martedì 26 gennaio 2016

Adottare un quattrozampe? Una scelta "pesante"...


Deve essere un po' come succede con i figli. Voi madri e padri, semmai, smentitemi, ma se lo fate, per piacere, siate sinceri come sto per esserlo io.
A volte gli amici a quattrozampe sono pesanti. Lo diceva spesso pure la mia, di madre, riferendosi alle buonanime di Sancio e Stino (detto Fausto), che le stavano sempre addosso.

Bice la grigia (immortalatami in grembo giusto stamattina) è capace di andare avanti minuti, buoni quarti d'ora, a tallonarti miagolando, con modulazioni dell'ugola da cantante lirica, finché non ti siedi da qualche parte e non le permetti di impastare (fare la pasta, fare ron ron, o come dite voi in altre parti d'Italia).

Certe volte, obiettivamente, mi verrebbe da sbalanzarla da un'altra parte (mi viene il dubbio che il verbo della prima coniugazione in -are da me succitato non esista nella lingua di Dante. Pazienza. Tanto si capisce. Credo).
Ma poi, come (immagino) facciano anche le brave mammine con i loro adoratissimi pargoli, mi piego e lascio che mi martirizzi. Perché certe volte mi fa pure male con quelle unghiette fini fini ma affilatissime. La pretesa, infatti, non si esaurisce con l'innalzamento delle temperature, ma se hai una maglietta fina, la zampetta unghiata trapassa, eccome se lo fa.

Detesto essere considerata una gattara. Non lo sono affatto. Almeno, non nel senso classico del termine.
Per un breve periodo, quando abitavo in cima al colle del Girfalco, ho rischiato di diventarlo: ne vedevo così tanti, in massima parte neri, sulle scale dell'hotel anni Cinquanta tuttora in disuso, da non riuscire a ignorarne il destino. Certe sere, quando tornavo dalla palestra in auto, mi venivano incontro in diversi, quasi tutti ancora cuccioli, sperando che lanciassi loro qualche croccantino.

Ho cominciato a evitarli dopo che ho dovuto (meglio: voluto) raccattare il corpo senza vita di un povero gatto sbilenco, al quale mi ero un pochino affezionata. Dopo quella volta, no, no, no, non vi guardo: un'altra fregatura no.

Ho anche tentato, ve l'assicuro, di dissuadere mio marito dall'adottare i nostri due attuali coinquilini, ma lui, niente, si era fissato e quindi ok al ritorno dei gatti nella mia quotidianità.

Siamo partiti malissimo. Il povero Chet-Ciccio ha fatto la fine che sapete (se non la sapete, di certo non ve la somministro). Non contenti, abbiamo perseverato e zac, gabbati doppiamente dalla teppaglia minuscola che ci costringe a queste sedute di human-therapy (a suo assoluto vantaggio, per intendersi) e da Nino, il gatto tonto dalla pelliccia obiettivamente eccezionale (crociato come un antico combattente in Terra Santa), che, peraltro, mi ignora quasi totalmente.

Ogni tanto (ogni tanto?) quest'ultimo vomita: giusto oggi appena dopo pranzo, nella fase più delicata della digestione (di noi umani: stavamo per prendere l'orzocaffè), tiè, sul copridivano. E dire che l'abbiamo portato dalle veterinarie, abbiamo cominciato a comprare croccantini di classe A++, ma niente, soprattutto il maschio, con una certa frequenza, sente l'impellente bisogno di sporcare qualche copertura anti-felino. Spero, con tutto il cuore, che non lo faccia mai nel letto, altrimenti è la volta buona che lo libero sulla spiaggia.

Oh, raga, sto esagerando: mi ci vedete voi ad abbandonare un animale? Suvvia. Voi genitori siate onesti e ammettetelo: una bella colonia rieducativa per i vostri innocui piccini non l'avete mai sognata?

Il problema, però, resta.
Certe volte ho come l'impressione che noi umani abbiamo bisogno di legacci per sentire di avere un ruolo. Peggio: per dimostrare a noi stessi che per qualcuno siamo importanti.
Poi, però, che cosa accade? Che importanti lo diventiamo davvero e allora sta' cosa del dominatore e del dominato, da porno soft per le moderne casalinghe (oh, tra parentesi, non sapevo neanche che ieri mandassero il film delle sfumature di grigio, di cui a giorni esce un'altrettanto orribile parodia), ci sta un tantino scomoda.

Allo stato attuale, Bice e Nino non potrebbero mai cavarsela all'aperto, ne sono più che certa. Per loro sarebbe come passare dal Grand Hotel alla Siria.
D'altronde, quale umano vorrebbe essere nella seconda, ora come ora?
Ed è ben per questa ragione, umanitaria più che umana, in sostanza, che quei due mi tollerano ancora come loro compagna di casa.

E dire che li accarezzo spesso, che parlo loro con le vocine sceme come si fa con i poppanti, ma niente: se potessero, mi ci manderebbero eccome sotto una tenda militare.

