martedì 7 gennaio 2014
Fermo di Sualzo, la vita oltre il panico
Natale 2013: davvero memorabile.
Sono, siamo, stati bene e oltretutto, nonostante il gran casino prodotto dalla festosa presenza dei nipoti, sono pure riuscita a leggere un po'.
Fermo, il libro a fumetti che vedete sopra, mi è stato regalato da mia sorella (e relativo coniuge), inizialmente attratta, com'è facilmente intuibile, dal titolo. Prima di incartarlo, però, l'ha letto, persuadendosi ancora di più che potesse essere adatto a me. E infatti aveva ragione.
"Fermo" è esattamente quel che era per me prima di venire ad abitare nell'omonimo sostantivo nome del piccolo comune marchigiano distante pochi chilometri dal mare Adriatico.
Fermo è stato, per un anno intero, il protagonista della storia scritta da Sualzo, pseudonimo di Antonio Vincenti, che si descrive sul risvolto della quarta come "sassofonista mancato e disegnatore autodidatta, interessato alle cose del mondo".
Come ho già sottolineato in altri post, io non so disegnare, ma adoro le storie disegnate, in generale mi interesso alle cose del mondo e sono abbastanza un'autodidatta di quasi tutto quel che mi capita a tiro. Questo solo per dire che non sono in grado di dirvi se il tratto usato dall'autore di Fermo sia o meno buono.
Di certo è il sincero specchio di una visione del mondo malinconica e insieme ironica quanto basta.
Sebastiano, questo il nome del protagonista della storia, resta "fermo" a Bibbiena per oltre un anno per svolgere il Servizio civile. L'anno dopo, racconta all'inizio, la leva obbligatoria sarebbe stata abolita, ma essendo lui uno studente bloccato a un tot di esami dalla laurea, sceglie di fare l'obiettore come una sorta di male minore, convinto che l'avrebbero spedito in qualche deserta biblioteca a pochi minuti da casa.
E invece la destinazione che gli assegnano è parecchio lontana, non solo geograficamente.
Proprio a lui, che soffre di attacchi di panico da quando aveva sedici anni, tocca di occuparsi di malati, psichici e fisici. Il suo compito, a dire il vero, non è poi così difficile: come gli spiega l'impiegata comunale che segue i ragazzi del Servizio civile, basterà che faccia loro un po' di compagnia, per dare ai familiari la possibilità di prendersi qualche ora di libertà. Se poi fosse riuscito anche a provare anche dell'affetto, beh, sarebbe stato ancora meglio. Ma non indispensabile.
Sebastiano è però di quel genere di persone che sanno entrare in empatia con gli altri, lo si capisce pagina dopo pagina, striscia dopo striscia.
E d'altra parte dubito che un'esperienza del genere non lasci traccia alcuna, anche sulle scorze più dure.
Il rischio di cadere nella retorica c'era, insomma, ed è proprio per questo che ho particolarmente apprezzato il tono sensibile ma non buonista adottato da Sualzo anche nella descrizione della tragedia, in fondo da tutti aspettata (anche da chi legge), che a un certo punto interviene nella storia.
Allo stesso modo, ho trovato molto felice la titolazione dei capitoli, rubata qui e là da canzoni (una scelta piuttosto obbligata per un musicista come l'autore) e i brani poetici riportati in fondo alla pagina di apertura di ciascuno di loro.
L'ultimo mi si è conficcato quasi sotto la pelle. E' una poesia (credo intera, ma non ne sono certa) di J. Twardowski, un autore che non avevo mai sentito nominare (e scusate l'ignoranza). S'intitola Contro di te e dice:
Prega per quello che non vuoi affatto
di cui hai paura come uno scoiattolo della pioggia
da cui fuggi come un'oca sempre più lontano
e tremi come in un soprabito senza imbottitura d'inverno
da cui ti difendi con tutte e due le mascelle
inizia finalmente a pregare contro di te
per ciò che è più grande e viene da solo.
Non credo di essere capace (anzi ne sono sicura: non lo so fare) di pregare contro di me, ma so che cosa significa pregare perché quella crisi arrivi, prima o poi. Perché una volta che è arrivata, così come è arrivata, poi passa.
Se non ho male interpretato il finale del libro, Sebastiano e il suo alter-ego Sualzo superano definitivamente gli attacchi di panico proprio dopo l'anno di "fermo" a Bibbiena. Se così non fosse, non importa: con il panico, o qualunque altro demone alberghi nei nostri cuori, si può convivere. Certo che si può.
L'importante è imparare a non fuggire, ma a starci, dentro i nostri demoni, dentro i nostri fermi interiori.
E' forse questo il segreto della vita?
Penso di sì, ma non ho la pretesa di dettare ricette universali.
Come penso non ce l'abbia neanche Sualzo, che è stato davvero molto bravo nel mescolare la realtà e la fiction, come solo i grandi tessitori di storie sanno fare.
E adesso l'anno nuovo può finalmente cominciare.
Demoni miei, vi aspetto al varco.
venerdì 20 dicembre 2013
Il mercatino dell'Otto dicembre e la dignità del lavoro. Auguri a tutti
Ho scattato questa foto lo scorso otto dicembre, all'imbrunire.
