabato 26 settembre 2015

Blogger di passaggio... di nuovo con le Gilmore Girls!

E' passato un sacco di tempo dall'ultima volta che sono passata di qua, lo so.
E pure oggi, vi confesso, non è che abbia granché voglia di rimanerci a lungo.
Secondo me, quelli che dicono che i blog stiano morendo hanno ragione.
Se proprio hai qualcosa di pseudo-pubblico da condividere, passi dai social, pure da whatsapp volendo, ma così facendo, ti resta poco tempo per scribacchiare altre fregnacce.

Perché, ammettiamolo, del narcisismo generalizzato del naledi contemporaneo ce ne facciamo poco.
Soprattutto se la vita ti chiama a compiti più gravosi (o semplicemente più interessanti).

Tutta questa barbosa premessa mi serviva per mettere le mani avanti.

E per introdurvi un video che ho guardato in più puntate durante i mesi passati.
Si tratta della reunion del cast dello show (come lo chiamano loro) Gilmore Girls.
Posso assicurare chi non l'ha mai visto che si è perso qualcosa di unico e irripetibile.

E' un telefilm per post-adolescenti, datato, ma tra gli aspetti che più mi hanno colpito del video è stato vedere nel folto pubblico in sala tanti ragazzini.
E io che credevo di essere una nostalgica patetica (lo sono comunque).

Sembra infatti che sia possibile scegliere le Gilmore su Netflix, la streaming tv che sta per sbarcare in Italia. Ed è, dal mio punto di vista, davvero sorprendente constatare che ci siano così tanti giovani appassionati di un telefilm in cui, almeno durante la prima serie, i cellulari erano ancora (più o meno) dei citofoni (in Italia, non da loro) e google quasi una start-up.

I dialoghi veloci e fitti, di più, la qualità dei medesimi in termini di ironia e brillantezza, evidentemente, piacciono pure ai millennials.
Tra loro, insomma, non va solo il Trono di spade, super celebrato di questi tempi.

Questa cosa, sapete, mi dà speranza nel futuro. E nei ggggiovani.
Un giorno, chissà, lo vedranno anche i miei nipoti.
Anche se, vi dirò, sarei più contenta se mi facessero fare loro altre scoperte commoventi, intelligenti e intellettivamente stimolanti come è successo a me quando ho scovato questo telefilm, in una noiosa giornata d'autunno, diversi anni dopo la fine dello show.

Nel caricarlo qui, ho appena riletto la data in cui la reunion è andata on air: un giorno prima dell'anniversario di mia madre. C'è un punto in cui gli attori (Lauren Graham, Alexis Bledel e Kelly Bishop in particolare) si asciugano le lacrime ricordando Ed Herrmann, il grandissimo (in tutti i sensi) Richard Gilmore.

Ricordo di aver parlato delle Gilmore anche a mia mamma, che, guardando il viso di Laurelai, l'aveva trovato simpatico. Le è bastato solo qualche frammento per capire perché mi piacesse così tanto.
Per comprendere quanto sollievo mi desse, guardarlo con trepidante partecipazione, in quei mesi così orrendi.

Il telefilm, sempre per chi non lo conoscesse, si basa tutto sul rapporto straordinario tra madre e figlia, quasi sorelle non solo per l'anagrafe, e su quello più complicato ma altrettanto magico, tra Laurelai e la madre, l'elegantissima Emily.

Il rapporto con la mia, è stato, per certi aspetti, più simile al secondo, ma per altri, nel tempo, stava sviluppandosi qualcos'altro che non ho fatto in tempo ad approfondire.
Spero, francamente, di averne, e tanto, per sviluppare un altro piano di comunicazione con mio padre. Così diverso e così uguale, per certi aspetti, al gigante Richard.

And now, enjoy the vision... and see you... God knows!


sabato 8 agosto 2015

Madamatap's version su Barney, libro e film



Alla fine sono riuscita a terminare Barney's version, dopo mesi e mesi.
Parlo della versione in lingua originale de La versione di Barney, un libro che ho letto anni fa in italiano (me l'aveva prestato qualcuno, forse la mia amica Simona di Milano) e che già all'epoca avevo considerato grandioso.
In inglese, a mio parere, è ancora più bello. E incomprensibile, se sei a un livello, discreto sì, di conoscenza della lingua anglofona, ma di certo non tale da poterti accostare a testi di qualsiasi natura senza fare piccoli e grandi sforzi.

