giovedì 5 maggio 2016

Il posto di lavoro ideale? Il catasto di Totò


Fa freddo e sono nervosa. La premessa è necessaria per darvi un'idea climatico-psicologica delle mie prossime parole.
Alla foto che vedete sopra ho dato come titolo "Il posto di lavoro", cancelletto sottostante, tanto per darmi un tono trendy, #arianuova.

Si tratta più di un auspicio che di una condizione, ma davvero, rischio di apparire insopportabilmente pesante, quindi mi fermo qui.

Ieri però c'era il sole e pareva che finalmente la temperatura stesse salendo. Invece niente: indosso il maglione finto anni Ottanta che di solito sfoggio durante l'inverno sopra una felpa nemmeno quella tanto leggera.

Vorrei darvi qualche notizia interessante sulla cosiddetta fase nuova che sto vivendo, ma non ne ho.
Mi sono ritrovata, però, un'oretta fa, ad alzare un po' la voce con il padre anziano, che animato - lo so - dalle migliori intenzioni mi chiedeva aggiornamenti. "Mi stai facendo innervosire come succede a te quando ti chiedono come va la salute", gli ho detto a un certo punto con una certa acidità. Ma era proprio vero. 

Chissà se adesso ha capito che cosa significa per noi affezionate figlie e/o altri parenti quando non sappiamo come prenderlo. 

Mi dispiace davvero di non essere leggera né rassicurante, ma le cose stanno così.
Dopo tutti questi mesi passati a fare un po' come mi pare, lavoricchiando prima, smettendo del tutto poi, avrei voluto affrontare con serenità flutti e marosi connessi a qualsiasi lavoro.

Purtroppo non ci riesco. Non oggi, non in questi giorni.
Provo, semmai, un affanno strano e una tensione che non mi piace. 
Speriamo che gli allenamenti fisici di questi anni mi preservino da colpi improvvisi.

Resta pur vero (e in fondo l'ho sempre saputo) che io tutta questa resistenza allo stress non ce l'ho mai avuta. Lo sappiano i motori di ricerca di lavoro che consulto quasi giornalmente: se mi vorrete mai nei vostri staff, prima mi dovrete portare una bella tazza di valeriana. 

Dovevo lavorare all'ufficio del catasto dei tempi di Totò. E pazienza.

Però leggere ad alta voce con le cuffie sulle orecchie mi piace assai. Se già riuscissi a sentirmi più tranquilla sotto questo piccolissimo aspetto, il disorientamento e la scarsa convinzione che mi zavorrano al momento, almeno mi lascerebbe una traccia negli anni che verranno.

Mi zittisco.
Le trasmissioni riprenderanno al più presto possibile.

Con un umore (e una temperatura!) speriamo migliore.
Buoni giorni di maggio a voi.

domenica 1 maggio 2016

Paura e solitudine. Ovvero il lavoro che c'è


Ho scattato questa foto qualche giorno fa, sulla spiaggia. Poi l'ho condivisa su Instagram, dandole un nome tutto sommato piuttosto banale: "In cammino". Sono rimasta sorpresa dall'alto (per così dire) numero di cuoricini ricevuti (corrispondenti ai like di Facebook) e così ho deciso di usarla per questo post sul primo maggio e il #lavorochec'èenonc'è.
Quello che non c'è, ormai, è piuttosto noto a tutti, al di là dei dati diffusi (ma che strano) giusto alla vigilia della festa odierna.

Vorrei, però, parlarvi, una volta tanto anche di quello che c'è.

Succede che un caro amico ha una promozione e ricomincia dal punto che aveva deciso di mettere (pazza idea) vent'anni fa. Un miracolo, certo, ma anche un cappio. Sei riuscito a tornare a galla? Allora accontentati di questi duecento euro in più contro undici ore di lavoro giornaliere e zitto, che fuori c'è la fila di gente che farebbe lo stesso per molto meno denaro e svariate ore di travaglio in più.

Oppure: vuoi che ti paghi? Eh, ma prima devi aspettare che incassi i proventi della pubblicità. Mica pretenderai uno stipendio tutti i mesi? In fondo siamo una famiglia: se vuoi ti dò un ciauscolo, almeno magni.

Ah, non ti piace come ti trattiamo? Questa è la porta e adiòs, ci frega assai se il sindacato appoggia la tua causa e se noi tuoi datori di lavoro siamo imprenditori milionari.

"Paura e solitudine": è lo stato d'animo vissuto da molti. Si parlava di giornalisti, a dirlo era Guido Besana, sindacalista e dipendente Mediaset, ma di certo non capita solo a loro.

