Visualizzazione post con etichetta giovani. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta giovani. Mostra tutti i post

mercoledì 28 febbraio 2018

Il concorso Inps? Semplice come Peppe



Non avevo mai visto lo spot della ministra Madia e ignoravo, almeno fino all'altro ieri, chi fosse Peppe. Adesso credo che non lo dimenticherò mai più.

A imprimermelo per sempre nella memoria ci ha pensato la preselezione Inps, alla quale mi sono molto incautamente iscritta.

Non starò qui a ripercorrere le solite tappe delle sfighe professionali che mi hanno portato a partecipare a questo grande rito ordalico. Mi limito solo a narrarvi le tappe di una giornata cominciata intorno alle cinque e trenta nella nostra beneamata capitale d'Italia.

Faccio una buona colazione, comprensiva di arancia iniziale e tisana finale, e mi avvio verso la stazione di Tiburtina. E' la mattina seguente all'arrivo del Burian.

Scopro che il treno che avrei dovuto prendere è stato cancellato, ma poco male: sono approdata sui binari talmente presto grazie all'incredibile palesarsi del 71, autobus noto per i suoi epici ritardi, da riuscire a prendere la corsa prima. Bardata come Armaduck, o come diavolo si scrive.

Penso: tutto questo è un segno, la selezione andrà alla grande e io sarò presto seduta sullo scranno più vicino a mister Boeri. 

Tu chiamale se vuoi, illusioni.

Sbarcata in zona fiera, una landa desolata che con quelle macchie di ghiaccio a leopardo fa tanto pensare alla Svezia di Rebecka Martinssonn, il pm più scoglionato dei gialli di Giallo, seguo la scia umana verso l'area est.

Impossibile sbagliare, a patto di non seguire il gruppuscolo che, non si sa perché, entra in una malinconica area di servizio anziché seguire, come facciamo io e un giovane candidato con una bizzarra sciarpa a stelle e strisce, un altro dotato di navigatore, che il suddetto tiene fisso davanti agli occhi come un breviario.

Dunque, ci siamo. E io realizzo, e lo svelo pure al succitato giovane con sciarpa yankee prima di lasciarlo andare al suo destino, che io, in quell'ameno posto, ci sono già stata.

E già. Sette anni fa, o quasi. All'ennesima crisi di rigetto per un lavoro che non dà uno straccio di sicurezza a meno di non avere la botta di culo (e la bravura, certo) di farsi incollare il deretano su una sedia delle poche testate giornalistiche (degne di questo nome) rimaste.

Quella volta era l'Istat e pure quella volta, accucchiai un po' di giorni per riesumare nozioni varie aritmetico-universitarie, a questo giro condite anche con un pizzico di geografia, storia, letteratura italiana da liceo e, udite udite, educazione civica, una materia che non pensavo nemmeno si studiasse più.

Non avevo molte chance, diciamolo, ed è anche per questo che man mano che si avvicinava la giornata di tregenda che sto per descrivervi, saliva in me sempre di più il desiderio di battere in ritirata.

Eppure, non mi piaceva l'idea di aver speso sedici euro (fortuna lo sconto feltrinelli) per comprarmi il manuale dei quiz più striminzito di tutti quelli in commercio (usciti, da notare, ben prima che si rendessero note le date della preselezione) né di averne buttati quasi 150 per prendermi l'ennesima certificazione di inglese, prerequisito (contestatissimo) per poter partecipare al concorso.

A dirla tutta, manco quella mi è riuscita bene, visto che ho ottenuto un B2 parziale che a volermi fare le pulci, mi dovevano contestare subito, così ci mettevo subito una pietra sopra.

Ma i riti di iniziazione verso la nuova, luminosa vita che mi aspetta andavano compiuti fino in fondo, quindi mi appropinquo all'ingresso della fiera. Quand'ecco che scorgo una faccia nota a poca distanza da me.

Appena prima, vedo un microfono con la scritta bianca su sfondo verde che recita: ANSA. Lo tiene in pugno una donna bionda. Accanto a lei, eccolo là: coppola su cappottino scuro di buon taglio, sorriso smagliante e aperto come un tempo sui capelli ingrigiti e corti. E pensare che una ventina d'anni fa circa (minchia: UNA VENTINA??? vado a sotterrarmi) li aveva come Caparezza o Branduardi, se preferite.