Insomma, ce l'ho fatta perdendomi qualche pezzo, ma non l'essenza della prosa di Mordecai Richler, che, tra l'altro, infila nella narrazione frasi in francese e in lingua ebraica, giusto per complicare ancora di più le cose (magari anche ai madrelingua, chi lo sa).

Da romantica tendente allo svenevole (ma solo nel chiuso della mia testa quadrata: giuro, è davvero quadrata), mi sono piaciute soprattutto le parti dedicate a Miriam, il "my heart's desire", dice all'incirca Barney, ossia la terza, amatissima signora Panofsky, la madre dei suoi tre figli e l'unica donna che avrebbe potuto salvarlo finché morte non li avesse separati.

E poi, ovviamente, mi sono piaciuti assai i dialoghi tra Barney senior, lo sconsiderato padre del protagonista, e Barney junior, ma in generale, proprio quel misto di ironico-demenziale (umorismo ebraico? Ma chissà: prende per i fondelli anche la religione delle sue origini) e di straziante, inesorabile, avvicinarsi della fine. Una fine triste, senza memoria e senza amore, riscattata solo in parte dal finale che, ovviamente, per i pochi che non avessero letto questo libro che merita senz'altro di essere inserito tra i classici, non vi svelo.

Il caso ha voluto che, a due capitoli dalla fine, Iris mandasse proprio il film tratto (direi più precisamente ispirato) dal libro.
Bravissimi gli attori, anche se, sempre a mio modestissimo parere, l'ironia complessiva del testo scritto si coglie molto meno. E del resto, chi è capace di trasformare in immagini i sotto-testi di una scrittura fatta di scetticismo e poesia? Troppo difficile. Quindi bravi tutti per aver creato, alla fine, un'altra versione di Barney (tra l'altro ambientata a Roma, nei ricordi di gioventù del medesimo, anziché a Parigi).

In fondo metterò una scena o forse il trailer del film.
Qui vi trascrivo dei pezzettini in inglese. Vi anticipo che lo faccio anche per me, per non disperderli del tutto. Magari piaceranno pure a voi (ma non li traduco: ho caldo e vado di fretta... sì, sì, ottima scusa):

"I was thoroughly ill at ease among so many strangers at the Ritz, until everything changed. Then and forever. Across the crowded room (...) there stood the most enchanting woman I had ever seen. Long hair black as a raven's wing, striking blue eyes, ivory skin, slender, wearing a layered blue chiffon cocktail dress, and moving about with the most astonishing grace. Oh, that face of incomparable beauty. Those bare shoulders. My heart ached at the sight of her".

Mi piacciono molto, non so perché, le "bare shoulders", le spalle nude (in italiano fa un altro effetto), un ricordo che Barney ripete spesso durante tutto il libro: anche nei capitoli non direttamente dedicati alla terza moglie, Miriam, di tanto in tanto, affiora comunque. Perché chi ama ha bisogno di nominare l'amato.

E poi eccovi un altro passaggio, anche questo scritto più volte durante il romanzo:

"I once dared to hope that Miriam and I, into our nineties, would expire simultaneously, like Philemon and Baucis. Then a beneficent Zeus, with a gentle stroke of his caduceus, would transmogrify us into two trees, whose branches would fondle each other in winter, ouser leaves intermingling in the spring".

Mi ha fatto venire una gran voglia di rileggermi i miti greci. A Chieti dovremmo avere ancora un libro in cui ce ne sono parecchi. Lo cercherò.

Sto per ripartire.
Ieri ho fatto una predica a mio padre: sentivo le parole che mi uscivano di bocca così, senza controllo. Non so se abbiano sortito qualche effetto, ma era evidente che avessi bisogno di dirgliele.
Mi aspettano giorni impegnativi, ma non ho intenzione di ridurmi come l'ultima volta (virus maledetti permettendo).

