venerdì 3 aprile 2020

Torneremo a correre. E sarà bellissimo



Ho ascoltato questa canzone forse quattro o cinque volte quasi un anno fa, intorno alle undici e quaranta o poco più. Come faccio a ricordarlo così precisamente (e pedantemente)? 
Impossibile dimenticarlo.
Era domenica 7 aprile, stavo per concludere la mia prima mezza maratona, qui a Vienna. Prima e unica, al momento, a dirla meglio.

Quel giorno felice oggi mi pare lontanissimo, eppure la consapevolezza di aver vissuto un'esperienza davvero esaltante mi accompagna ancora, nonostante tutto. 

Con me c'erano anche il Bipede e Michela, una mia amica di Fermo amante della corsa molto più di me. Nei giorni in cui è stata qui ha corso con lui almeno un paio di volte: con me, invece, solo una passeggiata alla vigilia della gara. Niente invidia da parte mia, giuro. Semmai molta contentezza per il sodalizio che si era creato tra loro, un po' come ci capitava da bambini quando ci si metteva a giocare con un amichetto nuovo. 

Mi faceva piacere che si fossero trovati così bene anche perché avevamo cominciato a sgambettare nello stesso periodo: giusto ieri ho rivisto una bella foto di gruppo, in cui c'eravamo noi tre con altri amici, al termine di una dieci chilometri di fine primavera, tra oleandri in fiore e profumo di mare.

Insomma, voglio ribadirlo: chi ama la corsa, ma direi lo sport in generale, lo sa. Tra chi pratica insieme un'attività fisica si crea una complicità inesprimibile a parole. Contano di più gli sguardi che ci si lancia mentre ci si sforza di dissimulare la fatica, le lingue di fuori quando si sta per cedere e i sorrisi, i larghi sorrisi, che affiorano sui volti una volta concluso l'allenamento.

Tutto questo succede, poi, anche se si corre da soli e ci si ritrova solo alla fine, a confrontare tempi e sensazioni.

Inutile nasconderselo: c'è anche un po' di competizione e si vorrebbe sempre strappare quel metro in più tra noi e chi ci precede.
Ma l'anno scorso, alla mia finora unica mezza maratona della vita, ho dovuto competere innanzitutto con me stessa e con la paura, eh sì, autentica paura, di non farcela.

Per vincerla, mi ero portata anche denaro, chiavi di casa e soprattutto un prezioso biglietto della metropolitana, nel caso malaugurato in cui non me la fossi proprio sentita di andare avanti.

Pochi metri dopo la partenza, tra l'altro, mi sono ritrovata da sola, senza il supporto del Bipede che ha preso la volata, saltando sull'altro lato della strada a quattro corsie facendomi ciao ciao con la mano.

Michela era più avanti, pensando che ci fosse una gabbia per quelli che facevano la competitiva. Invece no: c'era talmente tanta gente, che gli organizzatori hanno semplicemente fatto partire prima i maratoneti e poi noi, esercito di mezzi maratoneti di ogni età e taglia. Ricordo il freddo prima dello start, i balletti organizzati per farci scaldare, i look diversi, e i sorrisi, molti sorrisi.

Non so come ci sono riuscita, ma per un bel tratto ricordo di non aver voluto ascoltare la musica: desideravo concentrarmi sul mio respiro e volevo anche guardarmi intorno, cercando, forse, la solidarietà di qualche sconosciuto o sconosciuta.

Ho percorso lunghi tratti di città che non avevo mai visto, fino a ritrovarmi all'improvviso davanti al palazzo di Karlsplatz in cui c'è l'ambasciata indiana, dove ho passato svariati brandelli di pomeriggio a fare yoga con una donna, che è un'autentica bellezza, esteriore e interiore.
A lei avevo chiesto consigli su come prepararmi alla gara nelle settimane precedenti: sono sicura che mi abbia davvero aiutato, in molti modi. Solo tempo dopo ho scoperto che in quello stesso palazzo c'è la "Julius Meinl Bank", dedicata al piccolo folletto portafortuna che appare sulla facciata di un palazzo del Graben.

La mia felicità ha raggiunto però il picco poco dopo, quando mi sono ritrovata davanti al palazzo della Secessione, meta dei nostri giri di allenamento delle settimane precedenti. 

Lì mi sono fermata a scattarmi una foto, convinta, anche di essere ormai a buon punto. Credo fosse il quindicesimo chilometro.
Appena ripartita ho capito che la musica mi sarebbe stata davvero indispensabile.

Fiato ne avevo ancora abbastanza, erano le gambe che cominciavano un po' a scricchiolare. In più dovevo fare pipì già da un pezzo, per cui, pur continuando ad andare, cercavo di adocchiare bagni a portata di percorso.

Eccone uno, mi dico. Mi fermo dietro a una donna, e insieme faccio stretching. Un minuto, due minuti: niente, non esce nessuno. Che faccio? Aspetto ancora, non aspetto?

L'istinto mi dice di andare. E così vado e vado, gli auricolari ben piantati nelle orecchie, con la musica di Frank Stallone (il fratello di Sylvester, ebbene sì) che va. Da un banco afferro una mezza banana, ma mi limito solo a succhiarla leggermente, temendo effetti nefasti per l'intestino nel caso avessi ceduto alla tentazione di mangiarla.  

Ormai siamo intorno al diciottesimo chilometro: dai, manca poco, mi dico. Ahiaia, il disco è finito. Se mi fermo per sceglierne un altro, non riparto. Armeggio con il tastino dell'auricolare e tac, riparte l'ultimo brano. Sì, proprio quello che potete ascoltare sopra.

Tonight, tonight, you feel so right, canticchio. Dirà così? E chi lo sa? Mentre si ripete, mi trovo in cima a una discesa, credo sia la Mariahilfer Strasse, ma sì, è lei. In fondo, che cosa c'è? Una enorme freccia luminosa che separa il percorso dei maratoneti da quelli a metà. Imbocco la strada giusta e procedo. 
Ormai è fatta, dai, quanto potrà mancare? E intanto Stallone va.

No! C'è una curva! Guarda là quanto manca ancora! Non ce la posso fare, non ce la posso fare. Sulla corsia alla mia destra vedo sfrecciare i maratoneti: sì, ho detto proprio sfrecciare. A grandi falcate, eccoli là, belli freschi a guadagnarsi un buon piazzamento.

No, no, non esiste. Cedo. Eh sì: mi fermo e cammino, tenendomi bene a destra per non bloccare gli altri. Con la banana in mano, cammino e scuoto la testa. Ma dentro di me scatta qualcosa, non so bene cosa.
Fatto sta che alzo lo sguardo e vedo che all'arrivo mancano davvero cinquecento metri. Mi rimetto a correre. La musica non serve più.
Alzo lo sguardo sull'orologio: segna qualcosa come le 11 e 39. DEVO riuscire ad arrivare entro i 40. DEVO riuscire a farlo. Vai, vai, vai... vai!

Ce l'ho fatta! 

Nei minuti successivi praticamente non riuscivo a muovermi, ma la banana me la sono magnata eccome. 
Chiamo il Bipede facendolo anche sentire in colpa per avermi abbandonata subito al mio destino, litighiamo un po' per questo, ma dopo, solo dopo, quando ho recuperato le forze e ci siamo ritrovati con Michela, beh.

La foto che riporto sotto dice tutto.



Dedico questo post a tutti noi, amici cari, perché possiamo presto tornare a solcare le strade, di corsa, a piedi, da soli, in compagnia, con la testa per aria, le mani in tasca, le cuffie in testa, fischiettando, sbadigliando, ridendo, ma pure smadonnando contro la macchina che ci rovescia addosso la pozzanghera.