Come (forse) si intuisce, ho trasportato il cesto dei nostri gatti sul banchetto che ho allestito per il primo mercatino natalizio di Fermo. Nella cittadina marchigiana rispettano infatti in maniera molto rigorosa il calendario delle festività cristiane. Prima della festa dedicata all'Immacolata Concezione, per dire, non accendono neanche le luminarie.
E insomma: tra un dubbio e l'altro, alla fine ho pagato una cifra sostenibile per occupare uno spazietto a due passi dalla grande piazza principale e, per l'intera giornata, decisamente umida, mi sono trasformata ancora una volta in ambulante.
A chi mi chiedeva che cosa vendessi e in alcuni casi anche perché, ho spiegato, con tutta la calma che mi è possibile (sono un tipo francamente suscettibile, anche se cerco di nasconderlo in ogni modo) che mi sembrava una buona idea continuare in questa forma di artigianale "direct marketing" che tanta fortuna aveva avuto la scorsa estate.
E in effetti è andata bene anche stavolta. Benché, adesso posso dirlo con tutta sincerità, fare la vita dell'ambulante è davvero dura, soprattutto d'inverno. D'altro canto, ho fatto anche un'altra, educativa scoperta.
In quel mercatino, di persone prestate al mestiere del mercante ce n'erano davvero tante.
Sulla mia sinistra, per esempio, c'erano due coppie di sessantenni, o giù di lì, con i loro oggetti fatti in casa di davvero pregevole fattura. Sono rimasta a osservare diversi minuti ogni singola pallina natalizia ai ferri e soprattutto il meraviglioso paraspifferi con tanto di funghi e lumache cuciti sopra, dal costo di diciotto euro.
Niente, considerato l'amore, la cura e il tempo che la sua realizzatrice deve averci messo. A fine giornata, però, quel bellissimo oggetto era rimasto invenduto e io posso assicurarvi che se avessi avuto qualche denaro in più l'avrei comprato.
Pensate, anzi, a quanto costa la stessa cosa se la prendete in uno dei quei negozi di artigianato locale o pseudo tale.
Idem per le bellissime agendine di carta crespa confezionate una per una dall'altra signora sessantenne, lo sguardo vispo e il marito molto simpatico, un elettricista disoccupato.
Quest'ultimo usa il suo tempo libero per fare degli orecchini molto fini, piccini e delicati, più facilmente smerciabili, certo, ma venduti a prezzi talmente bassi che dubito che il ricavato gli basti a coprire le spese dei materiali e del tempo lavoro che ha dedicato a ognuno di loro.
Di fronte a me, poco più su, c'era una signora russa, della Crimea per la precisione, la tipica struttura di capelli a cofano e la faccia di chi ha molto sofferto molto frequente tra queste signore dell'Est Europa che vediamo assai spesso in compagnia di anzianissimi connazionali.
Con lei c'era una ragazza dagli occhi di ghiaccio e una treccia da dottor Zivago, che continuava a sferruzzare con il suo uncinetto piccolissimi sotto bicchieri e presine varie.
Anche il loro banchetto era minuscolo, forse persino più del mio.
Mi sono avvicinata ai loro oggetti e ho comprato, esattamente come avevo fatto con gli orecchini fatti dall'elettricista. Anche in questo caso perché il prezzo era molto basso. Anche in questo caso, infatti, ho pensato che gli stessi prodotti venduti in uno dei negozi sfavillanti di qualsiasi centro urbano costerebbero tre volte tanto. Almeno.
Alla mia destra, invece, c'era un bancaccio enorme, pieno di cineserie, gestito da uno strano trio di personaggi, un'italiana sporca e puzzolente, i capelli unti e gli occhi d'acqua, e due uomini giovani con i denti già marci, forse pakistani. Ogni tanto dal loro banco partivano dei fasci di luce stroboscopici e una musica chiassosa e di bassissima qualità sonora forse prodotta proprio da uno dei loro oggetti in vendita. Sul filo sopra al banco una schiera di quelle scimmiette che imperversavano anche la scorsa estate sulle spiagge.
Non ho idea quanto abbiano incassato, ma posso assicurarvi che erano molte le persone che si fermavano da loro, qualcuno per le scimmiette, qualcun altro per quegli aggeggi stroboscopici, altri ancora per degli orribili fiori finti.
In ogni caso, era chiaro il motivo per cui il grosso dei passanti era attratto dal loro banco: il bassissimo costo che però, in questo caso, era anche sinonimo di bassissima qualità.
Dubito insomma che i grossisti di tutta quella paccottiglia vendano sottocosto ai dettaglianti.
Noi ambulanti per caso (o sarebbe meglio dire per costrizione) rischiamo invece di rimetterci o di andarci solo a pari.
Detto questo, per me che ho studiato ma sto avvicinandomi un passo alla volta sempre di più al baratro della miseria, è stata una lezione di vita sentirmi dire, a fine giornata, dal pakistano con gli occhi di brace e l'alito di curry: "Hai lavorato?".
E' come se avesse capito tutto, è come se in quelle poche ore passate l'uno accanto all'altro, si fosse creata una sorta di solidarietà da disperati o simil-tali, piena alla fine della dignità di chi comunque non è stato a grattarsi la testa o a battersi il petto, ma ha comunque, eccome, lavorato.