Succede semplicemente un fatto e lo ha mostrato molto efficacemente sempre lo stesso Besana all'assemblea del Sindacato giornalisti marchigiano, più deserta di una riunione di cospiratori.

Il giornalista, omone con barba, ha alzato un braccio per riabbassarlo lentamente subito dopo, con l'intento di mimare la curva discendente dei redditi della mia categoria. Una parabola che la sta portando ad avvicinarsi sempre di più a quella del resto dei lavoratori, con una coda non trascurabile di colleghi che stanno già ben al di sotto della soglia considerata minima dalla cassa previdenziale dei giornalisti (l'Inpgi).

Giusto un paio di numeri, per fingere che servano a qualcosa: secondo Besana, contro una retribuzione media pari a circa 60 mila euro all'anno percepita dai giornalisti italiani dipendenti (mi sfugge, non me lo sono appuntato, mea culpa, quanti siano), ossia quelli con contratto regolare e con una serie di tutele previdenziali e sanitarie che non oso nemmeno immaginare, si è nel frattempo fatto largo (largone, direi) un gruppo di circa trentamila giornalisti che all'anno di euro ne prendono circa 9 mila.

Non voglio tediare i non addetti ai lavori sulla differenza tra pubblicisti e professionisti, ma posso solo dirvi che tra quelli che prendono così poco, ne conosco parecchi, dell'una e dell'altra categoria. E sto parlando di persone che non hanno modo di integrare quelle modeste entrate con altre più serie, sia per questioni di tempo (c'è gente che lavora undici ore al giorno per tenere in piedi attività che altrimenti chiuderebbero) sia per scarso appeal del loro curriculum sul mercato del lavoro.

Chi ha fatto più o meno sempre lo scribacchino, in altri termini, difficilmente riesce a riciclarsi in qualcos'altro, a meno di non avere uno zio buono o qualche altro protettore.

"Oggi ci sono molti più concorrenti a buon mercato di quanti ne avevamo un tempo", ha detto il sindacalista milanese. Che però, bisogna che lo aggiunga, ha parlato anche di una mediazione in corso tra gli editori e la federazione nazionale della stampa per rivedere in qualche maniera il contratto giornalistico fortemente disatteso al di fuori dei media mainstream, per tentare di salvare la truppa sempre più povera dei soldati Ryan dell'informazione.

Potrebbe nascere una specie di collaboratore-dipendente-a-orario-ridotto, però a tempo indeterminato. Una specie di mix in tono minore tra l'articolo 1 dell'anacronistico contratto giornalistico e i collaboratori esterni di una volta, quelli che in redazione potevano giusto entrare per farsi dare incarichi/ramanzine, senza la possibilità di lavorare al desk (ossia titolare, sistemare pezzi altrui etc etc).

Io non so dirvi se mai nascerà quello che ironicamente qualcuno ha battezzato "articolo x". E tutto sommato, francamente, penso che al grosso della gente non interessi affatto.

So solo che se devo continuare ad aggirarmi in questo mondo, mi toccherà confrontarmi con il presente. E con il futuro. Camminando sulla sabbia senza affondare, come nella foto.
Finché morte non ci separi.

Tiè.

Buon primo maggio a tutti, amici.

mercoledì 27 aprile 2016

La cucina di mia madre e i cambiamenti



Nello spogliatoio della mia amata palestra, si parlava di fritto di qualità. Una mia simpatica omonima, in particolare, diceva che per Pasqua voleva assolutamente il menu tradizionale e che se non fosse stato possibile a casa di non so quale parente, ci avrebbe pensato lei.
Parlava di "agnello fritto" (eh, lo so, per i miei eventuali amici vegetariani e vegani è un bel colpo), ma soprattutto di zucchine fritte.
Mi sono tornate in mente, altro che Proust, le zucchine impanate a fili di mia madre. E le sue alicette pastellate e spruzzate di limone.

Qualche giorno fa mi è successo qualcosa di simile mentre cucinavamo, mia sorella ed io, i carciofi ripieni. Essendoci avanzato parecchio impasto a base di pane sbriciolato, preparato da una eccezionale infermiera cuoca che aiuta mio padre, ma rafforzato da mia sorella con prezzemolo, aglio e olio, ho avuto l'idea di aggiungere qualche patata, debitamente scavata e riempita.
L'accostamento del tubero all'ortaggio era abituale per mia madre: me l'aveva ricordato qualche settimana prima una zia, nel mostrarmi i suoi ottimi carciofi cotti come i nostri in padella.
La mamma, in verità, non usava quasi mai l'aglio né cucinava i carciofi sui fornelli, bensì in forno, ma è stato comunque, almeno inconsciamente, un mio tentativo per celebrarla.