Comunque liberi di muoverci, felici di andare da qualche parte, per ritrovarci e ricominciare daccapo. 
Una volta ancora. 

sabato 14 marzo 2020

Alles wird gut



La foto che vedete sopra è tratta dal "Wiener Zeitung", il giornale di Vienna. Dovrebbe essere per la precisione un quotidiano, almeno nella sua versione digitale di sicuro lo è.

L'ho scoperto già dai primi giorni che ero qui, estraendone una copia da uno dei contenitori in plastica trasparente che vengono attaccati ai pali in vari punti della città.

Ora che ci penso, non so come funzioni con i pali, visto che ogni volta che l'ho preso, l'ho scovato in strade differenti del quartiere.

Fatto sta che oggi il contenitore fresco fresco di copie di questo bel giornale mi si è parato davanti al chiosco dei kebab, dove in effetti c'è stato spesso.

La scritta che vedete sopra significa: "Per favore, restate a casa".
Mi ha subito fatto venire in mente il favoloso monologo di Gioele Dix dedicato alla scritta del treno: "Per favore, non gettate oggetti dalla finestra". Se non lo conoscete, guardatelo: è davvero istruttivo.

Come dice quel genio lombardo con gli occhi più belli del mondo, se tu a un italiano gli dici "per piacere, non fare questo", è sicuro che ignorerà il monito gentile, chiunque glielo stia dicendo.

Qui, evidentemente, funziona. O funzionerà. E io me lo auguro di cuore, per la mia salute e per quella dello sventurato Bipede che ho trascinato quassù.

L'invito a starsene "alacase", alla chietina maniera, scatterà infatti da lunedì, giorno in cui saranno chiuse tutte le scuole di ogni ordine e grado e tutti i negozi non necessari, con l'eccezione di supermercati, farmacie, banche, poste e "drogherie", che credo coincidano con i nostri tabaccai, non con i pizzicagnoli (rari, ma ce n'è uno pure a due passi da me: se resta aperto, tornerò qui a dirvelo).

Ieri e oggi, però, tutti in giro, a fare scorte, tutti belli ammassati alla cassa esattamente come in Italia, con le cassiere spaventate dalla ressa, anche perché prive di guanti e mascherine.
Sono davvero curiosa di vedere come diventerà la città, il mio quartiere popolare (e chi lo lascia più?...) da lunedì.

Se ha ragione il mitico Gioele, staranno tutti a casa. Chi? Innanzitutto gli anziani sopra i 65 anni, ai quali era rivolto l'editoriale del Wiener Zeitung. Sulla pagina a destra c'era una grande foto che raffigurava quattro anziani impegnati a giocare a carte. Sopra la foto il titolo, piuttosto stridente con i loro sorrisi, più o meno diceva: "Da lunedì questa roba qui non si può più fare". 

E insomma, ci siamo.
La settimana che si sta chiudendo è stata davvero tosta, mai, certo, come quelle che state vivendo voi, miei cari amici, nella mia terra amata.

Non vi nascondo di essere abbastanza angosciata e di confidare, sì, sul rispetto delle regole connaturato a questa gente. Però il panico, ma anche la semplice e sana paura, fa fare cose strane a tutti, quindi vediamo se reggeranno la prova, con me e per me.

Questa settimana, però, è stata dura perché ho sentito di nuovo la distanza da chi qui è nato e da chi ha scelto di viverci già da tempo.

A fine febbraio mi ero scandalizzata perché la mia proprietaria, con una voce da oltretomba intasata di raffreddore, mi aveva chiesto se stavamo bene il Bipede ed io, visto che qualche settimana prima eravamo stati in Italia. Tutto ok, mortaccen, ho pensato.

Con il procedere dei giorni, pensavo che anche qui si fossero accorti del casino che stava succedendo non solo da noi, ma anche in Corea del Sud e Iran, e poi, via via, in Spagna, Francia e... Tirolo. Invece, ciccia, niente: noi essere lontanen, kosa folere ke succeda. I soliti Italiener melodrammatiken (e untoren).

Il top del senso di distanza l'ho toccato solo mercoledì scorso, quando a scuola ci hanno distribuito un foglio sulle norme di comportamento da seguire in caso di contagio, per noi studenti pagati dall'Agenzia per il lavoro austriaca. 

Era il classico volantino con le Faq: la voce che mi ha fatto dare di matto anche con i malcapitati compagni di corso diceva: "Ho paura del coronavirus: posso restare e casa e non andare ai colloqui con la mia tutor?". Risposta: "Nein". Scritto, così, in grassetto e poi la spiegazione del perché tu, poveraccen und disgraziaten non afere diritten.

Mi sono proprio ritrovata a dire, con un tono di voce da pescivendola dell'Adriatico, "Italien ist besser!".

Non mi soffermo (non troppo) sulle reazioni compassate delle mie conoscenze locali, quando ho comunicato che avrei saltato due appuntamenti perché leggermente raffreddata. 
In teoria l'ho fatto anche per loro, ma vabbè, comunque per lo meno mi hanno augurato buona guarigione e detto belle parole sull'Italia.

E poi, soprattutto, giovedì scorso è arrivata una nuova comunicazione in base alla quale, evviva, anche noi "studenti speciali" possiamo stare a casa. Per noi dovrebbero anche predisporre lezioni a distanza. Semmai, adesso a rischiare sono proprio i prof, come il mio, un ragazzo rumeno bravissimo, visto che dovranno comunque andare al lavoro. 
Spero che alla fine li lascino a casa: in fondo quanto sarà complesso organizzare cose del genere anche in remoto?

Mi avvio alla conclusione di questo lungo post (sono diventata barbosa e prolissa, sarà lo studio della lingua tedesca, che ama così tanto le subordinate, un po' come me che amo le parentesi).

Che dio ce la mandi buona, amici cari, in Italia, Austria, nel mondo.

Cerchiamo di restare uniti, almeno tra noi che ci vogliamo bene, anche a distanza.
Parliamo, diciamo cose vere, non ci schermiamo. Io lo faccio spesso, è anche un fatto di educazione. Non amo litigare (ma solo ribollire come una moka da una tazza, come mi ha detto una volta il Bipede), ma se serve bisogna farlo.

Ma vanno bene anche le frasi gentili, le tenerezze, quando sono sincere.

FORZA.
Andrà tutto bene.
Alles wird gut (l'avevo tradotto malissimo... si dice così invece!).







venerdì 21 febbraio 2020

Forze benevole, avanti così



"Ich muss uberlegen". Devo aver detto così alle due bionde austriache di Radio Max.
Sto parlando ancora una volta del giorno in cui mi hanno comunicato il benservito. Il famigerato 21 ottobre 2019. 
Come ho già raccontato, le fotogeniche (radiogeniche?) emissarie dell'azienda mi avevano prospettato due strade. La prima, secondo loro vantaggiosa, consisteva in questa specie di aspettativa di un anno senza diritto alla conservazione del posto che pare sia tanto utilizzata qui in Austria. L'altra era il licenziamento classico. Da italiana malfidata, ho subito interpretato le due opzioni come un "o te ne vai o te ne vai", ma per gli asburgici, evidentemente, non è uguale.

In ogni caso, nello shock del momento, ho risposto che "ci dovevo pensare".
Quella formula lì, ich muss uberlegen, me l'ha suggerita il mio ex capo. Nei giorni precedenti, non so bene perché, mi ero detta che parlare in tedesco, o almeno provarci, in sede di trattativa sul mio destino di lavoratrice dipendente espatriata, mi avrebbe fatto fare una figura migliore.
Povera illusa. Avevano già deciso tutto, chissà da quanto tempo, poi.