Faccio di tutto per non farmi beccare. Va bene tutto, penso, ma il compagno della scuola di giornalismo, nonché ex fidanzato di una mia coinquilina con taccuino d'ordinanza, no, non ce la posso fare.

Mi innervosisco un po', lo ammetto. Per fortuna ho ancora il telefonino, così comincio a messaggiarmi con mia sorella soprattutto per raccontarle del malcapitato incontro.

Rifletto: a parte il piumino rosso, per il resto sono ben nascosta dal mio ridicolo cappello da elfo, gli occhiali e la sciarpa. E poi, si sa, non svetto esattamente sulla folla.

Mi mescolo perciò ai ragazzi che fanno la fila per lasciare bagagli e zaini. Il tipo si avvicina alla coda, io mi giro per dargli le spalle. Avessi avuto anche un giornale, me lo sarei spiegato davanti alla faccia facendoci due buchini. 

La fila scorre lenta, ma in qualche maniera arrivo in fondo, pago due euro (mortacci loro) e consegno tutti i miei beni, portafoglio compreso, agli addetti al guardaroba.
Mal me ne incolga: me ne rendo conto dopo, al momento di rientrarne in possesso.
A quel punto, comunque, saranno a stento le nove e mezzo.

Tracce che preannuncino l'inizio della prova (che poi avverrà alle 12.36, diciamo con calma) non ve ne sono.

Il mio amico, però, è ancora pericolosamente tra noi, per cui mi tengo in movimento per continuare a schivarlo, da un lato, dall'altro per capire come si comporta in casi come questo.

Scriverà un pezzo di colore? Intervisterà qualche disgraziata/o scegliendo a caso come avevo fatto io, in analoga, molto meno ben pagata, circostanza circa un anno fa?

A proposito: sono rimasta in contatto con la coppia di giovani infermieri salentini, venuti a Fermo per un concorso che poi non so come sia finito. Li ho accompagnati in macchina alla stazione per non fargli fare un bel tratto a piedi al termine della prova. Mi hanno raccontato che avevano deciso di partecipare alle stesse selezioni in giro per l'Italia nella speranza di passarle insieme per potersi finalmente sistemare. Che teneri. 

Ho provato analoghi sentimenti anche l'altro ieri, rendendomi conto dell'enorme differenza d'età tra i pochissimi adulti (e passa) come me che chissà perché avevano scelto analogamente di vivere questo tranquillo martedì di paura, e tutti gli altri.

Di molti di loro potevo essere serenamente la madre. Credo di aver scorto anche un padre e un figlio entrambi candidati. Il padre mi ha lanciato un lungo sguardo, come se mi dicesse: "Ma sei una candidata o un'accompagnatrice?". A un certo punto ho visto pure un vecchio con un loden e mi sono detta: "Beh, no, non può essere che partecipi pure lui". Ed è stato in quel momento che sono scoppiata a ridere. 

Meno male. Da lì ho cominciato a rilassarmi.

Mi allontano un pochino dalla folla e salgo al piano superiore, affacciandomi da una specie di balcone con vista sulla disordinata fila al deposito bagagli. Eccola là la coppola con cappotto tre quarti. La osservo muoversi da un punto all'altro, finché si piazza proprio sotto di me. Il taccuino old  fashioned è sparito e ora scrive o prende appunti, chissà, direttamente sul telefonino.

Avrei pagato per avere un binocolo e leggere che diavolo stava digitando. Ammetto che quello sia stato l'unico momento in cui ho provato un pochino di invidia. Ma un resoconto così, da insider, mica l'ha potuto fare lui? Bella consolazione.

Appollaiata lassù, leggo pure un po' un giornale abbandonato da qualcuno, ma poi mi accorgo che la folla comincia a scemare. Starà succedendo qualcosa?
Mi conviene scendere e andare a controllare. In effetti, i candidati vengono risucchiati dietro una porta che si apre facendo entrare tutto il gelo di Burian. Non che lì dentro facesse granché caldo: se non fossi stata vestita come Rebecka, temo che non l'avrei presa così sportivamente.

Si va. Eccoci dentro. Mostro la domanda firmata e datata alle tipe e il documento:"Sei nata nel 1971?". "Sì". "Come una mia amica", commenta la giovane e gentile addetta facendomi sentire un po' meno anziana. Pensate se mi avesse detto "come mia madre", "o mia nonna", ha aggiunto mia sorella mentre, a metà pomeriggio, mangiavo la pasta al pesto che mi aveva messo da parte.