Tanto, hanno Paolo, il loro Vate, il loro nume tutelare. Quello che la mattina, il 99% delle volte, si alza elargendo loro l'attesa porzioncina di sfilaccetti senza salsa (l'unica edibile per i signori), quello che, pur detestandoli a tratti molto più di me, si scervella con estenuanti ricerche su internet da cellulare, per cercare altri alimenti anti-vomito. Quello che dispensa loro bacini facendo intenerire persino un cuore di pietra come me.

Sarà per questo che gli inquilini baffuti non mi considerano molto? Eppure, vorrei dire loro, pure io vi svuoto la lettiera (almeno rimuovo i solidi quando devo buttare la spazzatura), anche io ho voluto il grattatoio a torre per la signorina grigia, pure io, spesso, vi cambio la ciotola d'acqua... insomma esisto!

Niente. Per Bice, al limite, posso andare ancora bene come stuoino scaldasonno; Nino, ogni tanto, mi concede di grattargli la pancia appesa. Ma niente più.

Mi fanno compagnia? Il livello del mio stress sarebbe molto maggiore se non ci fossero?
Non saprei. Certo, le ultime analisi erano particolarmente buone, ma temo che dipenda più dal fatto che non ho niente da fare. Esattamente come loro, con l'importante differenza, manco a dirlo, a loro assoluto vantaggio, che quei due là non hanno (ma proprio per niente) ansie da prestazione e possono (ooooh) dormire buona parte della giornata, senza ricevere i fastidiosissimi messaggini di Infojobs che ti rammentano la triste y sfigata realtà.

Insomma, è bello avere animali? No: la domanda è mal posta.
Arrivo alla risposta girandoci intorno. Così.

E' come stare costantemente dentro a una puntata di Superquark e rendersi conto di che merdine siamo noi a due zampe. Davvero. I gatti scelgono chi amare senza inutili sensi di colpa: Nino mi tollera, tutto sommato, ma non mi pare afflitto dal fatto (oggettivo, ve l'assicuro) di non provare nulla di più.
Bice mi dà più valore (sarà che vede che sono poco più grande di lei e che ogni tanto, per blandirla vergognosamente, le allungo anche qualche pezzettino dei miei pasti, decisamente più interessanti di qualsiasi croccantino extralusso), ma non si pente neanche per un istante quando salta giù dal mio grembo senza neanche dirmi "grazie per il tuo tempo".

Diciamo, in definitiva, che convivere con gli animali è istruttivo.

E che quando non li vedo per un po' di giorni, ne sento la mancanza.

Incatenata a vita. Capito?

Quindi, voi che non ancora li avete, pensateci bene.

lunedì 25 gennaio 2016

Checco Zalone e la lezione spettacolo su Sky del 2011

Ieri sera, alla fine, sono andata a vedere Quo vado?
Ho già scvitto una stvonzata su Facebook, pev cui non mi vipeto (sappiatelo: non sono una vadical chic, anche se all'univevsità aspivavo a diventavlo. Poi si invecchia, pev fovtuna), ma credo che il miglior modo per vecensive il film di Luca Pasquale Medici, in arte Checco Zalone, sia di linkarvi sotto la bellissima lezione-spettacolo andata in onda nel 2011 su Sky, in occasione dell'unico film che non ho visto di questo mio quasi fratello minore (quello sull'araba che voleva fare un attentato al duomo di Milano, per capirsi. Una vita fa, visti i tempi, ahinoi).

Lo definisco così per due ragioni: anagrafica (Checco ha quasi 39 anni, 6 meno di me) e geografica (sento fortemente vicine le sue origini meridionali: la zia che vedrete nella lezione è un mix di un paio delle mie).
Per il resto, non c'è storia: Zalone è un fuoriclasse. Speriamo solo, come dice lui, che non si infighettisca. Ma dubito che lo farà.

Buona visione, amici.











martedì 19 gennaio 2016

Tv-series, tra prime ed enne-enne-visioni... meno male che ci siete



Adeline Briard e Kader Cherif sono colleghi poliziotti: lei è parigina doc, lui di origine magrebina, come l'attore protagonista da cui prende il nome la serie francese, in onda in questo periodo tutti i lunedì su Giallo, ambientata, una volta tanto, non nella capitale, bensì a Lione.

Nella vita, i due bei volti del serial "bleu" sembrano piuttosto diversi da come si mostrano in scena, almeno, stando ai video di presentazione del telefilm che ho trovato su Youtube: soprattutto lei, Carol Bianic, sorride parecchio e sembra tutto il contrario del personaggio che interpreta nel telefilm, ossia l'animo "masculine", contro quello femminino, nonché ostile alle regole, rappresentato dal suo collega maschio.