Ma adesso la questione è un'altra.
Avrò detto davvero "uberlegen"? Se me l'ha suggerita l'ex capo, è probabile, nonostante la scarsissima fiducia che ripongo in lui in ogni campo dello scibile umano.

Fatto sta che sono giorni che mi chiedo se ho davvero detto quella frase e pure più volte, inebetita com'ero dalla situazione. 
Non avrò mica per caso detto "uber-denken"? E uber-denken esiste, oppure no?

Che domanda è?, direte voi. E avete ragione, ma mi dovete scusare: credo siano i primi effetti del corso di tedesco, graziosamente finanziatomi dall'Arbeitsmarketservice. Non mi pare vero che siano già passate le prime due settimane di lezioni. 

Posso ammetterlo molto candidamente: sono stanca morta, in queste giornate sono arrivata a casa lessa e spennata. Però sono molto contenta della classe e del prof. Poteva andare peggio e invece è andata bene, forse addirittura benissimo. Ma non voglio sbilanciarmi oltre.

Offuscata come sono dalla stanchezza, faccio ancora fatica a mettere a fuoco il mio stato d'animo. Ogni tanto mi sembra di essere finalmente protetta da forze benevole, ma quando lo penso, quasi quasi scaccio via il pensiero per paura che se ne vadano via di nuovo. Forze benevole, vi prego, no, restate ancora un po' con me, mi dico sotto voce.

Tra i segnali incoraggianti, il più significativo è la presenza nella mia classe di una giovane donna di Francavilla, simpatica e colta. Poi c'è una signora afghana, presumo la persona con l'età più vicina alla mia, insieme con la bosniaca che ho incontrato al test d'ingresso. Siamo noi tre, credo, le più adulte, ma giurerei di essere io la più vecchia. Quindi mi devono portare rispetto, e che diamine.

Tornando alle forze benevole, stamattina, per dire, ho incontrato un farmacista siciliano che mi ha spiegato come devo applicare le goccine sull'occhio acciaccato (l'offuscamento di cui sopra temo dipenda pure dall'infezione, o forse l'infezione è una conseguenza dell'offuscamento interiore? E chi lo sa).

E poi ho scoperto una parola buffa auf deutsch: Ramba - zamba. Pare significhi solletico. Anche i tedeschi ridono. Africaneggiando un po'.

Non parliamo, poi, del coro di cui faccio parte da qualche mese: mercoledì nel tardo pomeriggio sono uscita per andare a prendere la metropolitana, bollita come sempre. Bene: dopo un'oretta di esercizi per la voce e di gorgheggi settecenteschi (stiamo imparando la Missa brevis di Haydn, "nie bedeckt vorher", mai coperta prima), il mio umore è radicalmente cambiato.
Sulla metro del ritorno ho pure conosciuto una signora austriaca che conosce l'italiano, pure lei tornava dalle prove di un coro. Abita a pochissima distanza da me: ci siamo scambiate il numero, a breve ci rivedremo.

Insomma, qualcosa si muove, dentro e soprattutto intorno a me. Ne sono certa e anche se ci vado cauta, sento dentro, a ondate, una leggerezza nuova. 

Sarà per questo che ieri non ho sputato in faccia al mio ex capo, incontrandolo per caso sulla solita metro?

Me lo sono trovato davanti, non ho proprio potuto evitarlo, ed eccomi là a chiacchierarci normalmente, con lo stesso tono che usavo con lui al lavoro. Un tono a metà tra il formale e l'amichevole, distaccato quanto basta, un tono che non immaginavo di saper usare così bene.

Non ho provato nulla, né odio né ansia. Nulla. E questo mi ha sorpreso molto. Nei giorni scorsi mi dicevo: chissà come reagirò quando rivedrò i miei ex colleghi (non ho voluto più andare all'interspar davanti alla radio: le due volte che l'ho fatto mi sono trattenuta il minimo indispensabile e la prima mi sono nascosta tra gli scaffali per non farmi vedere dai giovani colleghi della Repubblica ceca, peraltro molto simpatici).
Magari non li saluto, mi dicevo, certo che no, non se lo meritano, e giù a congetturare possibili strategie difensive.

Invece, niente: tutto scivolato via, evaporato, direi meglio. 
Semplicemente, del destino di quell'uomo non mi importa nulla. Certo, se la radio fallisse, al momento penso ancora che brinderei e credo ancora che potrei avere qualche difficoltà in più con la vice, la collega - mamma, ma chissà. 

Il niente è niente, il vuoto lo si attraversa, poi tutto ritorna pieno e definito. Come il mio occhio quando sarà guarito. 

Avanti così, forze benevole. Aiutatemi a crederci davvero. 


venerdì 31 gennaio 2020

Disegnare cerchi nuovi. Con il pennello giusto


Ho scattato questa foto ieri dal secondo piano dell'Arbeits Market Service, l'Agenzia per il lavoro austriaca, a cinque minuti a piedi da casa mia.
Stavo aspettando con altra gente di essere ricevuta dalla mia tutor.
Perché qui funziona così: periodicamente ti convocano per controllare a che punto è la tua ricerca del lavoro. 
Nel mio caso, dovevo comunicare di aver sostenuto il test d'ingresso del corso di tedesco e l'assegnazione della mia futura classe.

Comincerò il 10 febbraio: dal lunedì al venerdì mi aspettano in una scuola convenzionata con il sistema pubblico, per un corso che, a detta di diversi miei conoscenti viennesi, dovrebbe essermi molto utile.

Scrivo queste righe per archiviare per sempre l'anno e mezzo passato e per tentare, davvero, di ricominciare daccapo. 

Facciamo finta, almeno ci proverò il più possibile, che io sia appena arrivata. Per certi aspetti, è proprio così, ma prima dovevo finire di completare almeno due dei cerchi che ho preso a tracciare il primo agosto 2018.

Quel giorno ho imboccato la stessa strada che ieri osservavo dall'alto, per andare in un hotel dove ho passato i miei primi quindici giorni da lavoratrice austriaca.
Ricordo con piacere le colazioni continentali e la mia stanza sottotetto, caldina, a dire la verità, senza aria condizionata, ma accogliente al punto giusto. 

Mi sentivo protetta e accolta, all'epoca, mi parevano tutti simpatici e disponibili. Il primo giorno sono entrata in azienda in contemporanea con un giovanissimo stagista. Biondissimo e nibelungico. Il mio ex capo mi ha chiesto, con una battuta: "E' tuo figlio?". Gli ho sorriso e forse ho bofonchiato pure qualcosa.

Solo dopo, conoscendo uno dopo l'altro, i miei giovani colleghi e soprattutto guardando l'età media dei dipendenti delle altre radio, ho capito che quella fuori luogo ero proprio io.

Più o meno in questo stesso periodo di un anno fa, tra l'altro, l'azienda mi ha versato uno stipendio ridotto di circa 500 euro addossandomi i costi della mia permanenza in hotel. L'equivoco aveva riguardato anche un giovane collega arrivato pochi mesi prima di me. Poi è stato tutto risolto, ma non sto a dirvi che shock è stato ritrovarsi senza denari da sola in una terra straniera.

Per giustificare il ritardo nel rimborso, il mio ex capo, che mi rimarrà per sempre impresso per la precisione delle informazioni che dispensava a profusione, oltre che per l'empatia e il coraggio, mi ha detto che era colpa della mia banca che non aveva fornito non so quale dato.
Non era vero niente. Però devo dargli atto di un gesto di disponibilità nei miei confronti: mi ha prestato lui i soldi che mi servivano per tornare qualche giorno in Italia. 
Ovviamente, io mi sono precipitata a restituirglieli prima possibile. Odio avere debiti, ancora di più con un quasi estraneo com'è rimasto lui per tutto il mio periodo lì.