Purtroppo, come a Barney, neanche a mio padre è stato permesso di arrivare fino ai novant'anni con la moglie, mia mamma. Quest'anno la sua mancanza è ancora più forte e l'altro giorno ho fatto un sogno troppo strano: era lì che cucinava, cucinava, ma io volevo restare sola e la sua presenza non me lo permetteva. Che cosa mai significherà? Lotto per staccarmi da lei?
Chissà se mio padre la sogna mai e che cosa sogna.

Bene.
Vi lascio, come promesso, con un video dedicato al film (ne ho trovato uno migliore del trailer): Rosamunde Pike è uno spettacolo, Paul Giamatti fantastico, ma interessanti anche le cose che dicono gli altri sul film e sul libro (Richler, non Richter: c'è un errore nei sottotitoli in italiano).





Bello, eh? Beh, a me piace.
Buona settimana di ferragosto a tutti.

sabato 1 agosto 2015

Guarigioni (alleggerimenti) dell'anima

Alla fine sono guarita. Beh, meglio così, sennò sarebbe stato davvero inquietante.
Detesto essere malata, anche perché (per mia fortuna) non è una condizione in cui mi trovo spesso.
Nei lunghi (diventano davvero lunghissimi in certi momenti) giorni di malessere, non ho fatto granché. Faceva un caldo boia, non riuscivo a stare distesa neanche sul divano: dopo pochi minuti diventava bollente. L'aria, adesso, è leggermente più fresca. Risanata, mi sono comunque accorta di essere piuttosto stanca. Non debole (direi per niente), solo bisognosa di starmene, stavolta sì, distesa a guardare il mare. Che privilegio, eh, me ne rendo conto da sola.

I dati sulla disoccupazione diffusi ieri dall'Istat (con il controcanto governativo sulla promessa di 150 mila nuove assunzioni entro fine anno) non mi riguardano nemmeno lontanamente. Tuttavia, data la mia totale assenza di occupazione in questa stranissima estate del mio 44 esimo compleanno, ascoltare anche solo pochi secondi dell'ennesimo servizio sui giovani che non hanno lavoro e di certo non una pensione sostanziosa dopodomani, non è che mettano di buon umore.

Forse avrei bisogno di staccare sul serio, fosse anche per pochi giorni.
Per fortuna le mie letture in altre lingue mi aiutano a proiettarmi da un'altra parte.
Durante gli anni di malattia di mia madre, l'inglese è stata davvero un'ancora, non di salvezza, non esageriamo, ma anti-stress sì.
Lo stesso (non proprio, ma quasi) sta succedendo adesso con il tedesco
Es ist sehr schwer (è molto difficile) ricordarsi concordanze e declinazioni, ma è una sfida stimolante.

Fino al giorno del concorso, comunque, mi sembrerà di avere ancora un'identità professionale.
Non essendo "famosa", dubito che qualcuno che lo è passi da queste parti a leggere il contenuto depressivo di questo post. Come si diceva con mio padre qualche giorno fa, nessuno ha voglia di assumere una persona demotivata. 
In verità non lo sono davvero: ho solo paura. Ebbene sì. 
Entro qualche settimana me la farò passare, non temete, mio sparuto gruppo di seguaci.

Ho però imparato quanto sia salutare riconoscere i propri sentimenti e tentare di farci i conti, per tempo.
E quindi? Niente: I'm going on. 
A proposito d'inglese, ieri ho visto su Cielo Chicago, purtroppo non dall'inizio. Come sono bravi tutti: quel tipo di musical mi piace. Secondo me, per capire il talento (anzi, la maestrìa) di certi attori, bisogna guardarli ballare e cantare. Non dico che chi non lo sa fare non sia bravo, ma Richard Gere che balla il tip tap o Renée Zellweger che fa la vamp imitando Marilyn e la stra-bona Catherine Zeta Jones capace di uccidere solo con lo sguardo e poche mossette delle sue strepitose gambe, sono obiettivamente un piacere per gli occhi e per l'anima. E poi io adoro chi canta e balla bene: mi sarebbe piaciuto assai saperlo fare anche un pochino pure io.

Cerco la leggerezza, in definitiva, anche poca poca, e il cinema, come sempre, aiuta.
Voi ce la fate a liberarvi anche solo per poco dai pensieri pesanti? 
Spero di sì.