Abdelhafid Metalsi, come si chiama realmente l'attore che veste i panni del poliziotto mammone cresciuto a telefilm, ha, a dirla tutta, lo stesso sguardo paraculo che mostra in scena, ma, se posso dirlo, appare meno scuro, meno adulto, del suo personaggio. Del resto, nel telefilm, è padre di una ragazza di quattordici anni, che vive un po' da lui e un po' dalla ex moglie, avvocato.

Non c'è molto da dire sui casi in cui si imbattono i due detective, semplicemente, perché, a ben guardare, la struttura "scoperta del cadavere-indagini-colpo di scena finale" è più o meno sempre la stessa di tutti i telefilm a sfondo giallo ma non troppo noir. Resta però la piacevolezza di assistere a una recitazione non troppo impostata, come capita troppo spesso negli omologhi americani, da cui quasi tutti i telefilm made in Europe prendono spunto.

Ed è inoltre originale anche la trovata di far calcare a un franco-algerino le orme di precedenti illustri poliziotti del Vecchio Continente (o comunque tali di origine) come Kojak o Colombo, due dei modelli televisivi del nostro Kader, che l'hanno spinto a diventare poliziotto.

Detto altrimenti, in sostanza, Cherif è molto simpatico, ma lo è pure Adeline, che finge di disapprovarne gli interrogatori poco ortodossi a casa sua, davanti a un'araba teiera di tè.
Vedremo come proseguiranno le storie: da quel che ho capito, comunque, il telefilm è molto apprezzato anche in patria. E meno male, visti i tempi non proprio rassicuranti.

Cherif è il mio preferito, ma nel palinsesto di Giallo e Top Crime (w il digitale terrestre per chi non ha Sky e non ha voglia di pagare ulteriori denari per lo streaming) ci sono anche altri serial degni di nota.

Interessante è, per esempio, Falco, tutti i giovedì su Top Crime, remake di Last Cop, il telefilm tedesco incentrato sul ritorno alla vita del poliziotto Mick Brisgau dopo vent'anni di coma.
L'idea è la stessa, dicevo, ma il tenore della narrazione è decisamente più drammatico. Anche in questo caso siamo in Francia, però a Parigi, e anche qui c'è un mistero su chi abbia sparato al nostro eroe, facendolo restare tra la vita e la morte per troppo tempo.

L'attore che interpreta il redivivo si chiama Sagamore Stevenin (classe 1974), tipo minuto, faccia sveglia, il collega amico (come nell'equivalente tedesco) si chiama Clement Manuel, ed è un ragazzone un po' imbranato con le donne, che credo crescerà nelle puntate che devo ancora vedere.

L'atmosfera è più cupa, si sorride poco, ma più vado avanti e più l'apprezzo.

Simile, ma se possibile con sfumature ancora più grigie, è l'effetto che mi fa Missing Persons Unit - Mpu, serial di origine belga che va in onda su Giallo il mercoledì, in cui si torna alla squadra di più poliziotti guidati da un capo carismatico. Man mano, si capiranno meglio i profili psicologici dei singoli protagonisti, ma è chiaro che tutti hanno qualcosa che li tormenta. Mi attrae la complessità delle trame, ma se dovessi raccontarvene una nei dettagli, mi perderei. Il che significa (almeno credo) che in questo telefilm conta assai più il mezzo (la visione d'insieme) del messaggio (la singola trama in svolgimento).

Pur intrigandomi le storie europee, concludo questa carrellata sulle serate televisive della sottoscritta con due serial per eccellenza made in Usa, non foss'altro perché ne ho visto la maggior parte delle puntate per via del gran numero delle repliche che ne hanno dato in questi anni sia su Giallo sia su Top Crime.

Sto parlando di Law and Order-vittime speciali, da una parte, ma soprattutto di Law and Order-Criminal Intent.

La detective Olivia Benson, alias Mariska Hargitay (ho appena letto che è una delle figlie di Jane Mansfield!) interpreta il suo ruolo di detective assegnato a orribili casi di violenza sessuale con una sensibilità molto femminile e una serietà da fuoriclasse del ciak. E' anche vero che si cala nei panni della poliziotta dal 1999; però, niente da dire, gli attori americani sanno il fatto loro, qualunque cosa stiano recitando.

Un vero gigante è, a questo proposito, Vincent D'Onofrio, il detective Robert Goren sulla scena, il primo protagonista di Criminal Intent, con accanto la piccolina più cattiva che c'è, ossia Katherine Erbe, alias Alexandra Eams, sua partner e amica.
Da quel che so, il grosso e alto attore si è ammalato proprio durante le riprese del telefilm, dopodiché, pian piano, ne è uscito e ha fatto molto altro: di origine italiana, ha una mobilità sgangherata, da doctor House, che lo rende estremamente affascinante, pur essendo precocemente invecchiato e via via sempre più appesantito. Un talento del genere, era difficile da rimpiazzare e credo che ne abbia sofferto anche la sua partner di scena, secondo me molto affiatata con D'Onofrio anche fuori dal set.