Ma insomma, andiamo avanti. 

Ieri ho pubblicato la foto sullo stato Whatsapp del mio telefono austriaco. Per commentarla, ho scritto una frase in tedesco.
Sempre ammesso di averla composta correttamente, in italiano suonerebbe così: "la vita è strana: tutto è cominciato da qui un anno e mezzo fa". 
L'ha letta la mia padrona di casa, che abita sopra di me. Evidentemente, ha capito da dove l'ho scattata perché mi ha chiesto, in tedesco, naturlich, che cosa mi fosse successo.

Erano diversi giorni che avrei voluto dirle che ho perso il lavoro, ma non ne ho avuto il coraggio.
Mi sono vergognata molto.
Mi vergogno ancora molto. Mi secca di dover andare negli uffici a farmi controllare i documenti come se fossi una ladra di sussidi nordici. Mi scoccia di dover ripetere a chi non lo sa che in Italia, comunque, bene o male, avevo sempre lavorato, ma che i compensi mano mano erano diventati insostenibili.

Mi rompe moltissimo non essere ancora in grado di parlare decentemente in questa lingua, di mostrarmi sbattuta e infiacchita nell'animo e nel fisico a chi mi vede, o mi vedeva, come una persona serena e positiva ("solare"... uh, come detesto questa parola).

Però, per un altro verso, sono sollevata che l'abbia scoperto così, per via di una semplice foto. 
Ho potuto gettare la maschera, finalmente. E vorrei vederla di persona per dirle ancora meglio:"Es tut mir leid", mi dispiace, di essermi nascosta così.
Non sono certo la prima che perde il lavoro, forse sarà successo anche a lei, chi lo sa. E comunque, che importa? Io di certo non l'avrei mal giudicata.

Il fatto che è io mal giudico me stessa, questo è il punto. E forse, ma ci sto ancora riflettendo, se mi sono imbarcata in questa avventura lavorativa fallimentare, è stato per via proprio del non eccezionale giudizio che do a me stessa.

In tutti i modi, è andata. Dall'hotel all'Ams: questo cerchio si è chiuso.

Vi dicevo che ce n'era almeno un altro: eccolo qua. 

La scuola in cui andrò per il corso di tedesco si trova a venti minuti di autobus da casa mia. Secondo la mia futura compagna di classe che ho conosciuto al test d'ingresso (bella coincidenza: eravamo affianco all'esame, lei bosniaca, ottimo italiano: ci siamo scambiate il numero e ora ci ritroveremo insieme lì), si tratta di una buona scuola.

L'ho cercata su Google Maps, sperando che NON fosse nella zona che ho visto dallo stesso autobus che ho preso una volta per andare in uno studio medico. Perché se è vero che Vienna è bella, non è tutta bella, come capita, del resto, anche in Italia.

Bene. Non è proprio lì, ma si trova comunque in un punto simbolico. Me ne sono accorta solo ieri.
Poco lontano c'è il grande negozio di animali in cui sono stata l'anno scorso per comprare la toilette e le ciotole.
Mancavano circa quindici giorni al loro espatrio, insieme, naturalmente, al bipede.
Ci sono stata più o meno un anno fa, all'indomani della festa da ballo in abito lungo, la prima nella mia vita, con i miei giovani ex colleghi. 

Ho un bellissimo ricordo di quell'esperienza, una parentesi leggera dopo mesi faticosi e bui. 
Con le gambe di piombo mi sono trascinata lungo i marciapiedi grigi fino al capannone di questo grande magazzino per gli amici a quattrozampe. L'avevo scelto perché nei negozi vicino a casa di toilette con la calotta non ce n'erano. 

Stanca per il poco sonno, ma felice per gli acquisti, sono tornata a casa e poi sono andata a mangiare con i colleghi nella grande cucina della radio. Non volevo restare da sola, non ce la facevo più. E ai tempi c'era ancora la collega che poi ha rifiutato il contratto, prima della scadenza del periodo di prova. Era l'unica con cui mi sono sentita più a mio agio. Un altro segnale evidente di quanto fossi fuori luogo.

Ormai, fuori da quel luogo, ci sono davvero. Quindi lasciamolo andare. 

Nel momento in cui entrerò nella scuola, chiuderò il secondo cerchio. E tutto tornerà in ordine, almeno fino al nuovo che comincerò a tracciare chissà quando. O che forse ho cominciato già a tracciare, anche se ancora non lo so.

Nell'attesa di capirlo, sto cercando di procurarmi per lo meno un pennello più spesso per lasciare tracce certe. Nitide e brillanti.
Non so se saranno indelebili, perché, lo so, nulla è eterno.

Vorrei solo che fosse più decisa la mia battaglia contro i fantasmi. Contro la paura, che ogni tanto si tramuta in panico, anche se, devo dirlo, solo per brevi istanti.

Vorrei vincere, insomma, qualunque cosa significhi questa parola.

Corro a procurarmi la vernice giusta.
Venite con me?






domenica 19 gennaio 2020

Lavorare a Vienna? Non a Radio Max



PREMESSA 

Non dovrei scrivere questo post nel giorno del funerale di zia Zita, o forse è proprio la giornata adatta, visto che non posso essere lì con la mia famiglia a salutarla.

Nel 2018 mi sono trasferita a Vienna per lavoro. Gli amici transitati da qui, naturalmente, lo sanno.

Il testo che state leggendo, però, è destinato, potenzialmente, anche a chi non mi conosce.

Ho maturato la decisione di scriverlo già durante i lunghi giorni del licenziamento. Lunghi, metaforicamente parlando, e non solo.

Ho finito di lavorare per Radio Max il 15 dicembre scorso, ma di quello che mi sarebbe successo un mese fa sapevo già da metà ottobre.

Prima di scrivere il seguito della storia accennata nel mio precedente passaggio sul blog, volevo trovare la chiave giusta da dare alle mie parole.

Desideravo che emergesse non tanto, o non solo, la rabbia provata quando ho capito che mi stavano buttando fuori, quanto essere utile ad altri che per qualche ragione abbiano deciso di trasferirsi all'estero, spero non per lavorare a Radio Max.



LA RECLUTATRICE E IL CASTING

Partiamo dall'inizio, ossia il modo in cui ho scoperto l'esistenza di una possibilità di lavoro qui a Vienna.

Intanto: che cosa sarei andata a fare? La speaker per la radio di una catena di supermercati. Si trattava di qualcosa di completamente nuovo per me, ma anche una sfida interessante, all'apparenza, che mi avrebbe permesso di maturare un'esperienza diversa, restando comunque più o meno all'interno del travagliato settore dei media.

A segnalarmi la potenziale grande occasione, una conoscente che aveva a che fare con l'azienda: sulla carta una persona fidata, di cui avevo perso le tracce da molti anni. A dire la verità, l'avevo del tutto rimossa dalla mia memoria. Una volta che mi è sovvenuto di chi si trattasse, mi è sembrato che il casting al quale mi ha fatto candidare fosse l'occasione giusta per uscire dalla cronica precarietà.

Tutto sommato, del giorno del colloquio ho un buon ricordo: prima di allora, mi era stato chiesto di inviare una demo. Sulla base di quanto mandato, mi hanno chiamato a Vienna e mi hanno sottoposta a varie prove, compresa la compilazione di un test di cultura generale (non ricordavo chi fosse il ministro dell'Interno, un errore veniale tutto considerato, vista l'instabilità politica nazionale. Rammento invece di aver trovato un sinonimo di sapore letterario a una parola, che a posteriori immagino non sarà piaciuto). Ultima domanda del mio futuro datore di lavoro: qual è l'ultimo libro che hai letto.