Sì, caro pakistano. Quella sera ho lavorato e sto continuando a farlo, come posso, cercando di non smarrire mai la fiducia nel futuro.
Non è facile, ma è proprio vero che l'istinto di sopravvivenza è più forte di qualsiasi altro sentimento.
Stamattina, poi, sono stata contentissima di prendere altri due ordini da una mia cara amica che non sentivo da tempo. Adesso anzi corro a farle la spedizione. Mi cambierò, truccandomi un po', e andrò alla posta. Con tutto l'orgoglio segreto di chi ha capito che bisogna lottare. Sempre.
Come sta facendo la mia magnifica mamma anche in questo momento.
A lei ho dedicato, non a caso, il mio libro.
A voi che mi state leggendo, dico grazie. E Buone Feste.
Ce le meritiamo.
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giovedì 5 dicembre 2013
The Suit a Fermo, la vita oltre la tragedia grazie a Miriam Makeba
Davvero piacevole The suit, lo spettacolo di Peter Brook, Marie-Hélène Estienne e Franck Krawczyk che ho visto ieri sera al Teatro dell'Aquila di Fermo.
Non so dirvi se c'erano imperfezioni tecniche (non sono una critica teatrale), ma posso solo raccontarvi dell'atmosfera, resa lieve dai colori accesi della scenografia e dei costumi, e anche dalla leggiadria di Matilde, detta Tilly, il personaggio femminile protagonista di quella che in verità sarebbe una tragedia della gelosia, ma che invece finisce per trasformarsi in un inno all'amore e alla vita.
Non ho idea di come si chiami la ragazza sudafricana che aveva le lacrime agli occhi quando si sono accese le luci a fine spettacolo. Sulla cronaca della prima delle due serate, pubblicata da un quotidiano locale, ho visto che le hanno attribuito il nome della curatrice dell'opera andata in scena per la prima volta nel 1999, con il titolo Le costume.
Non sono certa che abbiano ragione, ma in ogni caso ho trovato assai credibile quel che avrebbe detto l'affascinante attrice, ossia di essersi completamente calata nella parte.
Del resto, bastava vederla cantare Malaika di Miriam Makeba per capire le ragioni della sua commozione.
Sarà che l'età mi sta rendendo sempre più malinconica, in ogni caso, stamattina, leggendo la storia di Mama Africa, com'era chiamata la voce simbolo della lotta all'Apartheid, e soprattutto scorrendo il testo del brano riproposto ieri sera in scena, mi sono scese un po' di lacrimucce.
E a proposito: visto che ho capito quasi tutto senza leggere i sovratitoli, giacché ci sono, faccio un ulteriore esercizio traducendo nella nostra lingua (nel modo meno scolastico possibile) il testo che scorre dopo le note biografiche della Makeba, in swahili e in inglese.
Prima si sente Miriam che dice:
"Signore e signore, questa canzone viene dalla Tanzania: è una canzone in Swahili, una canzone d'amore, e dice semplicemente 'Malaika, nakupenda Malaika', che vuol dire solo 'ti amo, mio angelo'".
E poi comincia a cantarla:
"Angelo, io ti amo, angelo (due volte)
vorrei sposarti, mia fortuna
vorrei sposarti, sorella
Non ho saputo difendermi dai colpi della sorte,
ma vorrei comunque sposarti, angelo (due volte)
La mancanza di denaro sta affliggendo la mia anima (due volte)
E io, tuo giovane amante, che cosa posso fare?
Non ho saputo difendermi dai colpi della sorte
ma voglio sposarti lo stesso, angelo (due volte)
Uccellino, ti sogno, uccellino mio (due volte)
E io, tuo giovane amante, che cosa posso fare?
Non ho saputo difendermi dai colpi della sorte
ma vorrei comunque sposarti, angelo (due volte)
Angelo, ti amo, angelo (due volte)
E io, tuo giovane amante, che cosa posso fare?
Non ho saputo difendermi dai colpi della sorte
ma vorrei comunque sposarti, angelo (due volte)
voglio sposarti, angelo
voglio sposarti, angelo
Sotto vi riporto un'altra versione di Malaika, con una Miriam Makeba giovane e splendente, molto simile alla bella attrice che ieri ho avuto l'onore di vedere da molto vicino.
Adesso starà allietando gli angeli e gli uccellini, ne sono sicura.
Grazie, a lei e ai suoi giovani e bravi discendenti.
Aggiornamento del 6 dicembre:
Giusto ieri sera, mentre mi preparavo ad andare a dormire, ho scoperto che Nelson Mandela l'ha raggiunta da qualche parte. Ed è incredibile che abbia acceso la radio nell'esatto momento in cui stavano dando la notizia.
Madiba è entrato, in fondo, di recente a far parte anche della mia storia, intellettuale ed emotiva.
Sono contenta di averlo conosciuto un po' meglio anche grazie ai rapporti che ho stretto con i miei giovani insegnanti sudafricani.
Spero proprio che l'umanità non ne dimentichi lo straordinario passaggio su questa terra.
martedì 3 dicembre 2013
Paris Geller e gli altri personaggi di Una mamma per amica... w le repliche!