E infatti, in contemporanea con l'ultimo periodo di D'Onofrio (al quale era stato imposto di girare al massimo dieci episodi all'anno) e la piccina attrice, sono arrivati, prima Chris Noth (il "Mister Big" di Sex and the City) e Annabella Sciorra (in scena noti come Mike Logan e Carolyn Barek, poi sostituita da Alicia Witt, alias Nola Falacci) e alla fine Jeff Goldblum e Saffron Burrows, ossia i detective Zach Nichols e Serena Stevens, i cui episodi (godibili: Goldblum rende bene il tipo goffo ma geniale) sono in onda in questo periodo il sabato sera.

Con gli ultimi due attori, nel 2011 si chiude il telefilm, che stando a Wikipedia, aveva perso ascolti dopo l'uscita del cast storico. La produzione vuole però dare il commiato finale proprio con D'Onofrio ed Erbe: degli ultimi otto episodi trasmessi in Usa nel giugno del 2011 temo non vi sia traccia in Italia. Almeno non su Topcrime che a breve ricomincerà di nuovo dal primo episodio, Robert Goren ancora magro, e Alex Eams con un visino da ragazza.

A personaggi visti e rivisti come loro finisci per affezionarti, quasi fossero amici di famiglia. Un po' come Colombo, uno dei miti di Cherif, che, a proposito, stanno rimandando per la stramilionesima volta.

Mi dispiace un po' di essermi persa le serie tv del momento (da House of cards a Newsroom ad altre di cui ignoro persino i nomi), però che ci vuoi fare? Prima o poi si troveranno senza troppi magheggi da smanettoni.
Nel frattempo, quando proprio non ne avrò proprio più dell'ennesima replica, posso sempre fare qualcos'altro.
Leggere, magari.
Vivere ancora di più.

E voi?
Buone prime, seconde terze etc etc visioni, amici di Madamatap.

venerdì 15 gennaio 2016

L'attrice di Teheran, amore ed esilio di una donna speciale



Golshifteh Farahani (sopra nella foto) è la trentaduenne attrice iraniana che ha ispirato il libro L'attrice di Teheran della sua compatriota, nonché altrettanto espatriata in Francia, Nahal Tajadod.
Non mi addentro, almeno non troppo, nelle questioni di politica estera, meno che mai mediorientale, perché temo di non aver abbastanza strumenti per maneggiarla senza rischiare grossolani scivoloni. Però avverto il bisogno di scrivere almeno due parole sulla storia, pur trasfigurata, di questa bellissima ragazza persiana.

Sheyda è il nome che la vera attrice assume nel romanzo: in persiano vuol dire "innamorata". E in effetti, in tutte le azioni e i gesti che compie la giovane protagonista della storia, si sente in modo molto potente di quanto amore sia dotata tutta la sua persona.

Sheyda ama innanzitutto la sua famiglia, segnata dalla persecuzione da parte del regime degli Ayatollah, che prende il potere in concomitanza con la sua nascita. La madre, oltretutto, non è nemmeno musulmana, ma di religione Bahai, molto invisa non solo ai seguaci del Profeta più radicali. Per questo motivo (almeno, se la memoria già non m'inganna), tutta la famiglia è costretta a lasciare la casa natale dell'attrice ancora bambina, per lasciarla a un'altra di provata fede e di modi che poi si scopriranno decisamente inurbani.
Il padre di Sheyda, un famoso attore amatissimo in Iran, riesce infatti a tornarne in possesso dopo un lungo periodo, ma la casa è pressoché distrutta. Dal pessimo ricordo la piccola futura star resta marchiata per sempre.

Crescendo, Sheyda diventa sempre più bella e, diciamolo pure, femmina. Un giorno, mentre sta andando a scuola o, forse al Conservatorio (la madre la vede già che suona al Musikverein di Vienna), dei simpatici maschi probabilmente coetanei le buttano l'acido sull'impermeabile. Lei fa per toccarsi nel punto dove sente umido e la sua mano resta bruciata. La cicatrice è ancora lì a rammentarglielo.

Dopo quella pessima esperienza, decide di rasarsi a zero e di vestirsi da maschio: si dà anche un nome, Amir. Amir sa giocare a calcio, perciò, i seni fasciati, si mischia diverse volte a un gruppo di teppistelli e fa pure a botte, per dimostrare di essere forte come e più di loro.
Calato il sipario sulla sua prima rappresentazione, da allora Sheyda e i suoi capelli che stanno ricrescendo, quattordici anni appena, sa che non potrà far altro che recitare.

E infatti recita, innamorata com'è dei ciak, dei registi (di uno in particolare, che è pure di comprovata fede islamica, mentre lei, per un periodo, si era avvicinata al cristianesimo e più avanti anche al buddismo) e infine di un ragazzo, che forse la manipola, o forse no. Alla fine arriva Alex, il marito, che le permette di coronare un altro suo sogno: guidare un camion, in pieno deserto.
Ma poi chissà se tutte queste storie che racconta sono vere: il fatto è che Sheyda, cresciuta in anni di processi e condanne (non di rado a morte) per apparenti ragioni politiche, è abituata a dire solo "un quinto della verità", come si ripete spesso nel libro.