Insomma, sembrava davvero gente seria, tanto più che mi hanno chiesto anche quanto mi aspettavo di guadagnare al mese, illustrandomi poi orario di lavoro e altri dettagli pratici. Poi mi hanno domandato qualcosa dei miei interessi e hanno indagato sulla mia indole: con molta onestà, ho persino ammesso di essere una persona emotiva, ma di aver sviluppato doti di resilienza sempre maggiori anche per via delle mie vicende familiari. 

A fine colloquio, il futuro capo mi dice che mi avrebbe fatto sapere qualcosa a fine mese o poco più. Bene: finisce il mese, ma niente, nessuna notizia. Lì avrei dovuto farmi furba e tentare di prendere qualche informazione in più. Credo di averci provato, navigando su internet, ma dal sito ufficiale di Radio Max si ricavano solo impressioni positive. Non vi dico, poi, che effetto pazzesco fa la sede su gente da secoli adusa ad ambienti di lavoro scalcagnati o alla propria scrivania 012 comprata al Mercatone.


AUF WIEDERSEHEN, ITALIA

Ma andiamo avanti. Saltando qualche passaggio, a inizio luglio 2018 mi arriva la lieta novella. Qualche giorno prima sembrava tutto bloccato, almeno secondo quanto mi aveva riferito la reclutatrice durante una lunghissima telefonata. 

Rammento bene quel momento: ero in bici, cuffie nelle orecchie. Mi sono dovuta fermare per capire bene di che diavolo stesse parlando. Tra le altre cose, mi riferisce che la radio aveva rischiato di diventare automatica. In quella ipotesi, chiaramente, non avrebbero avuto più bisogno di molto personale, forse nemmeno di lei. Invece la reclutatrice mi tranquillizza e mi dice: tutto è stato risolto e ora ripartiremo più forti di prima. E vai.

In una calda giornata di inizio luglio, ero sul balcone (il mio amatissimo balcone) a tentare di finire "Luce d'agosto" di Faulkner (qualche giorno dopo ci sarebbe stato l'incontro con il gruppo lettura di cui facevo parte). 
Mi squilla il telefono: è Vienna! A voce, il mio futuro capo mi comunica che mi vogliono su e mi anticipa il contenuto della mail che mi sarebbe arrivata di lì a poco.

Nel testo della mail, che ho conservato, mi si prospetta un contratto di due anni, con eventuale possibilità di prosecuzione futura, stipendio lordo 2.300 euro mensili, orario giornaliero 7 ore e 45 minuti circa, con turni di cinque giorni a settimana, esclusa la domenica. Tredicesima e quattordicesima inclusi. E mi accenna anche all'esistenza di un costo iniziale per la mia formazione di settemila euro, che si sarebbe ridotto via via con il passare del biennio.

Alla fine mi chiede di comunicare in un tempo congruo quando avrei potuto cominciare e mi offre 15 giorni di permanenza a spese dell'azienda in un hotel nelle vicinanze del posto di lavoro.

Un sogno, praticamente. Mi lancio all'avventura nemmeno un mese dopo, cieca e sorda alle vocine contrarie interiori e di alcuni dei miei affetti più cari.


LEGGI DIVERSE, AHIAI

L'errore più marchiano, lo riconosco, è non essermi informata prima su quali siano le condizioni contrattuali praticate in terra asburgica e su quali siano i documenti necessari per restarci abbastanza a lungo. Ai tempi non pensavo ancora al trasferimento anche del resto della famiglia, anche se era una possibilità concreta di cui chiaramente avevamo parlato.

In ogni modo, la reclutatrice mi aveva assicurato che avrei trovato un ambiente accogliente, familiare, per cui non mi sarei dovuta preoccupare di nulla. Ed io le ho creduto. E sono andata, organizzando prima una festa con le amiche e un pranzo di compleanno con tutta la mia famiglia al mare, dove era venuta anche zia Zita con la sua Princess, la sua bianca cagnolina Sissi.


WILLKOMMEN, FRAU CICALINI

Comincio a lavorare il primo agosto. Mi aspettano alle 9. Nello stesso ufficio del personale in cui un anno e cinque mesi dopo mi hanno fatto vedere la bozza delle lettera di licenziamento, mi sottopongono una versione facsimile in inglese del contratto che avrei dovuto firmare in tedesco. Con quella mi danno anche l'altro foglio, poi consegnatomi in una busta: sopra c'è la dicitura "confidential".

In poche righe, sempre in inglese, sotto le quali incautamente appongo la mia firma, c'era scritto che i miei primi due anni di lavoro erano considerati un "training", una formazione, del valore iniziale di 7 mila euro, che sarebbero andati a scalare man mano che passavano i mesi. Ossia quello che mi era stato anticipato via mail.

Non avevo mai sentito di accordi del genere, naturalmente, ma pensavo, ok, sarà una formalità richiesta dalla legislazione asburgica. Grave, gravissimo errore.

Scopro, peraltro, anche un altro fatto, insieme con il mio ex datore di lavoro (che pare cadere dalle nuvole, ma chissà): ossia che dopo il periodo di prova classico di tre mesi, il mio contratto sarebbe stato a tempo indeterminato. Caspita, mi dico, ho fatto tredici: w la civile Austria, ora sì che si svolta!

E mi butto nella ricerca della casa, assistita da una collega, così collaborativa, dolce e sorridente. Almeno all'apparenza: di lei la reclutatrice mi aveva parlato come di una sorta di "mamma" su cui fare affidamento per tutto. Considerando che ha nove anni meno di me, sarebbe stato ben strano, ma vabbè, crediamoci, mi dicevo.  

Grazie alla collega-mamma, effettivamente, riesco a passare dall'hotel all'alloggio nel quale abito tuttora senza soluzione di continuità (affitto mensile 590 euro, acqua e spazzatura compresi, buono per Vienna, non così poco per una persona che veniva dalla provincia, peraltro libera dal vincolo degli affitti solo da pochi anni).

La mamma putativa mi ha scortata addirittura dagli agenti immobiliari per la firma del contratto e in seguito mi ha anche aiutato con i gatti. Per l'aiuto che mi ha dato, le ho fatto dei regali, sentendomi comunque sempre un po' in debito anche quando ho realizzato che di me e del mio destino, alla fine della fiera, non poteva fregargliene di meno. Era l'azienda la sua vera ragione di vita, in nome del gruppo forse le è stato proprio imposto di dare una mano ai novizi.

In tutti i modi, comincio a lavorare, felice di trovarmi un ambiente giovane, tra ragazzi carini e accoglienti.

Qualche perplessità verso gli asburgici, in verità, la nutro subito, ma l'attribuisco all'incapacità di parlare la loro lingua, aiutata parzialmente dal mio inglese non così terribile, ma nemmeno eccellente.


CHE CI FACCIO QUI?

Con il passare del tempo, però, i dubbi aumentano, non tanto sulle persone (pian piano riesco a comunicare, con qualcuno di più qualcuno meno), ma sul lavoro.

Comincio a trovarlo ripetitivo, anche perché le mie mansioni non sono esattamente le stesse dei miei colleghi, per cui prendo ad interrogarmi sempre più spesso se vada davvero bene per me.

Trascorsi i tre mesi del periodo di prova, comunque, nessuno obietta alcunché, quindi io presumo che vada tutto bene.