Quello stesso giorno, nella nostra casa di Francavilla, abbiamo fatto pulizia di oggetti e vestiti non più utilizzabili. Tra questi ultimi, ahimè, c'erano anche i suoi costumi. Alcuni mai messi: almeno, io non glieli ho mai visti.
Ma lei era così: comprava un sacco di roba anche per il mare, ma poi, non si sa bene per quale processo psicologico (a noi figlie ci sembra ogni tanto che volesse punirsi di qualche colpa immaginaria), metteva sempre gli stessi costumi, le stesse vestagliette. Una di queste è finita nel mio bagaglio e ora è nel cassetto. So già che difficilmente la indosserò: mia madre aveva tipo una quarta di reggiseno e un paio di taglie in più di me, ma non ce l'ho fatta. E poi chissà, magari me la metto lo stesso.

Non so che cosa mi sta succedendo, ma ogni tanto mi pare che sia tutta colpa dei cambiamenti che sto vivendo in questi giorni se, all'improvviso, senza un motivo apparente, mi tornano alla memoria questi micro-flash del passato. Non mi riferisco solo a mia madre, ma anche ai profumi ritrovati della mia adolescenza, in un primo pomeriggio di giorni fa sul balcone della casa dei miei, e ad altri ricordi più recenti (dieci, quindici anni fa) di quella che ero e non sono più.

Mi stupisco, a tratti, della mia età attuale e in altri mi sento la stessa energia e la stessa voglia di fuggire che avevo da ragazza. Quella nutrita da giovane adulta, voglio dire, prima che il dolore si abbattesse sulla nostra famiglia. Prima che arrivassero le malattie e i doveri di una figlia di padre anziano.

Fuggire, ho detto. Forse non è esatto.
Vorrei solo che davvero la fase che sto vivendo sia la mia occasione per ricominciare daccapo.
Qualcuno con più fede di me direbbe che già solo desiderarlo fortemente è un buon segno. Sinceramente, la mia testarda razionalità (quella che spesso mi frena più del necessario, lo so) mi impedisce di crederlo fino in fondo. Ma comunque io ci sto: afferro quello che sta arrivando e cerco nel tempo libero di lasciarmi scivolare ciò che viaggia in senso opposto, miei scetticismi compresi.

Sono incuriosita dalle persone con cui ho cominciato a lavorare ed è obiettivamente una gran cosa.

Ieri mi si è rotto il gancio del laccio porta ciondolo con la fotografia di mia mamma.
Qualche settimana fa ho perso il suo portachiavi (e le relative chiavi, mannaggia a me).
Il mio lato animistico-abruzzese mi suggerisce che siano tutti segni delle energie che circolano intorno e forse anche dentro di me.

Questo corpo che non è riuscito ad accogliere una nuova vita, probabilmente, vuole comunque essere vitale e fecondo. Lo sento. E stavolta la testa non c'entra.
Speriamo davvero di poter dimostrare chi sono e cosa posso diventare quando mi sento nell'ambiente giusto. Non solo agli altri, ma soprattutto a me stessa.

Chi vivrà vedrà.
Alla prossima, cari amici.

mercoledì 20 aprile 2016

Da Fermo... a Fermo Attivo!



Non lo faccio quasi mai, ma oggi mi rilancio (sempre per via del mio rapporto passato-presente con Fermo).

Chi può, vada sul Colle del Girfalco dal 23 al 25 aprile: ci troverete ben due manifestazioni artistiche e culturali. 
Io, invece, molto probabilmente, sarò nella terra natale.

Buoni giorni.

mercoledì 13 aprile 2016

San Marco alle Paludi, forza, voglio rivederti presto intatta



Conosco la piccola abbazia di San Marco alle Paludi, alle porte di Fermo, da quando sono arrivata in zona: anzi, da prima di trasferirmici stabilmente.
Ricordo benissimo l'anno e anche la data in cui ci sono entrata per la prima volta: 2001, 6 ottobre. In quel giorno, è cominciata ufficialmente la vita matrimoniale della mia amica Tullia, detta così da noi italiani. Perché il suo nome vero è cinese, anzi vietnamita. Giusto stamattina mio marito ha sentito Thu, che da quel lontano giorno di quindici anni fa è andata a vivere nel Teramano e ancora una volta, come nel precedente post, a ripensarci, mi corre addosso un mini-brivido.