Non si sa, quindi, se tutto quello che riporta la voce narrante, l'alter ego della scrittrice Tajadod, vent'anni più di Sheyda, cresciuta sotto lo Shah, mai indossato un chador o qualcosa del genere, sia vero.
Chi, tuttavia, ha letto anche solo Persepolis, di Marjane Satrapi, o Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi, non dovrebbe dubitare che quel quinto narrato nel libro sia, eccome, la verità.
Comprese, certo, le contraddizioni psicologiche di Sheyda, attratta da Hollywood e dal benessere Usa, ma al contempo straziata dall'addio alla sua terra, con il quale si conclude la storia.

Non sto rivelando il finale, preciso, perché, per come è costruita la narrazione, si capisce quasi dalla prima pagina quale sarà il destino dell'attrice: diventare un'espatriata a vita. Perché, direte voi? Perché ha osato mostrarsi senza velo e con le braccia e le gambe bene in vista a una cerimonia per il suo film a New York. Perché considerata, anche, una spia della Cia o del Mossad, e non quale è, ossia una giovane donna con un gran talento per il palcoscenico. La vera attrice, peraltro, ha fatto anche di più (scandalo!): nel 2012 si è mostrata nuda in una campagna contro gli abusi sulle donne. Figuriamoci se potrà tornare.

Nella finzione letteraria non c'è traccia della messa al bando ufficiale, ma ci si sofferma invece sui sette mesi di interrogatori che Sheyda subisce dopo il suo rientro da un lungo viaggio negli Stati Uniti, durante il quale ha girato un film "anti-imperialista". E' talmente orgogliosa di ciò che ha appena compiuto (il grande salto nel mondo delle major non è mica cosa da tutti) da negare l'evidenza di quanto, invece, sta per succederle.
La giovane rischia grosso, in termini di denaro e, forse, pure di vita: lo si deduce dai contatti che la ragazza ha con altri sventurati, che come lei passano giornate intere nei tribunali della rivoluzione per farsi ridare i documenti o per altre estenuanti richieste di intercessione.

Sheyda è a un passo, lo si sente in maniera forte e chiara, dalla perdita del bene più grande, tolta la vita: la dignità.

Sapete che vi dico? Il libro scorre molto bene (l'autrice, e chi ne ha curato la traduzione, sa creare suspense e coinvolgimento emotivo), ma, anche se fosse stato scritto male, almeno per me, il senso di rabbia impotente sarebbe stato ugualmente molto forte.
Come si fa a dire che l'Iran è un Paese in espansione, se non fosse per la questione dei diritti umani, "anni luce indietro rispetto all'Occidente", come ho letto in uno speciale dell'Ansa sull'ex paese delle Mille e una notte?

Mi rendo conto - sono abbastanza anziana, ahimè, e disincantata - che ai governi interessa assai poco che nel 2015 ci siano state non so quante impiccagioni (impiccagioni, capito?), e che invece, in fondo, le donne vanno all'università, guidano l'auto e possono mettersi rossetti provocanti, quindi perché non fare affari con un popolo che ha golosissime riserve di petrolio?

Però, amici miei, io in Iran non ci metterò di sicuro piede, ma neanche se mi pagano, perché non mi frega nulla che sotto il chador e l'hijab le donne siano in guepiere e che il velo, sotto sotto, le protegga pure dagli stupratori della domenica (e degli altri giorni della settimana).

Non posso, non potrei mai, tanto meno, fare affari con i loro barbuti politicanti né mi fanno simpatia i richiami del Muezzin alla preghiera.
Perdonatemi: ma, essendo completamente, integralmente, anti-clericale, qualunque tonaca nero pece, qualunque turbante sgargiante, mi provoca, a dir poco, diffidenza.
In definitiva, non posso proprio accettare, mancandomi da vedere un sacco di altri Paesi del mondo, sperando di farcela, un giorno o l'altro, di bardarmi come il cugino It pur di far vedere che sono una globetrotter amica dei popoli.

No, grazie.
Detto ciò, l'Iran è sicuramente affascinante e credo che sia essenziale leggere libri come questo che mi ha regalato, molto intelligentemente, la mia ex compagna di liceo, Simona, una notevole testa su un procace corpo di donna, che in Iran, al contrario di me che non ci andrà mai, c'è stata, e ne ha assaporato pregi (i paesaggi incredibilmente verdi che l'hanno assai sorpresa) e difetti (l'incazzatura che si è presa con una guardia della Revoluciòn che le aveva detto di coprirsi meglio la testa e di non fumare in pubblico, lei che era davanti all'hotel dove dormiva, spendendo quei soldi del corrotto Occidente che tanto fanno comodo ai capi dell'idiota indottrinato che l'aveva redarguita).