Mi indicano un banco. Mi siedo. Correnti glaciali arrivano da dietro le mie spalle.
Mi guardo intorno. C'è uno con i capelli grigi, e vai. Ma magari era albino.
Sulla mia destra una ragazzina (giuro: sembrava una liceale) con i capelli rossi e un visino spaurito (magari è lei che ha preso 26, ossia il voto più alto della prima mattinata). Sulla mia sinistra un ragazzo occhialuto, un futuro Enrico Letta, a occhio.

Giustamente loro mi guardano perplessi, io evito di fissarli troppo a lungo. Però è impossibile non scambiarsi almeno qualche parola, anche perché l'attesa è davvero impressionante.

La commissione non sa più cosa inventarsi per intrattenerci, dopo averci illustrato la rana e la fava delle regole concorsuali almeno tre volte.
Il fatto è che, per la trasparenza, hanno deciso di stampare TUTTI i quiz direttamente lì, nello stanzone della fiera. Meriterebbero il Nobel dell'organizzazione. Persino Peppe ne andrebbe fiero.

Ma chi è Peppe? Eh, se sapeste. Oltre a essere l'incarnazione dell'homo medius alle prese con la pazza pazza burocrazia, Peppe, e lo spot girato sui canali Rai a fine 2017 che ne narrava le gesta, era l'oggetto di una domanda cui avrei dovuto rispondere.
Non sapendola, l'ho lasciata in bianco come suggerivano di fare per non incorrere in penalità.
Peccato che così facendo non abbia risposto a un terzo dei quizzzzzz, ma così almeno ho conservato un pochino di dignità.

E no perché, francamente, l'altro ieri mattina mica mi ricordavo che il lago di Bolsena è vulcanico né avevo la benché minima idea di quante probabilità avevo di estrarre una penna di un colore o un altro.

Insomma, non l'ho passato, ma non ci è riuscita neanche la stragrande maggioranza di questa bella gioventù che si è buttata a corpo morto sul concorso manco se fossero pacchi umanitari lanciati dall'aereo.

Molto frequenti gli accenti del sud, molte le ragazze. Una di queste, dalla faccia rubiconda e solare, ha fatto una battuta mentre aspettavamo di riprenderci le borse schiacciati dietro al nastro blu dall'ennesima non fila: "Se mi davano cento euro lo facevo io questo lavoro di andare avanti e indietro: così facevo anche un po' di palestra!".

Magari lei è un'altra di quelle che sfilerà la sedia dalle terga di Boeri (detto con tutto il rispetto per il suddetto, visto che per lo meno ha avuto uno straccio di idea per rinnovare un pezzo importante della nostra pubblica amministrazione. Magari non queste modalità di selezione, ma d'altra parte è tutto un annerire di pallini un po' in ogni dove).

Glielo auguro: come Papa Bergoglio, mi sono ritrovata a pensarlo molte volte guardando tutti questi ragazzi disorientati da un paese che di certo non dà loro molte speranze. Basta leggere i commenti della pagina Facebook del concorso, che a breve abbandonerò, per farsi un'idea di chi siano i giovani italiani di oggi.

Per chi non avesse visto il servizio al tg1 (e già, c'era pure la Rai: un tipo ha chiesto anche a me se volevo dire qualcosa sul concorso, davvero paradossale) o letto il pezzo del mio ex compagno della scuola di giornalismo, i circa ventunmila partecipanti erano come minimo laureati, 33 anni l'età media, tutti o quasi con una conoscenza dell'inglese (ma chissà quante altre lingue parlano) superiore al livello intermedio.

Insomma, in buona parte si trattava di ragazzi preparati, costretti a un a genere di selezione che definirei cretina e insieme crudele. 
Certo, ci si può anche sottrarre, ma non è semplice se intorno hai il deserto.

Ci mancavano, poi, anche le condizioni meteo a rendere ancora più ostiche le due giornate di concorso: moltissimi i disagi, diverse le rinunce e altrettante le proteste. Qualcuno ha chiesto se potevano rinviare le prove, qualcun altro di potersene andare via prima per non perdere l'aereo pagato, presumo, non pochissimo pur di abbattere per lo meno il costo del pernottamento a Roma.