Sarà che questa piccola donna, costretta alla sedia a rotelle da una malattia invalidante che l'ha colpita quand'era una bambina, è sempre stata una maga. E' a causa sua (sì, diamole tutta la colpa) se poco tempo dopo sono venuta a vivere a pochi chilometri dalla chiesa di don Vinicio Albanesi, rimasta vittima, poco prima della mezzanotte di ieri, di un attentato esplosivo.

Stamattina, poi, tutto avrei immaginato fuorché di incontrare giusto quest'ultimo, il "padre" di Thu e dei molti altri ospiti della Comunità di Capodarco, un altro luogo fondamentale del mio passato.
Immagino (l'ho scritto) che fosse andato lì per un primo sopralluogo sull'entità dei danni subiti, a una prima occhiata piuttosto ingenti.

Cioè a dire che le probabilità di incontrarlo, in fondo, erano abbastanza alte. Eppure, pensando anche alla seconda volta in cui sono entrata in questa chiesina, ossia per il funerale di Pia Colonna, una donna fragilissima nel corpo ma dalla tenacia di una regina, secondo me, di casuale non c'è proprio niente.

Ma finiamola di mescolare la realtà alla fantasia. O al destino di cui vi ho già parlato.

Voglio davvero augurarmi che i tre episodi vandalici che hanno colpito la Chiesa fermana nel giro di due mesi siano "solo" gesti dimostrativi e intimidatori, come sembra sostenere don Vinicio.
In caso contrario, le tranquille contrade di questa schiva provincia potrebbero mutare natura nel giro di poco tempo.

Lo dico perché, come sappiamo, la percezione comune del senso d'insicurezza si è notevolmente acutizzata, quindi ha ragione il sindaco di Fermo, Paolo Calcinaro: bisogna essere vigili. In che modo e con quali strumenti, naturalmente, non è mia materia.

Tornando al biografico, ci tengo davvero che San Marco alle Paludi torni in fretta a essere quell'oasi di bellezza e di misticismo che ne ha fatto un punto di riferimento non solo per la città, ma anche per i visitatori che per caso o per scelta la vengono a visitare.
La quarta volta che ci tornerò, insomma, voglio che sia per un'occasione lieta. E che diamine.

Forza San Marco. Il terrore e la barbarie non ti avrà.

 

lunedì 11 aprile 2016

Da Fermo a Fermo... ad maiora!

Foto scattata nel 2011 a Fermo, in via Mazzini, poco prima della statua di San Savino

La didascalia, stavolta, riassume più o meno tutto.
Stamattina sono tornata proprio nella via dove ho vissuto per sei anni. L'anno prima ero sempre a Fermo, ma in un'altra, fondamentale, casa.
Durante i sette anni passati sul Colle del Girfalco, come sapete, mi è successo un po' di tutto.
Credo di averlo già scritto, ma è bene ripeterlo: credo di essermi trasformata in una donna adulta proprio durante questi cruciali, a tratti dolorosissimi, sette anni.

Vado molto cauta con la novità che mi ha portato di nuovo alla base del punto più alto della cittadina marchigiana. Per ora mi limito a osservare che sembra davvero l'inizio di una fase nuova.
Detto in altri termini, forse davvero era necessario che lasciassi la collina per potermici riavvicinare con un altro spirito

Comunque andrà a finire, oggi, dopo tanto tempo, ho risentito il gusto di un mestiere che credo mi abbia scelto, non il contrario, manco fosse una vocazione mistica. 

Certe volte penso sul serio che sia tutto scritto e che conviene rilassarsi e lasciare che il giorno X si avvicini senza inutili resistenze. In altri casi, credo ancora di più che bisogna volere fortemente il cambiamento e concentrarsi per non farci cogliere impreparati.

Sono tutte sciocchezze, ma sì. 
Dirò di più tra qualche tempo. E il tempo lo farà con me.

Oggi è meglio godersi il pomeriggio assolato, il primo con un cielo blu che ti spingerebbe a strapparti i vestiti e buttarsi a mare (ma la brezza lo sconsiglia, diciamo dai quaranta in su).
Rubando il motto all'altro blog, posso concludere solo in questo modo: ad maiora!


lunedì 4 aprile 2016

Tanti auguri, cara mamma


Da quando lei non c'è più, l'aloe sul balcone dei miei non ha più messo fiori così rigogliosi. 
L'ultima volta che sono tornata, stava finendo di sfiorire un unico, solitario, braccio segaligno.