Voglio, tuttavia, essere speranzosa come Nahal Tajadod, che in un'intervista pubblicata sul Manifesto in occasione della presentazione del suo libro al Salone di Torino, ha sostenuto che la sostituzione di un regime autoritario come quello di Reza Pahlevi con un altro come quello islamico di Khomeini e i suoi eredi, oggi tuttora al potere, abbia ingenerato negli iraniani comuni degli anticorpi che un giorno non lontano si prenderanno la loro rivincita.

Spero, con tutto il cuore, che abbia ragione lei.
Anche se i tempi sono piuttosto cupi e non sembrano proprio andare in quella direzione.
Da parte mia, se posso fare qualcosa da qua, senza fazzuolo in testa, lo farò.
A voi, donne iraniane e non solo  voi, in bocca al lupo.

lunedì 11 gennaio 2016

Reinventarsi senza eroi, ma con lo sguardo fisso lassù




Ok, d'accordo: bisogna attaccarsi al presente. Peccato, però, che il presente faccia obiettivamente piuttosto schifo. Non voglio unirmi al coro generale di cordoglio per la scomparsa di David Bowie, semplicemente perché conosco troppo poco la sua musica per poterne parlare in modo sensato.

Di certo, non lo nascondo, il video di Lazarus, il pezzo dell'ultimo disco Blackstar uscito solo l'8 gennaio, giusto il giorno del suo compleanno, poco prima di dire addio alla Terra (e ai suoi cari), mi ha fatto un certo effetto.
Doveva essere, resterà per sempre, un'icona di fascino e di sensualità difficilmente replicabile.

Vi dirò, peraltro, che l'ho trovato particolarmente irresistibile nel concerto di Berlino (sopra Heroes da quel concerto) di cui oggi molti parlano, quello del 2002, in cui il Duca Bianco, come lo chiamavano, era poco meno che sessantenne. Non so se capita solo a me, resta il fatto che trovo assai più interessanti gli uomini (e le donne) con qualche segno del tempo sul corpo piuttosto che gli sbarbatelli muscolati.

Certo: ho appena visto due pezzi cantati da Bowie nel 1973 e beh, era uno spettacolo per gli occhi e non solo, pure allora.
Sarà forse che per molti come me che si approssimano alla mezza età a grandi falcate è ancora urgente avere qualche modello di riferimento, qualche eroe in cui credere. Qualcosa o qualcuno, se possibile, che parli anche del futuro, del nostro e di chi verrà dopo di noi, e non di un passato che - come quello di Bowie e di quelli che avevano vent'anni o poco più come lui negli anni Settanta - comunque non ci appartiene.

E' dura invecchiare senza eroi, ve lo garantisco. E lo è tanto più se non si accettano quelli precotti (direi decotti) musicali, letterari e politici che la stragrande maggioranza del mondo social (banalmente, semplice evoluzione tecnologica delle piazze e dei bar della stra-provincia nazionale) continua ad accreditare come tali per pavidità e/o opportunismo.

Ma va bene così: meglio essersi accorti per tempo del grave rischio che si stava correndo.
Tolti di mezzo preconcetti e pensieri artefatti, però, che si fa? Come si vive? E chi lo sa.

Di certo, mi ci vorrà un po' di tempo per rimettermi in una qualche carreggiata.
Perché se dovessi basarmi sulle offerte di lavoro che quotidianamente mi segnala Infojobs (verso l'1 di notte, giusto per farmi venire l'ansia, casomai a quell'ora sbirciassi il cellulare: fortuna che non lo faccio mai), adesso dovrei stare già giocando i numeri che mi vengono spesso in sogno.

Ho provato - giuro, l'ho fatto proprio ieri in vista di questo post - a restringere il "campo dei miei interessi", come mi suggerisce uno dei portali per la ricerca del lavoro più gettonati in Italia, ma niente, i risultati restano più o meno gli stessi.
Ve ne faccio qualche luminoso esempio.

L'incipit della mail è sempre lo stesso: "Ciao, Alessandra. Ecco le offerte di lavoro selezionate per te, sulla base delle tue preferenze". Bene: oggi da Fermo mi segnalano una posizione come "carrellista settore cartotecnica". Lo preferisco, secondo voi? La domanda, ovviamente, è retorica. Ma andiamo avanti.

Nella provincia di Ancona, mi si prospetta un attraente futuro come carrozziere, oppure, in alternativa, come aggiustatore meccanico di stampi (basta cambiare la i con la a finale, ed ecco spiegata la ragione di questa segnalazione). Se proprio non dovessero bastarmi, potrei sempre propormi per fare il cuoco, il lavapiatti o, udite udite, l'addetto alla fonderia. Eh, ma quante ne vorrò ancora? Ah, ecco: cercano anche un addetto alle pulizie. Ok, quelle, tutto sommato, le faccio sempre a casa mia, magari mi prendono.