Per aiutarvi (ci), vi lascio con un piccolo frammento del film, il finale:




Fortissime, eh?
Buon primo fine settimana di agosto a tutti.

mercoledì 22 luglio 2015

Un compleanno indimenticabile

C'è sempre una prima volta per tutte le cose.
L'influenza estiva non me l'ero mai beccata, nemmeno, penso, da bambina: all'alba dei miei vierundvierzig (Katzen)... zac!
Lo dico piano, per timore di scatenare di nuovo l'ira divina, ma mi pare che la febbre sia passata.
Andrò avanti con l'antibiotico che mi ha prescritto il mio medico ("nooooo, non è gastrolesivo", pensavo alle sue parole mentre mi veniva da rimettere pure l'acqua. Mortacci). E insomma, cerco di farla breve: così è la vita.

Mentre imboccavo la discesina che dal parcheggione squallido porta all'ingresso dell'altrettanto anonimo ospedale clinicizzato di Chieti, pensavo che questo è il terzo anno di seguito che bazzichiamo quel posto. Va fatto, lo so, ma non è una gran consolazione saperlo.

Sono spesso intenerita da mio padre, così scarsamente dotato di manualità, ma al contempo, complici stanchezza e stress, mi è pesato in certi momenti anche solo mettergli le goccine nell'occhio.
Già da prima di partire per Chieti, per tentare di alleggerire il senso di pesantezza che in seguito, nel pieno dell'esplosione del virus, mi si è concentrato sul collo manco fossi stata la versione femminile di Atlante, prendevo un po' in giro con mio marito il povero papà facendogli il verso quando attacca sulle "esigenze dell'ammalato".

Però devo dirlo: è triste.
Nel giro di un anno è diventato vedovo e, per l'appunto, ammalato.
Non sarebbe semplice per nessuno (io, poi, sarei insopportabile), solo che, analogamente, nessuno ti può salvare.

Oltretutto, noi figlie siamo lontane ed è oggettivamente impegnativo mollare tutto e correre da lui.
Ammalarmi a Chieti, insomma, con lui con l'occhio mezzo cieco per via dei residui di cataratta, quindi impossibilitato a fare alcunché (anche per via delle sue abitudini: mio padre non fa nulla senza la macchina), è stato un incubo.

Mi dispiace molto.
Fortuna che a ora di pranzo del mio compleanno sono riuscita almeno a mangiare qualcosa. Persino un gelatino. E poi, come dice il saggio Bipede, i compleanni sono roba da bambini (resterò sempre una bambina sotto quest'aspetto, non ci posso fare niente).

Adesso, pezzetto dopo pezzetto, mi devo rimettere in piedi.
Stanotte sono stata a lungo seduta sul davanzale del nostro bagnetto ad assaporare il vento della notte e a seguire i lavori di pulizia del viale dove fanno il mercatino. Sarebbe stato meglio dormire, ovviamente, ma che ci si può fare? A un certo punto ho visto schiarire il rettangolo di cielo sopra la palazzina più bassa tra quelle che stanno dirimpetto alla mia e mi è quasi venuto da sorridere. Perché ho pensato ai cornetti della pasticceria in fondo al viale che pulivano, buonissimi.
Però mi sembra ancora un po' prematuro, considerato l'intestino sderenato.

Credo che passerò buona parte della giornata a dormire, spero profondamente e serenamente.

Voi che siete in forma, vi prego, godetevela pure per me.

Auf wiedersehen e buon ascolto:



martedì 7 luglio 2015

Noa e il disvelamento. Alla buon'ora

 
 

 
 
Ho conosciuto Noa diversi anni fa, più o meno agli inizi della storia che sto per raccontarvi. L'album (Love Medicine) dal quale è tratto il brano Little star, costruito su una melodia nota - presumo - in tutte le scuole elementari e medie del mondo, è dello scorso anno.
 
L'ha scoperto (manco a dirlo) per caso Paolo (il nome vero del Bipede) giusto a ridosso del trasloco. Sinceramente non mi ricordo se avevamo già fatto il rogito, comunque la musica di quest'artista israeliana-newyorkese è perfetta per i periodi di cambiamento.
 
Il mio rapporto con il Bipede è cominciato (più o meno) proprio con Noa. Ai tempi dello stage nel quotidiano Il Centro accompagnava non di rado le nostre gite fuori porta.
Ho passato mesi memorabili nella vecchia redazione pescarese del giornale che mio padre compra tutti i giorni, più o meno da quando è nato.
 