A questa persona, pare, avrebbero risposto che no, non si poteva fare, perché lei, loro, cioè noi, non avevamo diritti.

Non ero presente, per cui non posso avere la certezza che la conversazione si sia svolta esattamente così.
La vera tristezza, però, è che il presunto autore di una così infelice frase tutti i torti non li ha.

Bella, bellissima la nostra Costituzione, che ho avuto il piacere di rileggere in vista dell'anneritura dei pallini. 

Peccato che sia quasi del tutto inapplicata. 

E non ditemi che adesso abbiamo l'occasione di cambiare le cose nel segreto della cabina elettorale.

Ma giusto in chiusura mi assale un dubbio: non ci sarà mica da annerire qualche pallino pure lì?

martedì 26 febbraio 2013

Speranza per i giovani, nonostante Grillo


Hamaguchi è il giovanissimo fattorino di un'azienda tessile giapponese. Vive in provincia con la famiglia, è povero, ma dalla sua possiede, oltre a un talento fortissimo per il disegno, anche la buona sorte.
Nel giro di poco tempo, infatti, riesce a trasferirsi a Tokyo e a sfondare in una di quelle carriere che un genitore non consiglierebbe mai al proprio figlio. A condurlo sulla strada che ha sempre sognato, una serie di coincidenze e soprattutto l'amore per una ragazza, malata e lontana.
Uscito in Giappone nel 2008 e stampato in italiano da Lyzard due anni dopo, Uno zoo di inverno, il commovente fumetto (detesto la dicitura graphic novel, anche se condivido con gli estimatori di questo genere la volontà di elevarli al rango che si meritano. Quando se lo meritano, naturalmente) di Jiro Taniguchi racconta in forma romanzata l'esordio di uno dei più importanti autori di storie disegnate del mondo.
Oltre all'evidente qualità del segno di questo maestro oggi sessantaseienne, quel che più mi ha colpito del libro è la naturalezza con cui Taniguchi ha saputo parlare di giovinezza, sogno, amore e sì, passione per il proprio lavoro.
In un mondo ideale, tutti dovremmo avere la stessa fortuna di Hamaguchi-Jiro, ma so benissimo che non è così. Ritengo però che sia importante attaccarsi a esempi del genere, romanzati o meno, non tanto per noi adulti, imprigionati in un momento storico davvero incerto, quanto per le giovani generazioni con le quali ci dovesse capitare di interagire.
Scrivo queste parole all'indomani del risultato elettorale, consapevole della spallata che gli italiani hanno voluto dare alla classe politica nazionale, in particolare al centro-sinistra che non è stato, per l'appunto, capace di parlare di speranza nel modo giusto. Qual è quest'ultimo, vi chiederete.
Per quanto mi riguarda, ci sarebbe stato bisogno di instillare fiducia con parole insieme forti e delicate, realistiche e infuocate, tenendo bene a mente il contesto socio-economico internazionale, spread compreso, ebbene sì.
Purtroppo, non credo proprio che i grillini incarnino i miei desiderata e l'angoscia che ho provato prima di andare a segnare quelle inutili crocette era piena di fondamento.
Ma, al di là del mio personale fallimento, di cui, obiettivamente, non frega nulla a nessuno, temo proprio che Grillo & co non siano in grado di alimentare il sogno di nessuno dei loro giovani elettori.
Ieri sera ho sentito la giovane Marta Grande, inebetita, letteralmente, per una vittoria uguale forse solo al suo cognome. E' questo il ricambio generazionale che aspettavamo? Con tutto il rispetto e la solidarietà per le comprensibili incertezze da novellini, ho avuto un'impressione totalmente opposta a quella che mi ha suscitato la storia di Hamaguchi-Taniguchi.
L'autore giapponese (e il suo personaggio principale) non dorme per notti intere pur di finire i disegni che gli sono stati richiesti; quando decide di lavorare alla sua prima vera storia, se ne fa talmente assorbire da tralasciare tutto il resto. Mi verrebbe perciò da chiedere a Marta e agli altri giovani finalmente entrati nelle stanze dei bottoni: voi che cosa vi aspettate dal vostro inedito e delicato ruolo istituzionale? Era proprio quello che sognavate? Volevate così tanto accedere agli scranni del potere da aver tralasciato tutto il resto? O non sarà che non avevate altre prospettive viste le condizioni più che agonizzanti del mercato del lavoro nazionale?
Non ho la presunzione di rispondere: non conosco a uno a uno i neo-parlamentari grillini e di sicuro tra loro ce ne sarà più di qualcuno con la politica (alla greca) nel dna.
Mi resta tuttavia un po' di amarezza per tutti gli ex giovani come me che forse non hanno saputo (per motivi personali) credere fino in fondo nei propri talenti, ma ai quali è stata comunque negata una seconda chance, essendo invecchiati di pari passo con la distruzione progressiva della speranza di cambiamento.
Adesso tocca a voi farci vedere di che cosa siete capaci.
A noi continuare a leggere, scrivere di passioni vere, di sogni autentici, di destini migliori di quello che, probabilmente, è toccato a noi in sorte.
In bocca al lupo, Italia.