Ed è già tanto che la pianta sia riuscita a sopravvivere: l'estate scorsa era tutta marrone, rugosa come un pezzo di Grand Canyon. Invece si è ripresa. Misteri della botanica o di chissà cosa. 
Se ci fosse stata ancora, le avrei per esempio raccontato della bizzarra pianta spuntata così, senza ragione apparente, dietro al piccolo, resistente ciclamino, uno dei pochi che mi sta dando qualche soddisfazione. Com'è possibile?, mi sono detta guardando i boccioli di alcuni fiorellini gialli di questa pianta aliena ben più alta di tutte le mie creature vegetali. Come diavolo sarà finita nel mio vaso, come diavolo ha fatto ad annidarsi giusto dietro al ciclamino? 

Sì, gliel'avrei raccontato e immagino che le avrei pure mandato la foto che ho pubblicato ieri su Facebook anche via Skype. Oppure lei stessa mi avrebbe anticipato, scrivendo, non cliccando, "mi piace" sotto la stessa.

Oggi è un giorno malinconico, ma ancora una volta, come mi succede sempre più spesso man mano che si allontana il giorno in cui mia sorella ed io l'abbiamo vista andarsene via, non riesco a pubblicare le sue fotografie. Eppure ne ho di belle, di dolorosamente belle. Sarà per questo o sarà perché mi sembrerebbe di esporla ancora di più ai meccanismi dell'emozione social.

Bisognerebbe avere più pudore, più riservatezza. Sono sicura che lei sarebbe d'accordo, anche se, come una bambina, amava usare le faccine di Skype esattamente come faccio io.

Negli ultimi mesi l'ho sognata spesso: era viva, energica e ansiosa come lo è stata davvero, a tratti preoccupata per qualcosa, ma quasi mai malata. Non ho davvero idea di che cosa vogliano dire così tanti sogni su di lei e sul resto della mia famiglia. Spesso, infatti, ci sono anche mio padre e mia sorella, spesso siamo in case grandi, tipo quella che ormai non è più tra i beni comuni, della mia nonna materna. A volte sono presenti altri parenti non meglio specificati.
C'è casino come nelle riunioni vere che per fortuna facciamo ancora.

E c'è anche, ogni tanto, quella specie di morsa allo stomaco che mi prende quando siamo davvero tutti insieme, quel senso del tempo che fugge, quelle facce più smagrite o quei fisici un po' appesantiti, che sorridono e mangiano fingendo svagatezza.

A tratti ridiamo sinceramente, aiutati, forse, anche da un pochino di vino. Al commiato ci promettiamo di rivederci presto, ma già sappiamo che passerà parecchio tempo e che la volta successiva dovremo fare comunque un piccolo sforzo iniziale per ritrovare quel calore che ci fa star male a pensarci quando siamo lontani.

La famiglia è un'esperienza troppo simile e insieme diversa per ciascuno di noi. Qualcuno recide i legami per tempo, ma chissà se poi di notte sogna cose ben più complicate di quelle che capitano a me.

Oggi ho letto il vangelo del giorno, in onore suo. Mia zia (sua sorella) prende a me e mia sorella il messalino, che ha cadenza bimensile. Me lo sono portato anche a Venezia (in fondo negli alberghi ti lasciavano una Bibbia, almeno nei film sembra che succeda ancora così), ma lì non l'ho neanche tolto dalla valigia.
Oggi, invece, l'ho aperto: Luca racconta di quando l'Angelo avvisa Maria che avrà un figlio da un uomo chiamato Giuseppe, pure se quest'ultimo non la sfiora nemmeno. Il massimo del legame con l'Altissimo, il mistero della vita incarnato in questa donna così speciale.

Mia mamma era nata proprio oggi. O forse ieri, come mi ha raccontato molte volte. Pare che l'avessero registrata con un giorno di ritardo, infatti. Un bi-compleanno poteva capitare solo a lei, profondamente legata al cielo e alla vita. 

La verità è che non ho ancora accettato di non poterla vedere mai più, anche se sono certa che possa sentirmi. E guidarmi ancora. La pensa così anche zia Zita, una persona straordinaria, che ieri ha compiuto 81 anni, la più simile a lei, sotto certi aspetti, almeno. 

Se è davvero così, buon compleanno, cara mamma. 
Magari quella pianta me l'hai portata tu. Mi piacciono i fiori gialli, forse lo sai. 

Grazie di tutto. Ora e sempre.