E invece non è così, così non è stato. Ma andiamo avanti.


LA FORMAZIONE INFINITA

Periodicamente, ho rivisto qui a Vienna la reclutatrice, titolare della famosa formazione. Ho seguito le sue lezioni, cercando di applicare i consigli che mi ha dispensato per potenziare la voce, alternando il lavoro quotidiano a svariate ore di registrazione, indispensabili, secondo quanto mi era stato detto, per diventare una speaker completa.

Ammetto di non avere nascosto le mie perplessità anche con lei, ma, ripeto, senza mai sottrarmi ai miei compiti. Di sicuro non avrei dovuto parlargliene, conoscendo ormai assai bene il personaggio, ma così è stato. 


IO TI SALVERO' (o l'arrivo di marito e gatti)

Nel frattempo, forte del mio contratto a tempo indeterminato, ho spinto mio marito a raggiungermi, come ho raccontato nel precedente post, dal quale si capisce in quali condizioni psicofisiche versassi proprio in questi stessi giorni di un anno fa.

Abbiamo chiuso la casa al mare, lasciato la nostra macchina per strada, e con i nostri gatti e i suoi pochi bagagli, nel febbraio dell'anno scorso abbiamo ricominciato la nostra vita da qua.

Non si può dire che ci siamo annoiati.


L'INCUBO DOCUMENTI, PARTE SECONDA 

Mentre procedeva il count-down verso il mio licenziamento, abbiamo dovuto affrontare una serie di pastoie burocratiche che neanche Kafka.

Prima di tutto: i documenti di residenza per lui, possibili in quanto familiare ricongiunto e non come lavoratore.

Per averli, bisognava esibire il certificato di matrimonio plurilingue nella versione valida per i paesi teutonici. Facile, direte voi. Come no.

Me lo spediscono via mail con tanto di Pec (in doppia versione, ché non si poteva mai sapere), con quello torniamo dal Magistrat, facendoci una fila da medio ospedale italiano che non avete idea. Nichts, non va bene. Warum? "Noi Folère orighinalen". Ma come? In Italien noi abbiamo la Pec, "Non ci freka niente. Solo orighinalen!".

Richiamo il Comune del matrimonio e me lo faccio spedire. Niente, nichts, non mi arriva. E in questo caso chissà chi è messo peggio, se Poste italiane o Poste austriache: io ho la sensazione che il primato in negativo spetti a noi, ma qualche dubbio ce l'ho, considerato quanto qui siano ottusamente fissati con numeri civici, porte e codici postali.

Per risolvere la faccenda, me lo faccio spedire una seconda volta in Italia da mio padre, che poi me lo rispedisce a Vienna via corriere privato. Documenti completati, il consorte può ottenere "l'Anmeldebescheinung" (la conferma del permesso di soggiorno) che gli dà diritto alla e-card, indispensabile per lavorare e per ricevere l'assistenza sanitaria. Vielen Dank.

All'orizzonte, però, si profila una grana molto più spinosa, stavolta di tipo economico: per la Kranken Kassa lo sciagurato consorte risulta a mio carico fin dal primo giorno in cui sono arrivata io, non dal giorno in cui è arrivato lui, come attestava il suo "Meldezettel", ossia il primo pezzo di carta che ti rilasciano al tuo arrivo  in Austria.  

Orrore e raccapriccio. Anche perché me ne sono accorta tardi, tornando a casa mia dopo mesi: avendo mantenuto lì la residenza, lì arrivano i documenti ufficiali. Quando lo scopro, il debito accumulato per la sua sanità è già piuttosto alto. Adesso non mi ricordo più la cifra esatta, comunque superava i mille euro. Una vera rogna. E adesso come la risolviamo?

Richiedo l'aiuto della collega-mamma, che riesce per lo meno a farsi dare un contatto mail della sanità viennese al quale scrivere per farmi mandare la posta a Vienna e per cercare di rettificare i dati di mio marito. La posta prende ad arrivarmi qui, ma niente, il debito continua a crescere.


Il MITOLOGICO MODELLO E104

Mi decido a scrivere io direttamente alla mail, usando il mio tedesco scolastico, con il supporto di google translator (gli impiegati pubblici sono obbligati a parlarti in tedesco, dimenticavo questo dettaglio abbastanza importante). Tra gli aspetti positivi della burocrazia asburgica, c'è il fatto che ti rispondono sempre. 
Mi dicono che devo rivolgermi alla Asl della mia città di residenza per farmi rilasciare il modello E104, il mitologico modello: basterà che glielo alleghi via mail ed è pace fatta.

Mi metto all'opera. Anche nella provincia italiana (marchigiana) ti rispondono subito, almeno in certi uffici. Durante una breve vacanza italiana, diverso tempo dopo, vado personalmente a ritirare il papier nella Asl di via Zeppilli a Fermo: mi riceve una signora cortese ed elegante, dicendomi anche che è la prima volta che le capita un caso del genere. Di solito le città e i paesi di emigrazione scelti dai locali sono altri. Eh, signora mia, a saperlo mi sarei volentieri risparmiata di essere un'anomalia statistica.

Comunque, anche questa è fatta: a fine giugno o giù di lì ricalcolano il debito per il marito ricongiunto.


AMS, SE LO CONOSCI LO EVITI

Il qual marito, nel frattempo, si è sottoposto alla tortura dell'Arbeit Market Service, l'agenzia austriaca per la ricerca del lavoro, un luogo, una istituzione di sapore paramilitare, che non piace nemmeno ai nativi. Mi domando, sarcasticamente, perché.

Mentre lui si consuma le meningi per imparare i primi rudimenti di tedesco, io riesco a frequentare un corso di un mese con i buoni della Camera del Lavoro. Per riuscire ad averli, mi ci è voluto l'aiuto di una giovane collega di origine bulgara, che parla un italiano praticamente da madrelingua. Come vi dicevo, qualche persona positiva l'ho trovata a Radio Max. E il corso è davvero una boccata d'ossigeno per me. 

MA LA ROUTINE CONTINUA 

Tra pochi alti (la mezza maratona e il concerto di Mark Knopfler il giorno del nostro anniversario) e molti bassi (giornate e giornate di inutili news e oroscopi fasulli, farlocchi esercizi per la voce e registrazioni su registrazioni di simulazione della diretta), passa l'estate.

A settembre rivedo la reclutatrice per le periodiche lezioni formative. Alla fine di una lunghissima giornata, le chiedo, alla presenza della collega-mamma: "Quando vado in onda?". "Dipende da te", la sua risposta, e mi fa capire che, comunque, ormai ci siamo. Manca pochissimo, pochissimissimo.  E mi dà un'altra serie di esercizi per migliorare le mie performance vocali. Soprattutto, i famosi "scarti di tono" che non sto qui a spiegarvi. Ingoio il rospo e ricomincio a farli. Per fortuna ancora per poco.


COMING SOON 

A grandi passi si avvicina il compimento dello psicodramma.

Il primo segnale si manifesta venerdì 11 ottobre, intorno alle 16.30-17.

Il mio ex capo manda una mail a tutto il gruppo di lavoro, mettendo in copia il direttore di Radio Max e la responsabile delle risorse umane. Ci convoca per una riunione alla quale dovevamo essere tutti presenti, prevista il martedì successivo alle 9.30.

Capisco immediatamente di che cosa si tratti, ma cerco di mantenermi calma. Anche i miei colleghi non sembrano molto tranquilli, vista l'ufficialità del messaggio.