L'attrice Liza Weil interpreta Paris Geller in "Una mamma per amica", alias The Gilmore Girls, il telefilm andato in onda a partire dal 2000 per sette stagioni e ritrasmesso in questo periodo su La5.
Come già ho scritto nel precedente post, sono diventata una fan sfegatata di Lorelai, la giovane mamma di Rory, diminutivo del nome prescelto per la stirpe delle Gilmore da generazioni e generazioni.
Devo però aggiungere che l'altro personaggio che adoro particolarmente, è proprio quello di Paris.
La compagna di classe di Rory è davvero antipatica per la maggior parte degli anni scolastici che le due ragazze trascorrono insieme. Man mano che le puntate vanno avanti, però, si capisce che dietro al suo caratteraccio e la sua parlantina saccente si nasconde una solitudine non così rara nelle buone famiglie di tutto il mondo.
Paris passa la maggior parte del suo tempo con la tata messicana e le figlie di quest'ultima: anche il giorno del diploma, per dire, i suoi genitori non compaiono, impegnati chissà dietro a quale business improcrastinabile.
A un certo punto, la goffaggine e la rusticità che la caratterizzano fanno breccia nel cuore di Rory, che, si sa, è buona oltre che bellissima. Poi è intelligente quanto la sua futura amica biondina e altrettanto in difficoltà con una parte del mondo adulto. Anche Rory, infatti, è in fondo cresciuta da sola, sostenuta, questo sì, da una mamma straordinariamente simpatica ed equilibrata come Lorelai, ma pur sempre senza il padre Christopher, il quale si fa vivo con lei soltanto quando sta per diventare maggiorenne.
E insomma, i due cervelli della Chilton cominciano a studiare insieme, realizzano il giornale e le presentazioni scolastiche, ma soprattutto trovano di avere molte più affinità di quanto non sembrava all'inizio. La frattura tra loro, causata da una comune compagna invidiosa e arrivista, dura poco, per la precisione fino al giorno in cui Paris svela a Rory di aver fatto l'amore con il fidanzato e al contempo di non essere stata ammessa ad Harvard, la celebre università a stelle e strisce che era stata frequentata da tutta la sua famiglia. Arruffata e disperata, si presenta a scuola in condizioni assolutamente inadatte a sostenere la diretta tv che era stata organizzata dal liceo proprio per il commiato finale degli studenti prima del grande salto nel mondo accademico.
Il tutto potrebbe sembrare quasi tragico, se non fosse per il tono sempre vagamente scanzonato che mantiene il telefilm anche nei dialoghi più drammatici. A consolare la biondina del disastro che combina durante le riprese televisive, ci pensa proprio la Gilmore giovane dagli occhioni blu, mentre la mamma-amica aspetta con tenera discrezione fuori dall'aula di riportarle entrambe a casa.
Il giorno del diploma le due ragazze si salutano ricordandosi di essersi odiate per quasi tutti gli anni passati insieme. Dal modo in cui si abbracciano si capisce che è tutto alle spalle, proprio come le lezioni scolastiche e quei corridoi austeri della scuola che ormai non fanno più paura.
Se l'avessi visto in anni diversi, voglio dire proprio quando avevo l'età che interpretano le due attrici, che nella vita vera si portano quattro anni (Liza è del '77, Alexis Bledel, Rory, dell'81), probabilmente avrei affrontato con uno spirito un po' più leggero i momenti no che ho vissuto anch'io, come loro.
Non importa. Sono sopravvissuta alla grande, direi, e forse, chi lo sa, è bene guardarlo adesso che sono ben più vecchia di quanto non sia la protagonista Lorelai, l'attrice Lauren Graham, all'epoca 34enne.
Da quest'ultima, infatti, posso ancora imparare molto su come si affrontano i problemi sul lavoro, per esempio brindando con champagne, come fa lei quando le comunicano che l'albergo che dirige deve chiudere battenti del tutto per via dei danni causati dall'incendio che l'ha semi-distrutto, oppure quando ride come una matta dopo l'ennesima frizione con la madre Emily (un altro personaggio che adoro).
Sì, credo proprio di essere diventata una addicted delle Gilmore Girls.
Peccato però che non capisca una parola quando parlano in inglese: spero di riuscirvi, un giorno.
Soprattutto, spero che il telefilm duri il più a lungo possibile...
W le repliche!
:-)
giovedì 28 novembre 2013
The suit di Peter Brook a Fermo... e le coincidenze continuano!
Mi ripeterò, ma le coincidenze che mi capitano di continuo stanno diventando davvero troppe perché non debba tornarci su nuovamente.
Che dire, per esempio, dell'approdo al Teatro dell'Aquila di Fermo, i prossimi 3 e 4 dicembre, di The suit, la piéce del regista britannico Peter Brook ispirata al romanzo di Carl Themba, uno scrittore sudafricano morto esule e in povertà nel 1968?
Chi mi segue dovrebbe infatti sapere che sto studiando inglese con l'aiuto di due insegnanti che vivono proprio nella terra martoriata fino a non troppi anni fa dall'apartheid. Da quando li ho incontrati (ahimè solo online) il mio interesse per il continente che si affaccia sulla Sicilia è cresciuto ancora di più.