mercoledì 1 agosto 2012

Dedicato ai migranti italiani e a quelli che, a fatica, restano ancora qui



Chissà se Paolo è andato a lavorare in Svizzera, alla fine. E chissà se a Priscilla rinnoveranno lo stage in una prestigiosa agenzia del centro di Milano.
Salita sul treno per la grande metropoli del Nord, non avevo granché voglia di intrecciare conversazioni, meno che mai sul lavoro. Lì per lì, dunque, scoprire che il mio posto era giusto affianco ai due giovani viaggiatori partiti varie ore prima di me da Foggia, non è che mi facesse proprio piacere.
Con ostinazione, mi sono ficcata nelle orecchie gli auricolari e ho ascoltato, forse Paolo Conte (è piuttosto probabile), ma può essere anche Mark Knopfler (e d'altra parte non cambio la playlist da secoli... beh, non è proprio vero, visto che da pochissimo ci ho aggiunto le dieci puntate di "Alle otto della sera" dedicate, indovinate un po'? Ma ovviamente al Maestro!).
Fatto sta che dopo un po' non ne potevo più di assordarmi e poi, comunque, i due ragazzi non sembravano affatto antipatici. E infatti non mi sbagliavo.
Priscilla, 27 anni circa, è laureata in Sociologia e dopo vario peregrinare tra Roma e Milano, ha scelto la seconda nella speranza di avere qualche sbocco in più. Per fortuna, la città le piace, più della capitale sicuramente, anche se avrebbe preferito restare all'università a fare il dottorato. Ascoltandola parlare della sua interessantissima (anche se un pizzico inquietante) tesi di laurea su una catena di hotel specializzata in funerali con annessi e connessi che sta facendo grande business a Milano e dintorni, mi rendevo sempre più conto di avere vicino una persona fuori dal comune. In un certo senso, mi ricordava me gli ultimi anni dell'università, prima della "grossa crisi", con le stesse ambizioni fondate su impegno e (perché non dirlo) intelligenza, ma con qualche disillusione in più sulle speranze di vederle realizzate.
Paolo, invece, era leggermente più grande di lei e di sicuro ancora meno fiducioso. Studente lavoratore, come la sua giovane conterranea era un po' pentito di aver scelto una facoltà debole, di tipo umanistico (come li capisco!), ma fino a poco tempo prima era riuscito comunque a restare nella sua terra, convinto della necessità di lavorare a casa propria per non sottrarre ulteriori risorse a una zona storicamente già ferita da oceaniche emigrazioni. Finché un giorno, chissà perché (è ironico) è cominciato il mobbing che alla fine l'ha spinto a rassegnare le dimissioni. Da un contratto un tantino anomalo. E sì, perché Paolo si è a un certo punto accorto che, oltre a essere pagato in ritardo, non c'era traccia di contributi versati e altri piccoli optional che tanto fanno la felicità dei lavoratori dipendenti (gli autonomi, invece, ci hanno rinunciato ormai da un pezzo). Avendone chiesto spiegazione, il giovane foggiano, piccole esperienze di cooperativa alle spalle e anni di praticantato nel negozio di famiglia, si è condannato all'uscio. E all'emigrazione verso il Nord, dove, per sua fortuna, vive una sorella. Da lei fa base ogni volta che lo chiamano per un colloquio. Fino a quel viaggio, però, non ne aveva cavato granché. Solo una sfilza di colloqui per mansioni commerciali, spesso a provvigione, nessuna assunzione probabile. Il giorno dopo il viaggio in treno in cui l'ho incontrato, ne avrebbe avuto un altro che non lo entusiasmava assai, però, come diceva a Priscilla, ossessionandola forse un po', a trent'anni non sei più un ragazzo e devi trovare uno sbocco. Uno qualsiasi. Per forza. Tanto, al limite, sarebbe potuto restare per qualche tempo dalla sorella e poi, un giorno, chissà. Poco prima di arrivare a Milano, gli squilla il cellulare. Capisco che ha bisogno di una penna per appuntarsi qualcosa. Gliela allungo, un po' trepidante anch'io, come pure Priscilla con la quale scambio un'ansiosa occhiata. Trecento fiorini svizzeri a settimana? Sinceramente non ricordo più la cifra ripetuta ad alta voce davanti alle facce sorprese delle sue dirimpettaie, la giovane e la vecchia (per scherzo, a un certo punto, Paolo mi ha chiesto se doveva darmi del lei. Ho finto di mandarlo a quel paese).
Chiude la conversazione e alza su di noi uno sguardo ridente, di puro stupore. L'hanno chiamato dalla Svizzera per fissargli un colloquio per il giorno successivo a quello milanese. Gli hanno già parlato di guadagno, di contratto, l'importante è che sia un frontaliero. Paolo, da quel che ho capito, lo è, quindi chissà se adesso è lì a rifarsi di tutte le frustrazioni accumulate in un Paese che, a essere bello è bello, ma è troppo crudele con troppi figli suoi.