Non voglio assolutamente ammorbarvi con i miei ricordi di gioventù (sappiatelo: tutti i giornalisti, prima o poi, vi raccontano la loro vita), ma solo tornare per un attimo agli albori della mia vita adulta.
 
C'è chi diventa grande presto, per costrizione o per scelta.
Oggi posso dirlo: ho rischiato un sacco di volte di passare dall'immaturità alla muffa senza mai aver vissuto una vera fase di maturazione.
 
Succederà a molti, certo: dubito di essere speciale anche sotto questo aspetto.
Sia come sia, da qualche giorno vivo come se la cataratta l'avessero tolta a me, non a mio padre.
 
Come sono stata infantile. Quante energie buttate, quanta inutile (e dannosa) modestia.
Quante relazioni subite. Quanta negatività accumulata per vigliaccheria.
Quanto masochismo, in una parola.
 
Scrivo queste parole non per infliggermi ulteriori colpe immaginarie costruendomi l'ennesimo alibi dietro al quale continuare a nascondermi, ma solo perché sono, ebbene sì, ancora molto incazzata per averci messo così tanto tempo a capirlo.
 
Noa che c'entra, dirà qualcuno di voi (forse)?
Ascoltate attentamente la canzone.
A un certo punto dice:
 
Twinkle, twinkle, I will sing,
For tomorrow always brings,
Opportunities to begin again

Una ninna nanna che guarda al futuro non l'avevo mai sentita, mai comunque con questa potenza ed energia. Che voce sublime, accidenti.

Ascoltandola al mare due giorni fa, ebbene sì, ho pianto. Non avrei voluto farlo, come dice la canzone in un altro punto, ma le lacrime andavano giù da sé.
Mi sono scorsi davanti gli ultimi quindici anni, davvero come la pellicola di un film, anzi, come si vede nei flashback dei film.

Mi sono calmata solo quando è finita la canzone, o forse proprio l'album, lo stesso, tra l'altro, che asseconda meglio le mie corsette sul lungomare degli ultimi giorni (ho subito un brusco stop per via della febbre e della callaccia amara che ancora non ci ha mollati).

Si chiama, vi dicevo, Love medicine e per i cinici dei nostri tempi (quanti ne ho incontrati in questi quindici anni) sarà retorico, femminile e buonista.
Si fottano, perdonate il linguaggio da marinaio.

I primi giorni, in effetti, non riuscivo ad ascoltarlo per via della voce della riccia con il naso da aquila e gli occhioni da Bambi che ti costringe a stare lì a sentirla. Un po' come mi capita con Mina: con la tigre di Cremona non hai scampo. O stai lì e ti fai pervadere dalla potenza delle sue corde vocali o spegni e parli tu.

Sono riuscita a concentrarmi sulle singole canzoni solo quando mi sono ritrovata a tu per tu con la sua musica.
Peccato che Smile sia diventata il simbolo per eccellenza del buonismo piddino, perché anche quello è un magnifico pezzo.

In ogni caso...
sono stata interrotta dalla telefonata di mio padre.
Non ho molto altro da dire. Solo questo.

Se avessi figli, insegnerei loro innanzitutto a non mentire mai a loro stessi. A non avere mai paura di guardarsi dentro.
A non aver paura di nulla, come dice sempre Noa in un'altra splendida canzone.

Non aver paura di nulla non significa fare per forza bunging jumping, o come diavolo si chiama.
Significa solo alzarsi e andare, come mi ha costretto a fare mia madre il giorno che sono dovuta partire per Pisa per andare a prendermi la mia dannata (per molti inutile) laurea.

La strada ce l'avevo già chiara davanti con il suo solo esempio.
Ma lei a 24 anni era già una donna.
Mi fa male non averla qui accanto a me adesso, ma in qualche modo ne avverto forte la presenza.

Che sia la black star di Noa?
Domani si va a Chieti.
E' giusto così.