E insomma: proprio oggi mi è arrivato il comunicato stampa che annunciava l'arrivo di The suit a Fermo, praticamente sotto casa mia, in qualità niente meno che di tappa esclusiva per l'Italia per questa stagione, dopo il debutto, nel giugno dello scorso anno, al Festival del teatro di Napoli.
Prima ancora, la piéce era andata in scena solo a Londra, nel vestito attuale (scusate il gioco di parole), nato sulle ceneri del precedente Le costume, presentato da Brook nel 1999, in francese.
La versione aggiornata, scritta dal regista con l'aiuto di Marie-Hélène Estienne e Franck Krawczyk,è invece in inglese, con sopratitoli in italiano per i poveracci (come me) che sono più o meno digiuno della lingua anglosassone.
Sì, credo proprio che assistervi sarà un'esperienza interessante, dal momento che gli attori sul palcoscenico (Jordan Barbour, Rikki Henry, Ivanno Jeremiah e Nonhlanhla Kheswa) verranno accompagnati da un gruppo che suonerà dal vivo musiche che spaziano da "Schubert a Miriam Makeba", come riferisce l'Associazione marchigiana attività teatrali (Amat), promotrice dell'evento con il Comune di Fermo.
Di che cosa parla lo spettacolo e il libro dello scrittore sudafricano, riscoperto in patria, come le opere di molti altri suoi connazionali di pelle nera, solo dopo la liberazione di Nelson Mandela?
Di adulterio e di una bizzarra punizione inflitta dal marito tradito alla moglie fedifraga.
Colta in flagranza di tradimento, quest'ultima è infatti costretta a un morboso ménage à trois con il coniuge e il vestito dell'amante, da costui abbandonato su una sedia per via della sua fuga precipitosa dalla finestra.
Si tratta, insomma, di un dramma a tinte fosche, ma credo che le luci, la scenografia e la musica (oltre che l'impegno che ci metterò a capire i dialoghi senza leggere la traduzione italiana) mi trasporterà direttamente a Sophiatown, la città sudafricana nella quale è ambientata la vicenda, in un'epoca che fortunatamente i miei giovani insegnanti di Cape Town e Johannesburg conoscono solo dai libri di storia.
Concludo con alcune piccole informazioni tecniche.
Lo spettacolo comincia alle 21, i biglietti vanno dai 12 ai 30 euro (biglietteria del teatro:
0734 284295).
La compagnia ha vietato foto e riprese (e ha fatto proprio bene: l'altra volta, allo spettacolo di Toni Servillo tratto da Le voci di dentro di Eduardo De Filippo l'attore e regista napoletano se l'è presa non poco per la luce di una fotocamera... ).
La foto che vedete sopra mi è stata gentilmente fornita dall'Amat, che può essere contattata, per ulteriori informazioni, al numero: 071/2072439.
E ora (più meno...) su il sipario!
![]() |
Un momento di The Suit, foto di Johan Persson |
Mi ripeterò, ma le coincidenze che mi capitano di continuo stanno diventando davvero troppe perché non debba tornarci su nuovamente.
Che dire, per esempio, dell'approdo al Teatro dell'Aquila di Fermo, i prossimi 3 e 4 dicembre, di The suit, la piéce del regista britannico Peter Brook ispirata al romanzo di Carl Themba, uno scrittore sudafricano morto esule e in povertà nel 1968?
Chi mi segue dovrebbe infatti sapere che sto studiando inglese con l'aiuto di due insegnanti che vivono proprio nella terra martoriata fino a non troppi anni fa dall'apartheid. Da quando li ho incontrati (ahimè solo online) il mio interesse per il continente che si affaccia sulla Sicilia è cresciuto ancora di più.
E insomma: proprio oggi mi è arrivato il comunicato stampa che annunciava l'arrivo di The suit a Fermo, praticamente sotto casa mia, in qualità niente meno che di tappa esclusiva per l'Italia per questa stagione, dopo il debutto, nel giugno dello scorso anno, al Festival del teatro di Napoli.
Prima ancora, la piéce era andata in scena solo a Londra, nel vestito attuale (scusate il gioco di parole), nato sulle ceneri del precedente Le costume, presentato da Brook nel 1999, in francese.
La versione aggiornata, scritta dal regista con l'aiuto di Marie-Hélène Estienne e Franck Krawczyk,è invece in inglese, con sopratitoli in italiano per i poveracci (come me) che sono più o meno digiuno della lingua anglosassone.
Sì, credo proprio che assistervi sarà un'esperienza interessante, dal momento che gli attori sul palcoscenico (Jordan Barbour, Rikki Henry, Ivanno Jeremiah e Nonhlanhla Kheswa) verranno accompagnati da un gruppo che suonerà dal vivo musiche che spaziano da "Schubert a Miriam Makeba", come riferisce l'Associazione marchigiana attività teatrali (Amat), promotrice dell'evento con il Comune di Fermo.
Di che cosa parla lo spettacolo e il libro dello scrittore sudafricano, riscoperto in patria, come le opere di molti altri suoi connazionali di pelle nera, solo dopo la liberazione di Nelson Mandela?
Di adulterio e di una bizzarra punizione inflitta dal marito tradito alla moglie fedifraga.