Con questo mi riallaccio, esplicitamente, al piccolo, affettuoso dibattito avuto con mia madre su Facebook a proposito dell'idea non proprio positiva che ho della terra, amatissima, che mi ha visto nascere.
La crisi è anche in Spagna, anche in Germania, dappertutto. Anche all'estero licenziano e mettono alla porta molta gente. Però basta varcare il confine settentrionale della Penisola per rendersi conto delle differenze.
E basta parlare con chi sta vivendo situazioni di stallo analoghe a ragazzi come Paolo e Priscilla, ma anche a persone più grandi di loro come noi coniugi Sfaccendati e molti altri come noi: in Germania, ad esempio, si assume ancora senza fare questioni di età (dietro, naturalmente, un po' di formazione) e chi perde il lavoro ha qualche aiuto dallo Stato. Da noi il Welfare lo fanno i nonni, i genitori nel caso dei due foggiani trentenni. E questo non è giusto. No che non lo è. Priscilla per il suo stage prende 250 euro al mese: alla sua età, molti dei sessantenni e settantenni di oggi erano padri e madri da tempo. E a questo proposito, solo da noi si diventa genitori sempre più tardi: nel nord Europa nascono più figli semplicemente perché li si mettono al mondo prima, come imporrebbe l'orologio biologico. Poi, certo, ci sono ragioni individuali e sociali che tengono molte donne italiane lontane il più a lungo possibile dalla maternità: Priscilla, per esempio, magari adesso non avrebbe voglia di fare la mamma, presa com'è dal suo legittimo desiderio di affermazione professionale, ma quando ho accennato alle difficoltà delle mie amiche quarantenni con figli piccoli, spaventate dall'eccesso di smog che assedia grandi e piccini, e del loro desiderio, proprio per questa ragione, di fuggire dalle metropoli, ho colto un lampo di malinconia nei suoi grandi occhi chiari.
In Germania le piste ciclabili abbondano e l'aria è spesso assai più respirabile, nonostante il clima ostile.
Insomma, è una questione di scelte, purtroppo non solo personali.
Siamo condizionati, nel bene e nel male, dal luogo in cui nasciamo. Paolo ama la sua terra, e anche Priscilla, lo si intuiva da come le si illuminava la faccia parlando di casa sua. Però, da noi, chi emigra non può più tornare indietro, e non solo perché ha trovato (speriamo per loro e per tutti gli altri che stanno chiudendo la valigia in questo momento) una collocazione professionale migliore, ma anche perché non si riconoscerà più, almeno non del tutto, in quelli che sono rimasti in patria, che sia un piccolo paese del sud o lo Stivale tutto intero.
E sapete perché non vi si riconoscerà più? Perché, tornando indietro, ritroverà le medesime, stanche anomalie di un Paese che non vuole crescere, non quanto a Pil, bensì a benessere collettivo, in una parola a civiltà. Inevitabile sarà la rabbia (i primi tempi) e la malinconia (andando avanti negli anni) che li risospingerà verso la patria adottiva, nel Nord (Europa) oppure verso l'Africa, per quelli di loro che avranno compiuto la scelta più ardita convertendosi, magari, alla ristorazione italiana dopo una vita sui libri, o ancora verso la cosiddetta Cindia, per quelli dotati di spirito più pratico.
Temo, ahimè, che non ci sia scelta. Non molta, comunque.
E tuttavia, nonostante la mia età non più verde, io sono ancora allo stadio della rabbia, un sentimento che mi fa tutt'oggi dire che non siamo degni, come popolo, del nostro grande passato. Lo dimostra anche la vicenda di Milano e della riapertura della zona C alle auto per la vittoria di un'azienda privata di posteggio, raccontata dall'Amaca di Michele Serra qualche giorno fa e che ha scatenato il dibattito (ripeto, affettuoso) tra mia madre e me.
Ne sono convinta, cara mamma: persino Gesù, su questa vicenda meneghina e in generale sul futuro negato a schiere di giovani italiani, avrebbe qualcosa da ridire. Forse, chissà, andrebbe dai potenti anziani che ci hanno reso schiavi e che non vogliono proprio saperne di schiodare e li scaccerebbe via come i mercanti dal tempio. Sì, forse interverrebbe, non foss'altro perché anche lui è stato vittima della gerontocrazia. Solo che adesso lo crocifiggerebbero ancora prima, visto che sarebbe fuori tempo massimo per il contratto di formazione (oggi detto di apprendistato) di ben quattro anni.
Quest'ultima, naturalmente, è una piccola provocazione, ma a chi ha solo la voce, la tastiera e un po' di cultura non resta che usarle come può. Soltanto così continuerà a resistere e a sognare la riscossa, almeno morale, della nostra amata-odiata Italia. Anche se non sembra, insomma, io ci credo ancora.
E voi?