Tra i grandi pregi del mio ex capo, sopra tutti c'è il suo coraggio da leone. Sapete quando ci ha mandato la mail? Un attimo prima di andarsene, diretto all'aeroporto per un breve viaggio di famiglia. Immaginatevi la nostra perplessità quando il lunedì seguente, anziché dirci qualcosa sul contenuto della riunione, ci mostra le foto delle vacanze dal suo telefonino. L'altra sua notevole qualità è l'empatia, d'altra parte.

Un piccolo dettaglio, dimenticavo. In ufficio c'era anche la collega-mamma. Un'altra collega, la bionda palermitana che ha condiviso con me il piacere del licenziamento, le ha chiesto lumi sulla riunione della settimana successiva. Anche in questo caso, coraggio da leone: "Lo scoprirete martedì", dice fissando lo schermo del computer. Il suo imbarazzo, almeno quello, è evidente.

Arriva il famoso martedì.

Stanza del piano superiore, quella delle grandi riunioni.

Presenti la coordinatrice dei programmi, che l'anno prima mi aveva fatto il colloquio con i capi italiani, e la responsabile del personale. Nessuna traccia del direttore di Radio Max.

Sulla parete è proiettata una enorme slide con la scritta "Penny FM 2020".

In tedesco, con la traduzione simultanea della collega-mamma, ci dicono che la situazione economica di Penny Market non è buona e che, nonostante tutti gli sforzi fatti, nel nuovo anno avrebbero dovuto fare a meno di tre di noi. I saltati, però, non dovevano preoccuparsi: per loro ci sarebbe stata una "consistente buonuscita", unita alla possibilità di ottenere una specie di aspettativa di un anno (qui la chiamano "bildungskarenz) percependo un assegno mensile pari a circa l'80% dello stipendio, dietro l'obbligo di frequentare un corso di formazione-riqualificazione e senza diritto alla conservazione del posto di lavoro.

L'altra strada era il licenziamento classico, che in Austria dà accesso all'assegno di disoccupazione della durata variabile a seconda del periodo lavorato, comunque mai al di sotto di un anno, del valore pari a circa l'80% dello stipendio, o poco meno.

La tizia ci dice, naturalmente, di essere dispiaciuta, visto che Penny FM è stata tra le radio fondatrici di Radio Max. Poi aggiunge che di lì a pochi giorni sarebbero cominciati i colloqui per capire chi tra noi fosse interessato a restare e chi no.

Esco da lì ben consapevole che tra tutte la mia posizione era la più debole, visto che non avevo completato la famosa formazione.

Sapevo che la mia testa sarebbe saltata.


I COLLOQUI FARLOCCHI

Il nostro capo ci convoca per i colloqui. Il mio si sarebbe tenuto il lunedì successivo. Quel giorno avevo brigato per organizzare una nostra visita all'ambasciata italiana, per ricambiare quella che l'ambasciatore mesi prima aveva fatto a noi.

Dopo aver saputo quando avrei avuto il colloquio, i miei anticorpi vacillano e mi prendo due giorni di malattia.

Non l'avessi mai fatto. Nell'ordine hanno provato a cercarmi, l'ex capo, la collega-mamma e addirittura, alle dieci di sera, la reclutatrice. Non ho risposto nell'immediato a nessuno, se non alla fine dicendo che, naturalmente, avrei avuto tutto l'interesse a continuare a lavorare. Si quietano. Tanto lo sanno che il mio destino è segnato. Durante il fine settimana mi preparo spiritualmente al colloquio, ripetendomi mentalmente il discorsetto che avrei tenuto quando mi avessero chiesto le mie intenzioni.

Il lunedì mattina del 21 ottobre mi vesto anche "bene", con tailleur nero nuovo, anche in vista della visita all'ambasciata. Dopo le solite news registrate, vado al piano di sopra con il capo. Presenti la bionda coordinatrice del personale e la bionda delle risorse umane.


CICALINI RAUS

La prima non mi dà il tempo di dire nulla e mi comunica in tedesco che è molto dispiaciuta di dovermi dire che devono fare a meno di me. Benservito. Poi mi parlano della bildungskarenz e della "ricca" buonuscita finale (alla fine sapete quant'era? 1.800 euro netti. ESTICAZZI. Ma tanto, ho scoperto dopo, per la legislazione austriaca le aziende non sono tenute a darti un euro: se lo fanno, è pura liberalità).

Esco da lì in trance.

E adesso? Quindici giorni prima mio marito ha cominciato a lavorare: ha un contratto "minore" (geringefugig, come lo chiamano qui), ma è pur sempre un inizio. Bella roba.

Comincia a montarmi la rabbia. Per prima cosa, mi tiro indietro dalla visita all'ambasciata: non ho proprio niente da festeggiare.

Rifiuto subito, mentalmente e in seguito materialmente, la prospettiva della bildungskarenz: posso restare vincolata alla mia età alla frequenza di un corso di un anno in un paese straniero e senza la sicurezza di riuscire in seguito a reimpiegarmi? Cerco allora di capire se la buonuscita mi spetta anche qualora mi faccia licenziare, anche perché, in caso di rientro in patria, sapevo già che avrei avuto accesso all'indennità di disoccupazione solo in questa ipotesi.


ARBEITER KAMMER, AIUTAMI TU

Prima di prendere la decisione finale, scelgo di consultare la Camera del Lavoro di Vienna, la stessa che mi ha fornito il corso di tedesco con i buoni.

Mi fissano un appuntamento quasi quindici giorni dopo, durante i quali prendo tempo con l'azienda, prima di firmare qualsiasi cosa.

Una avvocata molto carina accoglie me, mio marito e una signora italiana conosciuta sul Nightjet con cui ho stretto amicizia, che vive a Vienna da molti anni: le ho chiesto il favore di essere presente per essere sicura di capire bene quello che mi avrebbe detto.

Per prima cosa l'avvocata mi ribadisce che le ferie prenotate a novembre, anche se non ancora maturate del tutto, ormai mi spettano. Poi mi dice che in Austria è molto più facile assumere esattamente come licenziare e che, alla fin fine, per l'uno e per l'altro, almeno inizialmente, basta un accordo a voce.

Poi mi dice un'altra cosa, dal mio punto di vista piuttosto sconvolgente, quando le mostro l'accordo riservato.

Mi dice che la cifra che mi hanno chiesto è eccessiva, mi spiega che me l'avrebbero potuta chiedere solo se l'azienda mi avesse mandato a frequentare fuori un corso, con tanto di attestato finale.

In pratica, l'accordo riservato era carta straccia. Se me ne fossi andata prima della fine dei due anni, non avrebbero potuto richiedermi indietro nemmeno un centesimo. Un penny.

In conclusione, osserva l'avvocata, già con il colloquio del 21 ottobre è cominciato a decorrere il periodo di tempo di sei settimane necessarie al datore di lavoro per mandarmi via. Secondo i suoi calcoli, posso perciò smettere di lavorare il 15 dicembre. Mi prepara quindi il testo di una lettera da spedire con raccomandata e ricevuta di ritorno, per garantirmi di terminare il rapporto in quella data. Mi fa presente che solo così riuscirò ad attivare prima possibile la pratica con l'Ams per l'assegno di disoccupazione, anche perché sotto Natale gli uffici pubblici chiudono, quindi avrei rischiato di dover rimandare tutto a dopo la fine del 2019.

Leggo attentamente la lettera che mi ha preparato, la faccio leggere alla mia amica, la firmo e una volta a casa la spedisco.

Dopo qualche giorno mi arriva la cartolina del ricevimento. E dico: ok, l'incubo sta per finire.

Invece no: l'azienda rifiuta la mia raccomandata, ma alla fine acconsente a farmi andare via il 15 dicembre, anche perché, a pensarci bene, gli costo pure di meno.