Colta in flagranza di tradimento, quest'ultima è infatti costretta a un morboso ménage à trois con il coniuge e il vestito dell'amante, da costui abbandonato su una sedia per via della sua fuga precipitosa dalla finestra.
Si tratta, insomma, di un dramma a tinte fosche, ma credo che le luci, la scenografia e la musica (oltre che l'impegno che ci metterò a capire i dialoghi senza leggere la traduzione italiana) mi trasporterà direttamente a Sophiatown, la città sudafricana nella quale è ambientata la vicenda, in un'epoca che fortunatamente i miei giovani insegnanti di Cape Town e Johannesburg conoscono solo dai libri di storia.
Concludo con alcune piccole informazioni tecniche.
Lo spettacolo comincia alle 21, i biglietti vanno dai 12 ai 30 euro (biglietteria del teatro:
0734 284295).
La compagnia ha vietato foto e riprese (e ha fatto proprio bene: l'altra volta, allo spettacolo di Toni Servillo tratto da Le voci di dentro di Eduardo De Filippo l'attore e regista napoletano se l'è presa non poco per la luce di una fotocamera... ).
La foto che vedete sopra mi è stata gentilmente fornita dall'Amat, che può essere contattata, per ulteriori informazioni, al numero: 071/2072439.
E ora (più meno...) su il sipario!
venerdì 22 novembre 2013
Il valore dell'attenzione: un articolo di Alessandro Bignami
Non so se Carla Bignami, l'anima del Centro donatori del tempo di Como di cui ho parlato qualche tempo fa, mi ha mandato l'articolo che leggerete sotto per via del post precedente che le ho segnalato.
In ogni caso, la ringrazio dal più profondo del mio cuore, perché quel che vi è scritto rispecchia alla perfezione il mio pensiero e forse il mio stile di vita.
Bisogna concentrarsi sulle cose e averne cura: solo così riusciremo a liberare le forze più profonde che albergano dentro di noi. Precarietà o certezze a parte.
Ma lascio la parola ad Alessandro Bignami e al suo articolo, pubblicato sulla rivista Chimica Ambiente, nel numero5, uscito lo scorso settembre/ottobre. A tutti voi, buona lettura.
In ogni caso, la ringrazio dal più profondo del mio cuore, perché quel che vi è scritto rispecchia alla perfezione il mio pensiero e forse il mio stile di vita.
Bisogna concentrarsi sulle cose e averne cura: solo così riusciremo a liberare le forze più profonde che albergano dentro di noi. Precarietà o certezze a parte.
Ma lascio la parola ad Alessandro Bignami e al suo articolo, pubblicato sulla rivista Chimica Ambiente, nel numero5, uscito lo scorso settembre/ottobre. A tutti voi, buona lettura.
IL
VALORE DELL’ATTENZIONE
UN TEMPO
FORSE C’ERA LO SPAZIO PER PRENDERSELA CON PIU’ FILOSOFIA,
PER
ESSERE MENO PRECISI E DUTTILI. OGGI QUESTO NON E’ PIU’ POSSIBILE, PER COLPA, O
PER MERITO, DELLA CRISI.LA COMPRESSIONE DEI MARGINI E LE RISTRETTEZZE IN
PERIODI DI SPENDING REVIEW COSTRINGONO A MOLTIPLICARE GLI SFORZI E AD
ACCELERARE I TEMPI DI LAVORAZIONE, OLTRE CHE A OCCUPARSI SPESSO
CONTEMPORANEAMENTE DI MANSIONI DIVERSE E TALVOLTA NON PROPRIE. QUESTO PUO’ VALERE PER
LA MAGGIOR PARTE DEGLI IMPIEGHI,
DALL’OPERATORE FINANZIARIO AL MECCANICO SPECIALIZZATO O AL MANUNTENTORE DI
GIARDINI.
LA
CONCITAZIONE VIENE ANCHE DALLE NECESSITA’ DI OTTIMIZZARE LA PRODUZIONE, DATO
CHE SPESSO DIMINUISCE IL PERSONALE MA NON LA MOLE DI LAVORO DA SMALTIRE, OLTRE
CHE DALLE NORMATIVE SEMPRE PIU’ SEVERE E
COMPLICATE. IN QUESTO BAILAMME NON E’ DIFFICILE DISORIENTARSI E PERDERE LA
PRESA SUL SENSO DELLA PROPRIA STORIA PROFESSIONALE. E’ UN PROCESSO D’ALTRONDE
DIFFICLE DA INVERTIRE. CIO’ CHE SI PUO’ FARE, FORSE, E’ AUMENTARE
L’ATTENZIONE E LA CURA VERSO IL PROPRIO LAVORO.PER I MONACI BUDDHISTI
GIAPPONESI CONCENTRARSI SU CIO’ CHE SI STA COMPIENDO E’ UNA VIA PER LA
REALIZZAZIONE INTERIORE.
DETTO
QUESTO, FARE BENE LA PROPRIA ATTIVITA’ E
VEDERNE LA BELLEZZA, E NON SOLO GLI
OSTACOLI E I DISSAPORI QUOTIDIANI, PROBABILMENTE NON BASTA A SUPERARE I
MOMENTI DI DIFFICOLTA’ ECONOMICA.