Apro l'offerta. E no, non mi prendono: cercano gente iscritta alle categorie protette, che però sappia usare macchinari per la pulizia di tipo industriale. E vabbè, meglio non commentare sennò faccio adirare qualche seguace del politicamente corretto.

Tra i miei mestieri preferiti, c'è quello del fresatore: me lo propongono molto spesso. Dovrò pensarci su. Se fossi stata un po' più grossa (sono muscolata, vero, ma pur sempre femmina e pure tappa), potevo candidarmi come vigilante: mi ci vedevo con la divisa.

E insomma: Infojobs (ormai è sicuro) non mi trasformerà di certo in qualcosa che non sono. Mi piacerebbe tuttavia sapere se a qualcuno è servito. Davvero: c'è qualcuno tra voi che ha trovato lavoro grazie a questo portale o altri? O vale la solita storia del passaparola? In fondo, anche per trovare casa, alla fine, sono serviti innanzitutto i miei occhi cecatelli, grazie ai quali ho visto il cartello vendesi su quello che sarebbe diventato il mio balcone.
Non mi vorrete forse dire che tutta sta' tecnologia è solo un grande specchietto per le allodole e che il lavoro si continua a cercare col solito sudore e consumo delle scarpe? Ma allora di che parliamo quando ci dicono che dobbiamo smetterla di girare e invece di telelavorare? O pure questa faccenda qua è già passata di moda, come credo?

Tolta l'ovvia considerazione sulla fine già giunta non da mo' del mestiere del cronista con taccuino, lapis e cappello sulle ventitré, come lo si vedeva nei film in bianco e nero che tanto mi piacciono, si avrà pure il diritto di ricominciare in qualche altro modo, utilizzando, sperabilmente, le competenze e le esperienze comunque accumulate anno dopo anno?

Sono davvero curiosa (ma mica vero) di leggere il resoconto dell'incontro organizzato domani a Roma dal gruppo parzialmente aderente alla Federazione nazionale della stampa italiana, tale Lsdi, acronimo, piuttosto emblematico, che sta per Libertà di stampa, diritto all'informazione, sulla sfiga generalizzata della maggioranza dei giornalisti freelance.
Secondo i dati raccolti dal gruppo, infatti, pare che ben il 64% e passa dei giornalisti italiani eserciti (per così dire) la professione da freelance, ossia senza un contratto o, se vogliamo essere più eleganti, come autonomo. Bene. Anzi, malissimo: perché di questi ben 4 giornalisti su 10 sono come me, ossia a reddito zero.

Giuro: non voglio lamentarmi. Ho scelto da sola di allontanarmi dalla grande città etc etc, ma resta il fatto che così non si può andare avanti. Chi può, davvero, impari a fare il fresatore. Tutti gli altri, ciccia, imparino, se già non l'hanno fatto, a mutare prospettiva.
Io ci sto provando, giorno dopo giorno, e non da adesso.

Tanto per fare un esempio: sto continuando a studiare tedesco e a leggere/ascoltare l'inglese. Soprattutto, leggo libri (pochi giornali) e cerco di concentrarmi. Su cosa? Su tutto ciò che mi regala la giornata, dall'ora di palestra al telefilm della sera. Sui riflessi del mare e del cielo, sul vento improvvisamente caldo e pure sulle mie mani sempre un po' martoriate. Se posso, condivido le stronzate che scrivo e che fotografo. Cerco, al contempo, di non essere troppo dipendente dalle tecnologie, perché dopo un po' che sto qui a digitare o, peggio, con il collo piegato stolidamente sul dannato smartphone, mi prende un certo mal di vivere.

Vorrei più cultura, più bellezza, più arte, più poesia in queste giornate di "reinvenzione". Per questo, poi, se se ne va uno come Bowie, di cui, ripeto, so pochissimo, mi intristisco pure io.
Fortunato lui e quelli come lui che sono passati alla storia. Che grande privilegio (e spesso dannazione) hanno avuto.

A noi umani normali tendenti allo squallido anonimato non restano che poche tracce di quelle stelle eterne. Cerchiamo solo di tenere lo sguardo fisso lassù. Così, almeno, ci sentiremo più leggeri.
Ciao pure a te, bellissimo Duca.

martedì 5 gennaio 2016

Attaccarsi al presente, lo dice mia Brezny-cugina



Non bisognerebbe mai rileggersi, soprattutto quando si era convinti di aver cancellato alcune tracce del proprio passato che, invece, erano ancora lì sepolte in qualche cartella virtuale.

Sto cercando il più possibile di restare attaccata al presente (come mi ha suggerito l'intelligente cugina nell'oroscopo personalizzato che ha diffuso su Facebook), ma, davvero, a volte il caso è più crudele di un'offesa mortale.