martedì 7 febbraio 2012

Fuga in rosa dall'Italia mammona (e sfigata)


Sapete che vi dico? Ha ragione Cancellieri. Che cosa? Come oso uscire dal coro di dissenso e scherno verso l'ennesima infelice uscita di uno dei nostri governanti?
Perché conosco i maschi italiani. Quelli medi e quelli speciali. Sì, perché la frase pronunciata da quella donna anziana, con la faccia da mamma nazionale, era sicuramente rivolta alle signore di pari ruolo (che poi molte di loro, compresa la ministra, ricoprano posizioni di potere in questo caso non c'entra).
Cancellieri, molto probabilmente, ha figli maschi; o, se non li ha, ce li ha sua sorella o qualche altro stretto consanguineo. I figli maschi vanno vezzeggiati fino a 69 anni, come direbbe Marco Presta (ma pure dopo, in caso di estrema longevità di mammà).
Ed è inevitabile, date queste premesse, che carni delle proprie carni cresciute così poi non abbiano alcun desiderio di allontanarsi (almeno non troppo) dal tetto natìo.
Tutt'altro discorso vale, invece, per le femmine italiane. Almeno, per quelle che hanno avuto la fortuna di andare a studiare fuori, grazie al denaro familiare (nel sud Italia, fino a pochi anni fa, funzionava in questa maniera anche tra le famiglie piccolo-borghesi come la mia) oppure per estrema cocciutaggine e perseveranza (ho una cugina, più povera di me, almeno nell'infanzia, che ha cominciato a lavorare a 19 anni in una banca toscana, ma, nonostante il monotono posto fisso, ha voluto a tutti costi laurearsi, riuscendoci a pieni voti).
E però, dall'altra parte, nella regione in cui sono venuta ad abitare, una magnifica area italiana del centro, fino a qualche anno fa non c'era granché necessità di emigrare per trovare lavoro. Qualcosa di simile succedeva anche in Toscana: non a caso, nella facoltà che ho frequentato io, una di quelle deboli che preparano futuri disoccupati, il grosso degli studenti era del posto o dei comuni limitrofi.
I "terroni", maschi e femmine, erano iscritti per la maggioranza alle facoltà scientifiche.
Se mi baso su quanto osservo qui, qualcosa mi dice che adesso sia cambiato tutto anche lì.
Per lavorare, bisogna per forza allontanarsi dalla mamma. Per andare dove? Di certo non a Milano o Torino, come si faceva una volta.
Chi ha coraggio ed energia dovrebbe imparare il cinese (l'indiano, l'arabo) e andare. Andarsene. Molti lo stanno già facendo.
Tornando in treno dal mio unico viaggio lungo degli ultimi tempi, ho incrociato due giovani, belle ragazze piene di progetti per il futuro. La bionda faceva esercizi di grammatica araba, la mora parlava di Sudamerica.
Ho provato una grandissima invidia per loro. Qualcosa di simile mi è successa di recente nei confronti di un giovane fotografo, da poco ripartito per il Brasile. Per me, quest'ultimo è un "eccezionale" maschio italiano, ma bisognerebbe vederlo alla prova del tempo.
Ne conosco molti altri, infatti, che non si sono mai spostati da casa propria, se non per temporanee, adolescenziali, escursioni verso la "vita vera".