CERTO
E’, PERO’, CHE QUESTO TIPO DI ATTENZIONE
E’ UNA LINFA VITALE PER PROSEGUIRE CON FIDUCIA IL PROPRIO CAMMINO, SENZA CHE I
PENSIERI BUI E LE PREOCCUPAZIONI
PREVALGANO. UN PO’ COME STARE NELL’OCCHIO DEL CICLONE DOVE, AL CONTRARIO DI
QUANTO ACCADE INTORNO, IL CIELO RESTA SERENO E NON C’E’ VENTO.
LA
RICHIESTA DI MAGGIORE ATTENZIONE E IMPEGNO NEL PROPRIO LAVORO NON E’ QUINDI
SOLO UNA STRESSANTE NECESSITA’ DELLA STAGIONE IN CUI BISOGNA FARE MEGLIO E IN
MINOR TEMPO. L’ATTENZIONE CI CONSENTE
INFATTI DI “GODERE DI CIO’ CHE SI FA”, ENTRANDO IN RELAZIONE PROFONDA CON LA
REALTA’ IN CUI SI OPERA E LIBERANDO LE
FORZE NASCOSTE CHE VIBRANO DENTRO SE’.
ALESSANDRO BIGNAMI
giovedì 21 novembre 2013
Diciotto anni per la ripresa in Italia: andiamo oltre la paura
![]() |
La ripresa italiana secondo Nomisma |
Diciotto anni sono una bella età. Si prende la patente, si può votare. Fortunati i bambini italiani che stanno per venire al mondo, quindi. Infatti, se tutto andrà secondo le previsioni di Nomisma, la società di studi economici di Bologna che da oltre trent'anni analizza e documenta le dinamiche di sviluppo locale e internazionale, dalla ripresa effettiva dell'Italia ci separano ancora diciotto anni.
Ai miei nipoti, 6 e 8 anni in questo momento, andrà ancora bene: supponendo che staranno lasciando il mondo dell'istruzione giusto in quegli agognati giorni, dovrebbero riuscire a trovare adeguata collocazione. Si togliessero però dalla testa la prospettiva di un altrettanto adeguato stipendio.
Date un'occhiata al grafico sopra riportato: vedete a destra la cima della linea blu spezzata (per la precisione, precipitata nell'angolo acutissimo giusto nell'anno che si sta chiudendo)? Se ci fate caso, si trova esattamente alla medesima altezza del picco registrato nel 2007.
Come a dire che tra diciotto anni torneremo agli stessi livelli che avevamo quasi sette anni fa. Insomma, stiamo sereni (il bolognese Romano Prodi sarebbe fiero di me): avendo già toccato il fondo, più in basso di così non si può andare.
O meglio, non si dovrebbe.
Sulla crisi oggi sappiamo di tutto e di più e se non siamo completamente sconsiderati, è bene ascoltare le (cosiddette) cassandre che ci consigliano di rispettare i vincoli di Europa 2020.
Solo in questo modo, infatti, riusciremo a evitare ai miei nipoti e quelli che stanno venendo al mondo giusto adesso di fuggire verso lidi migliori, sempre che nel frattempo non li abbiano già trascinati via dall'Italia quelli che li hanno messi al mondo.
Perché, ahimè, per i diciottenni di oggi e per i loro genitori, zii e fratelli maggiori, il presente è davvero drammatico, come hanno illustrato più o meno tutti e quattro i relatori che hanno preso parte alla conferenza inaugurale dell'anno accademico dell'Università del tempo ritrovato e dell'educazione permanente (in sigla, Utete) di Grottazzolina, un ridente paesino in provincia di Fermo.
Il tema conduttore di tutti gli interventi era "Una finestra sul futuro. Il territorio fermano verso Europa 2020" e, tolta la prima mezz'ora dedicata a rivangare i lustri del passato, il resto è stato una sorta di dotto appello alle energie locali e nazionali per una virata decisa verso un ripensamento complessivo del nostro sistema socio-economico.
Gli applausi più vibranti sono andati all'intervento del sociologo Massimiliano Colombi, ma personalmente ho trovato molto illuminante quello successivo di Marco Marcatili, analista economico e project manager di Nomisma, il quale mi ha gentilmente elargito le sue slide.
Amici miei, ha detto fuori dai denti il giovane studioso, di che cosa stiamo parlando quando diciamo che si intravvedono segnali di ripresa? Che cosa ce ne facciamo del + 0,7% previsto per il 2014? E via via dell'1,1 del 2015 e dell'1,4 del 2016, anche considerando che staremo comunque sotto, anche se di poco, la media europea prevista negli stessi anni?
Di quel che accadrà dopo il 2016 ho già accennato all'inizio, ma è chiaro il problema posto da Marcatili: la ripresa attesa di qui a cinque anni non si tradurrà in un miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza delle famiglie italiane né in un aumento di redditività di una buona parte delle imprese nazionali, troppo piccole e troppo poco esportatrici.
Come uscirne? That is the question.
Qualcosa bisognerà pur fare, logicamente.
Per esempio, mettere un po' d'ordine e chiarezza dentro di noi. Un po' come ci succede dopo una separazione non voluta, un lutto o un qualsiasi altro evento che ci ha mandato "in crisi".