Mi sono ritrovata all'improvviso in quell'ospedale che in verità continuo a frequentare quasi mensilmente.
Mia madre era a uno dei primi ricoveri, la vestaglia celeste a incorniciare la sua bella non troppo smagrita figura. Adesso quella vestaglia è passata a una zia simpaticissima: mi piace vedergliela addosso, di tanto in tanto, insieme con gli altri vestiti che ha voluto prendere con sé.

La nostalgia, a dire il vero, aleggiava già da ieri, mentre leggevo i bellissimi racconti di un'amica, in cui l'ho vista bambina e ragazza per la prima volta. Mi ha fatto davvero un bel regalo: le sue parole ben scritte mi hanno mostrato meglio di una fotografia un tempo che non ho conosciuto direttamente, ma che in qualche modo mi appartiene dalla nascita.

Nel video sull'infanzia che ho montato l'anno scorso più o meno nei giorni in cui mia madre avrebbe compiuto 73 anni, si vedono i residui di una campagna molto simile a quella in cui è vissuta la mia amica. Non ho voluto diffondere quelle immagini tratte da vari filmini girati in prevalenza da mio padre con la cinepresa Super8 che da poco ha peraltro ritrovato, per rispetto della privacy dei parenti che vi sono stati immortalati.

Chi è stato bambino e ragazzo negli anni Settanta, comunque, sa di cosa sto parlando.
Quei giorni non torneranno più, ma tanto lo si dice sempre, in ogni generazione.

Diverso è accorgersi che frasi scritte poco meno di tre anni fa, fanno ancora male.

Fa niente. Poi passa. E mia cugina ha ragione: meglio concentrarsi il più possibile sul qui e ora.
Il che non significa non progettare alcunché: significa solo riporre le zavorre di certi ricordi e guardarsi bene allo specchio. Oggi sono una persona diversa, uguale nell'essenza, ma diversa.
Niente è mai uguale. Pure il codice d'accesso all'home banking tra poco cambierà.

E io ho troppe cose da sistemare (lavorare, magari) perché mi possa abbandonare a molli amarcord.
La Befana, per fortuna, sta per arrivare. E le giornate si stanno già allungando. Wow.

mercoledì 30 dicembre 2015

Eroi per un giorno, eroi per sempre: buon 2016 a tutti noi


Heroes è un grande successo di David Bowie, scritto (e presumo composto) con Brian Eno.
Da ignorante (quasi) integrale della musica, l'ho scoperto solo pochi giorni fa, ascoltando Andrea Schroeder, che l'ha reinterpretato in tedesco.
Come sapete, sto studiando pure la lingua crucca, onde superare (ma chissà quando ci riuscirò) lo smacco del concorsone Rai, al quale, almeno auf Deutsch, non ho preso neanche un punto.

Ebbene: ascoltare la voce profonda, alla Marianne Faithfull, di questa affascinante musicista tedesca, nel negozio di dischi e libri di cui vi ho già parlato, mi ha fatto venire una gran voglia di conoscerla meglio.

L'intero disco (uscito l'anno scorso) si chiama Where the wild oceans end e contiene diverse tracce notevoli (Until the end è super, ma mi piace moltissimo anche Summer came to say goodbye, forse perché parla della stagione in cui sono nata io, l'estate, la più crudele di tutte per antonomasia).

Helden, come immaginerete, significa "eroi" e parla (se ho capito bene il testo tedesco) di due che si sentono tali almeno per un giorno. Il motivo, almeno nella versione tedesca, non è subito intellegibile (per una che sa il tedesco come lo so io, almeno). In quella di Bowie, invece, lo è assai di più: si parla di una coppia che, essendo capace di nuotare come delfini (penso metaforicamente), finalmente si sente libera di amarsi, quindi di diventare re e regina, vincendo su quelli che normalmente li annienterebbero.

In tedesco, più o meno, il senso è lo stesso, con la differenza che qui si cita il muro (penso non casualmente) e che il ritmo è molto meno vorticoso che nell'originale inglese.

Andando via dalla parrucchiera, sotto il cielo che scuriva, ho ascoltato a tutto volume Andrea e i suoi Helden e mi è parso di esserlo pure io.

Siamo in molti a essere tali, anche se non ce ne accorgiamo. Ne siamo consapevoli a sprazzi quando amiamo e siamo riamati.
Detesto la retorica per cui la faccio breve: sarebbe davvero bello se nel 2016 stati di grazia come quelli descritti da Andrea Schroeder e da David Bowie (che ho visto in un concerto da Berlino del 2010, restandone fulminata) si moltiplicassero.

Sentirsi eroi nella quotidianità, anche quando tutti gli altri pensano di noi il contrario, deve essere, è, una sensazione straordinaria.
Lo auguro a tutti voi, a me, a noi che sappiamo quanta fatica ci voglia per non farci schiacciare come schifose cimici.

Nuotando, possibilmente in compagnia di chi amiamo, da qualche parte, prima o poi, approderemo.
E saremo re e regine. Per un giorno. E per sempre.
Buon anno!