Buoni giorni a voi (e ascoltate la riccia!).


sabato 4 luglio 2015

#concorsonerai, presagi di una guerra (ahimè) necessaria


Qualche piccolo segnale premonitore di come dovesse andare a finire l'anteprima di questa storia, lo ammetto, mi era arrivato.
Del nostro amico senegalese Ibrahim detto Rai vi ho già parlato un po' di post fa.
Bene: il suddetto mi ha telefonato il giorno prima della mia gita a Bastia Umbra, nella calura crescente che non ci ha ancora mollati, verso la fiera di Perugia, dove si è celebrato un rito collettivo di biblico sapore.

Sono arrivata al padiglione 7 alle 10 e un quarto. Fresca, relativamente, e determinata a non parlare con nessuno.
Mi sono nascosta dietro agli occhiali da sole di mia mamma (uno dei due modelli che uso abitualmente) e, per i miei parametri, calma, ma anche vagamente incazzata, ho aspettato che facessero entrare anche noi del "varco 10".

Percepivo intorno a me una certa tensione, ma anche una vaga rassegnazione, soprattutto in quelli più vecchi. Come me. O forse ero solo io che proiettavo sugli altri il mio stato d'animo.
"Nella foto ero più giovane", ho detto alla bella moretta che mi ha preso tesserino e carta d'identità squadrandomi bene in viso per essere certa che fossi la stessa persona ritratta nella foto. "Me lo dicono tutti", mi ha risposto dolcemente, facendomi sentire ancora più vecchia e inadeguata.

Ho preso posto in fondo all'hangar di Casablanca - mi domandavo dove avessero spostato gli aeroplani con le eliche (non è vero: me lo sono appena inventato) e mi sono messa in attesa che ci dicessero qualcosa, provando, in verità, un certo imbarazzo intestinale. "Vado o non vado al bagno?", mi domandavo, sempre più incupita con me stessa per il corpo che in quest'ultimo periodo sta facendo un po' troppe bizze.

Alla fine ho resistito usando la mia solita strategia anti-stress: ho scambiato qualche parola con la ragazza alla mia destra, faccia concentrata, aspetto gradevole. "Però con la V fanno presto ad arrivare a noi", dice commentando l'estrazione della prima lettera del cognome dalla quale partiranno per la seconda (e terza) prova.
Chissà se anche lei aveva il presentimento di potercela fare. Chissà se ce l'ha effettivamente fatta. Ignoro come si chiami. Dopo la prova non ci siamo neanche salutate. Meglio così. Troppa confidenza crea solo mala creanza. I detti di una volta hanno il loro perché, date retta a zia Alessandra.

Uscita, mi sono allontanata il più rapidamente possibile dalla fiera, il Bipede tra i coniugi, compagni etc etc in impaziente attesa. Si schiattava di caldo e lui non sopportava nessuno (in particolare i candidati che avevano già finito la prova), dev'essere stato uno sforzo non indifferente farmi da body-guard in questa circostanza. Io, in tutta risposta, mi sono mangiata senza battere ciglio la metà del suo panino direttamente in macchina, manco il tempo di raggiungere un luogo più ameno.

Ma torniamo per un attimo a Rai: mio nipote piccolo, almeno fino all'anno scorso, tutte le volte che lo vedeva gli domandava: "Ma sei Raiuno, Raidue o Raitre?".
Me ne sono ricordata quand'eravamo già a casa, risvegliandomi dal riposino della nonna.

No, non può essere, mi sono detta, riscuotendomi.
E invece è.

Per cui adesso, alla vigilia delle 44 primavere, mi aspetta un'estate di matto studio, con l'assoluta consapevolezza che sarà una vera guerra.

Qualche giorno prima della prova, mi sono iscritta al forum dei candidati su Facebook. L'ho fatto pensando che potessi ricavarne qualche indicazione utile sia su cosa studiare sia sui problemi logistici eventualmente riscontrati da chi era già lì.

Di informazioni ne ho ricavate parecchie, devo ammetterlo, ma su aspetti che non mi sarei mai immaginata.
Per esempio, su quanti siano i professionisti più o meno a spasso, ma questo era, in fondo, scontato.

Tra i molti rosicamenti di chi non ce l'ha fatta, ho notato anche quella tendenza tipicamente italiana al complottismo.
Sinceramente: perché sprecare le proprie energie a interrogarsi su come siano stati redatti i quizzzzz, sui cognomi illustri di quelli che sono passati e sul fatto che tra quelli che ce l'hanno fatta diversi non hanno mai fatto tv?