Nelle slide che Marco ha mostrato alla platea forse un tantino attonita del piccolo teatro di paese, si leggevano parole come "dai beni privati ai beni di interesse collettivo (commons)", "politiche di sviluppo rivolte ai luoghi che abitiamo", "partecipazione delle comunità (civile e imprenditoriale)", "riscatto della qualità dell'azione pubblica", "città in cerca di economie, ma economie in cerca di città".
Insomma, ha detto l'analista economico, cominciamo intanto con il pronunciare questa serie di paroline magiche come per riabituarci al suono di un diverso modo di fare politica ed economia. Poi andiamo più nello specifico. Come si riporta al centro l'interesse collettivo?
Per esempio, eliminando le barriere architettoniche dalle nostre città, mettendo in sicurezza il nostro patrimonio storico-artistico, curando l'estetica delle nuove costruzioni e di quelle antiche.
In termini ancora più pratici, dove trovare il denaro per ridarci una verniciata (e non solo quella) di credibilità internazionale? Creando partnership pubblico-private, utilizzando un approccio più europeo nelle nostre iniziative, valorizzando le professionalità migliori.
Quest'ultimo aspetto, peraltro, porterebbe notevoli benefici alla marea di bravissimi connazionali che lottano per non andarsene dal nostro Paese: pensiamo solo agli archeologi, da una parte, e agli architetti, dall'altro. Quanti di loro sono pressoché a spasso, mentre potrebbero dare un notevole contributo per la sacrosanta valorizzazione di un patrimonio che tutto il mondo continua a invidiarci?
Le slide passano poi a mostrare una serie di numeri, non tutti intellegibili senza un'adeguata conoscenza economico-finanziaria, ma abbastanza chiari in un punto: se investiamo in risorse energetiche rinnovabili, se abbattiamo, detto diversamente, gli sprechi di calore, acqua ed elettricità, produciamo occupazione e crescita del Pil.
Oltre ai numeri, parlano infine le immagini di un progetto di riqualificazione prospettato per un quartiere di Modena, oggi un ammasso di fabbriche in disuso, domani un luogo pieno di verde e di case a basso impatto ambientale. Perché questa trasformazione sia possibile, però, è necessario il consenso della popolazione che deve andarvi ad abitare, magari attraverso un'adeguata politica di bassi prezzi di compravendita o di affitto. Senza un coinvolgimento della società civile, in sostanza, nessun progetto è credibile: diversamente, continueremo ad assistere alla costruzione di casette (casacce e casone) spesso destinate a restare vuote in zone ad alto rischio idrogeologico, come quelle che si vedono dal treno ahimè ormai su ogni piccolo fazzoletto di costa adriatica.
L'ultima osservazione, naturalmente, era mia, ma davvero, ascoltare l'intervento di Marco Marcatili mi ha fatto scattare qualcosa nel cervello e nel cuore: bisogna fare qualcosa, accidenti.
Bisogna aiutare quelli che verranno dopo di noi a non buttare via l'energia degli anni migliori.
Come?
Intanto, come ha scritto il project manager, ficcandosi bene in testa che l'Ue non è un bancomat e che per non fallire il traguardo del 2020, bisogna fare davvero sul serio. Il che significa che urge impegnarsi nella ricerca di vere alleanze tra i singoli territori, oltre i campanilismi e le recriminazioni localistiche che hanno davvero fatto il loro tempo.
In concreto, ci aspettano due scadenze molto più vicine di quel che sembra: l'Expo 2015, innanzitutto, da vivere non come vetrina per nani (metaforicamente i piccoli paesi che compongono non solo il Fermano) e ballerine (le aziende, pochissime, che danno lustro alle micro-realtà locali), bensì come luogo per catturare flussi permanenti di turisti e visitatori alla ricerca di qualità in ciò che vedono, mangiano, usano e acquistano.
In secondo luogo, il famigerato Ue2020, da prendere come data per suggellare le nuove alleanze strategiche di tipo "glocale", sotto l'ombrello di un'architettura finanziaria sostenibile per tutti.
Quest'ultimo traguardo si realizza tenendo d'occhio la domanda sociale e ponendosi, se si è amministratori pubblici, come "accompagnatori" degli interessi collettivi piuttosto che come "proprietari" degli stessi.
Un discorso simile va fatto anche per le imprese, che devono abituarsi a "co-progettare" la domanda di beni e servizi, anziché utilizzare i propri denari in incupenti colate di cemento.
Ce la possiamo fare?
Secondo me sì, anche se non sarà facile. L'unica arma che abbiamo sapete qual è? La paura della fame, niente affatto metaforica, che potremo fare proprio noi (plurale maiestatis, anche) che non abbiamo goduto, se non nei nostri verdissimi anni, di un benessere che ci meriteremmo, considerato quanto abbiamo studiato e quanto abbiamo investito per essere cittadini, non solo consumatori.
Ho davvero molta strizza, lo ammetto. Ma fare i conti con questo sentimento, impegnandoci oltre ogni ragionevolezza, lo dobbiamo soprattutto alle giovani generazioni, che hanno ancora meno colpa di noi per lo sfascio che stiamo loro consegnando.
Diamoci dentro, insomma.
Grazie a Marco Marcatili e agli altri trentenni come lui per il loro prezioso lavoro.
Il presente è nostro: facciamoci sentire.
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