Perciò, Cancellieri, hai ragione tu: visto lo stato deprimente in cui versa la patria, bisognerebbe andarsene via. Per la precisione, dovrebbero andarsene in massa le donne italiane, l'unico vero Made in Italy capace di "riprodursi" anche all'estero. Ho letto dell'idea di una mia cara amica di Milano di aprire un bar a Goa. So che l'ha scritto tra il serio e il faceto, ma penso, con tutta me stessa, che un paese come questo si meriterebbe se le donne che hanno ancora un po' di forza (soprattutto ideale) d'inventarsi un futuro se ne andassero tutte in luoghi in cui quest'ultimo sia ancora possibile.
Una volta partite loro, infatti, si trascinerebbero dietro i maschi italiani di ogni età. Con il rischio, certo, di ri-radicarli di nuovo nella patria adottiva e di tramandare i cattivi usi nazionali agli eredi (maschi).
L'ultima frase è scherzosa. Non c'è infatti niente di sbagliato nell'umano desiderio di mettere radici, per chi lo prova. Come mi ha detto un pediatra che ho intervistato tempo fa, è più che logico che le famiglie di nuova formazione vogliano stare vicino ai nonni: una volta si viveva tutti nelle grandi case familiari, dandosi vicendevolmente una mano nelle difficoltà. Oggi si abita in posti diversi, ma si ha l'identico bisogno di sostegno psicologico e materiale. Anzi. Oggi è anche peggio, mancando un Welfare adeguato a una società (bene o male) avanzata com'è quella italiana.
E quindi? Quindi nulla: la soluzione non cambia. Semplicemente, le donne italiane ancora dotate di coraggio ed energia dovrebbero emigrare e poi portarsi dietro nonne, zii e zie rimasti da soli.
Come si dice, scripta manent: chissà che non mi venga davvero voglia di comprarmi una grammatica cinese.
In ogni caso, spero, con tutto il cuore, che i giovani veri (di certo io non lo sono più: lo dicono le offerte di lavoro, sempre più umilianti, per tutti gli over 35. Peccato che non ne abbia già 55, almeno potrei concorrere per quelle. In verità, io non mi sento vecchia per niente. Anche per questo motivo, fanculo a questo paese che ti fa sentire tale) abbiano un sussulto di orgoglio vero e prendano atto che qui, in questo momento storico, per loro non c'è futuro. Per ricrearlo, dovrebbero mandare a casa questa classe dirigente vecchia (dentro e fuori), a tutti i livelli, compreso il cugino vigile urbano che ti toglie la multa o il sindaco di collequalcosa che ti trova un lavoretto. Finché non usciamo dalla logica dell'arrangiarsi a spese della collettività, infatti, non c'è alcuna speranza che le cose possano cambiare.
E chi non lo capisce (o fa finta di non capirlo) è sì sfigato e mammone.
Perciò, vecchia ciabatta di ministra, non scusarti. Semplicemente, fatti da parte. E con te, si facciano da parte tutti quelli che aspirano, semplicemente, a mettersi al posto tuo senza merito, bensì solo grazie alla spintarella giusta del barone/essa di turno.
Nell'attesa, imparerò tutti i segreti della cucina cino-pakistana.
Ma il curry mi resta un po' indigesto.