Una persona ha giustamente fatto notare quel che è: i 400 selezionati si prenderanno a coltellate solo per essere nel gruppo dei 100 che andranno a formare una graduatoria dalla quale si potrà (forse) pescare entro i prossimi tre anni per contratti a tempo determinato.

Detto in altri termini: io potrei (sempre che lo passi) ritrovarmi ad avere il mio primo contrattino in Rai a - minimo - 47 anni.
E nel frattempo che faccio? Forse la colf, che manco mi riesce, la stiratrice (mmmh), la daddy-sitter (quello lo faccio abbastanza bene, pare).

E infatti tra gli amici che hanno declinato il gentile invito al party umbro, ce n'è più d'uno che ha ridato un'occhiata alle proprie priorità, dicendosi: ma figuriamoci, non c'è neanche da bere.

Scherzosamente, una delle mie ex compagne di casa dei tempi (poetici, per forza di cose, visto che sono lontanissimi) della scuola di giornalismo, mi ha detto che vuole "il primo stipendio" come pizzino. Mi ha fatto davvero ridere. Speriamo (nel caso) di arrivarci per lo meno prima della menopausa.

A beneficio di chi non conosce tutta la mia storia, comunque, io in Rai ci sono stata, ed è anche per questo che mi fa una certa impressione pensare di rientrarci fosse anche solo per espletare fino in fondo il mio ruolo di candidata.

I miei primi stage sono stati a RadioRai. Poi ne ho fatto uno nel programma di Enzo Biagi, al quale è seguito un contrattino.
In seguito ho preso altre strade, ma in questi giorni mi sono ricordata di come ero e di come non sono più.

Il mio cognato tedesco ha fatto un'osservazione giusta: forse, ha detto, neanche la Rai è più quella di quindici anni fa. E già. Bisognerà adesso capire in che modo siamo cambiati lei e io e se possiamo eventualmente andare d'accordo.

Finisco con un altro segno premonitore, stavolta auto-indotto.
Lungo la strada per Bastia, non so come, mi è venuto in mente Francesco Guccini.
Mi sono ricordata in particolare della canzone che si chiama Autogrill (ecco perché: ne abbiamo agognato uno per parecchi chilometri per necessità fisiologiche. Bisognerà che avvisi gli addetti ai candidati di mettermi a disposizione un pitale, mentre svolgo le mie prove. Sennò pannolone e stop).

Mio marito detesta tutta la musica italiana, per cui, snobbandomi, ha subito commentato: "Che palle".
Io gli ho ribattuto che uno dei brani inediti di Tracker del nostro amato Mark Knopfler (per la precisione My heart has never changed) parla più o meno di quel che dice il Guccio nel suo. Certo, musicalmente siamo piuttosto agli antipodi, ma io, sotto sotto, al Francescone nazionale sono affezionata per ragioni sentimentali.

Bene.
Una delle domande del quizzone era: Chi ha composto l'album live "Tra la via Emilia e il West". Guccini, ovvio.
Un sacco di candidati l'ha cannata. Io no.

Non vi dico (ma sì: ve lo dico) che errori del C. ho fatto io.
Le Déjeuner sur l'herbe? Ovviamente è di... no, mi vergogno troppo se vi rivelo quale risposta ho segnato. Mamma mia. Mamma Rai mia.

Però, a parte qualche svarione davvero imbarazzante, mi sono riconsolata: farmi studiare, alla fine, a qualcosa è servito.

Adesso sono, come dicono gli spiritosi, volatili per diabetici.
Spero solo che mi passi questa dannata febbriciattola psicomatica.
L'avevo detto io che sarebbe stato meglio se non mi convocavano.

Il buon Rob Brezny, quello degli oroscopi di Internazionale, sostiene che devo, una volta buona, agire non da cancerina. E' una parola. Alla preselezione - ebbene sì - ce l'ho fatta, ma mo'?

Mo' vediamo.
Intanto mi godo, per così dire, ancora per qualche ora il meritato riposo (indotto dalla febbre, ahimè).

E poi
à la guerre comme à la guerre.

Chi l'avrà detto?
Meglio che controlli, va.
Per il prossimo quizzone, stavolta da Gerry.