Tutto questo lo racconto solo per un motivo: è difficile spiegarsi in un'altra lingua, tanto più che sono costretta a tornare una seconda volta dalla tizia della Camera del Lavoro, stavolta solo con mio marito.


SODDISFATTA E LICENZIATA 

A quel punto ho la lettera di licenziamento in mano e lei mi dice che è tutto in regola. Precisa anche che quell'azienda non è affatto la peggiore tra quelle che di cui le hanno raccontato altre persone.

Con la coda tra le gambe, me ne torno a casa. Sinceramente, se avessi avuto qualche pezza d'appoggio per chiedere una specie di risarcimento del danno materiale e morale, l'avrei fatto. E del resto, durante il primo incontro, la bella avvocata mi ha detto che ogni volta che ha avuto a che fare con gli italiani li ha trovati molto incazzati per le divergenze tra la loro e la nostra legislazione del lavoro.

Ma, appunto, bisogna andare oltre la rabbia e cercare di concludere questo lungo resoconto con il giusto tono.

Prima di iscrivermi all'Ams, cosa che ho fatto l'ultima settimana di lavoro con impressionante rapidità, ho approfondito la trafila italiana.


NON HAI I TUOI CONTRIBUTI? NIENTE INPGI

Prima di tutto, ho chiesto lumi all'Inpgi, la previdenza dei giornalisti.

Nulla da fare: niente sussidio con loro, perché l'azienda avrebbe dovuto "ridarmi" i contributi versati, cosa che farà solo 36 mesi dopo il mio primo giorno di lavoro. Campa cavallo.

Poco meglio mi è andata con l'Inps, la previdenza ordinaria, che mi ha prospettato una indennità per rimpatriati, pari al 30% dello stipendio mensile, da attivare entro 180 dalla data di cessazione del rapporto, al netto di quanto eventualmente percepito qui in Austria. In sostanza, pochi spiccioli.

L'unica strada praticabile, insomma, era l'Ams. Da pochi giorni sono entrata nel fantasmatico mondo dei disoccupati asburgici: se e quando avrò voglia vi tedierò con le cronache dalla stanza 2016, quella in cui c'è la mia "beraterin", la mia tutor, quella dell'altra volta (tale Denise, unghie laccate e sguardo assente) o chi ne farà le veci.

 EFFETTI COLLATERALI 

In tutto ciò, non sono potuta essere a Chieti quando mio padre aveva bisogno, nei giorni di ferie che avevo preso apposta per quel motivo, inchiodata a una surreale trattativa con un'azienda che si presenta bene ma razzola male, malissimo nel mio caso.


VIELEN DANK DALLA MIA AUTOSTIMA

Suppongo che per i due giovani colleghi mandati a casa con me, il ricordo delle gesta di capi e capetti sia molto diverso ed è in fondo comprensibile. Loro almeno andavano in onda, da anni: la famosa formazione, nel loro caso, era completa da un pezzo. Niente spada di Damocle della penale, per loro, e più chance per accedere alla Naspi. Amara consolazione anche per loro, forse, ma tant'è.

Io mi sono beccata anche una lettera di referenze inutilizzabile, visto che hanno valutato il mio lavoro come "sehr gut", poco più della sufficienza, se è vero quello che mi ha detto la collega carina di origine bulgara, ossia che in Austria non si possono dare mai valutazioni negative.

Se ti danno "gut", mi ha spiegato, significa che "hai fatto cagare". Benissimo, la mia autostima vi ringrazia.

Ma andiamo avanti con il racconto.


CHIARIMENTI, PROMESSE, LACRIME

In una torrida giornata estiva, ho voluto incontrare il mio ex capo per esprimergli tutte le perplessità sul lavoro: gli ho detto chiaramente che se non ci fosse stato il vincolo della penale, molto probabilmente me ne sarei andata tempo prima (prima di trascinare a Vienna anche mio marito e i gatti, of course), ma che ovviamente, essendo io una persona seria e responsabile, non l'avevo fatto. 

Avevo invece tutta l'intenzione di andare avanti, visto che ormai la mia vita era qui, ma che era indispensabile per me non essere più trattata come l'asina della classe.  

L'ex capo ha messo su una faccia contrita e stupita, poi se n'è uscito con la solenne promessa che, al rientro dalle ferie, lui personalmente sarebbe venuto con me nello studio di registrazione per aiutarmi a completare la famosa formazione da speaker. Sapete quante volte è venuto? Nemmeno una.

Il giorno seguente ho incontrato la vice, sempre lei, la collega-mamma, e le ho fatto lo stesso discorso: si è fatta uscire pure delle lacrime e poi ci siamo abbracciate come due patetiche adolescenti prolungate. E pure lei mi ha assicurato, intanto, che ormai ero "vicinissima alla diretta" (anche se si è fatta sfuggire un "è colpa tua se non sei ancora andata in onda". Inevitabile la mia reazione: "Non parliamo di colpe, non è proprio il caso", detto con occhi di fuoco) e che tutto stava per risolversi al meglio.

Parzialmente sollevata dalle loro promesse e rassicurazioni, ho festeggiato il mio compleanno in Italia e poi me ne sono tornata qui passando agosto e buona parte di settembre tra news, oroscopi, esercizi e simulazioni. Convinta che ormai la diretta fosse vicina.

Ma ormai tutto questo è storia.

Fuori nevica, mentre a Chieti stanno dando l'ultimo saluto a zia Zita. Ho commesso l'errore di scrivere di lei su Facebook: mi è sembrato di violare la sua privacy, ma posso assicurarvi che il mio dolore è autentico.

Per colpa di questa gente, diciamola tutta, sono qui a scrivere di lei e non al suo funerale.

Non mi era mai capitato di essere trattata così e spero che non mi capiti mai più. 

Ma ora è davvero tempo di chiudere, questo post e questa storia.


UN TAGLIO DOPO L'ALTRO

Giusto una postilla finale: Radio Max ha tagliato personale anche nei gruppi di altri Paesi. Non è la prima volta che agisce così: mi è stato riferito che già due anni fa, o comunque poco prima che io arrivassi, era successo qualcosa del genere. 

Dubito che non sapessero, perciò, che le acque nel mercato della grande distribuzione fossero un tantino agitate anche dopo, ai tempi del mio casting e del successivo trasferimento. 

E del resto si sa che il lavoro può cambiare e per un giovane non è un grosso problema rimettersi in gioco per trovare qualcos'altro.

E poi ero io fuori luogo, ve l'ho detto.

Non avrebbero dovuto assumermi. Tutto qua. 

Ormai è andata, e in fondo, di loro non mi importa più.


VERRA' UN GIORNO 

Una piccola soddisfazione, però, vorrei prendermela.

Lavorando per loro ho scoperto che i bilanci annuali delle aziende, almeno in Austria, vengono presentati a settembre. Se sarò ancora qui per quella data, voglio proprio vedere se il neon luminescente verdognolo sopra il grande portone d'ingresso della magnificente sede sarà ancora acceso.

Se non dovesse esserlo, PROSIT con champagne.

Nella eventualità tragica in cui io sia diventata nel frattempo un caso sociale per l'Ams (entro giugno mi devo ricollocare o ciccia, fine del sussidio), mi accontenterò anche del Tavernello.

Comprato da Interspar o Hofer, la concorrenza. Dove naturalmente vanno anche tutti i dipendenti di Radio Max, salvo nascondere i prodotti incriminati durante qualche visita ufficiale dei super manager.

Ma su questo, in fondo, non c'è di che stupirsi.

E' solo marketing, schoene Leute.