venerdì 11 dicembre 2020
Melisa Erkurt e il futuro dei giovani austriaci di origine straniera
mercoledì 2 dicembre 2020
Un matrimonio riuscito
Non se n'era mai andato, ma è da qualche giorno che ne avverto la presenza nitidamente.
Sto parlando del volto di mia madre, ma non solo di quello.
La vedo a figura intera, in alcune sue pose tipiche.
La sera dopo cena spesso la trovavo seduta in cucina nel suo modo bizzarro. Poggiava le ginocchia sulla sedia, sempre la stessa, dal lato dei fornelli, e i gomiti sulla tavola. A volte si teneva il mento tra le mani, altre volte sfogliava i giornali del mattino in quella posizione, come se volesse dominarli dall'alto con il suo busto, avvolta nella vestaglia, lunga e materna.
La schiena la teneva piuttosto piatta, vagamente inarcata all'indentro, come quando si fanno certi esercizi di ginnastica. Nelle sere d'inverno, quella posa piaceva moltissimo a Sancio e Stino, i due gattoni di casa.
Non di rado se li ritrovava addosso, un peso enorme, tutto considerato, per il quale, chiamandomi a gran voce, rideva fingendo sconforto.
Sono sicura di avere una foto in cui l'ho ritratta così, con quei due vitelli a pesarle sulla bella schiena di mamma.
Aveva anche un'altra postura stravagante, che poi le ho rubato. Seduta al solito posto, girava la sedia verso la televisione e, per guardarla, poggiava i piedi sulla sediolina impagliata della nonna. Per la precisione, di solito li infilava sul sostegno orizzontale delle piccole gambe di legno. Non sia mai che dovesse rilassarsi del tutto.
La schiena, però, le si piegava un po' in avanti, soprattutto quando poggiava i gomiti sulle ginocchia e si teneva, stavolta sì, il mento tra le mani. A pensarci adesso, in quei momenti sembrava più vecchia di come fosse in realtà.
E d'altra parte, non ho mai ben capito perché, nonostante avesse sonno, amava restarsene lì in cucina fino a tardi, spesso fino a dopo mezzanotte, la porta della cucina accostata per trattenere ancora un po' il calore dei termosifoni ormai spenti e forse per non disturbare mio padre e, quando c'ero, anche me.
Dopo aver chiuso la tv in sala, prima di andare a letto passavo dalla cucina per salutarla, spesso le davo proprio il bacio della buonanotte, anche da grande.
Una volta, però, mi ha scioccato.
Mia nonna, sua madre, era morta da pochi giorni e lei era davvero a pezzi.
Io ero appena uscita per sempre dal liceo: negli ultimi due anni avevo dormito spesso dalla nonna, via via che la sua salute si faceva più precaria.
In genere andavo da lei volentieri: mi piaceva il latte bollente (mi pelavo proprio la lingua) con il Nesquik e i biscotti Atene Doria (sempre quelli) che la nonna mi faceva trovare tutte le mattine nel soggiorno, dopo aver lasciato la tazza sulla stufa a gas, per tenermela meglio in caldo.
Ricordo il tratto in macchina che separava il nostro appartamento dalla sua grande casa. Partivamo dopo cena, mentre guidava la mamma mi dava spesso una breve carezza sul ginocchio sinistro, quello più vicino al cambio. Poi arrivavo dalla nonna e aprivo io con le chiavi: lei mi salutava dal letto, gli occhiali sulla punta del grande naso.
Tutto questo, dicevo, un giorno d'estate è finito e forse me ne sento ancora un po' in colpa.
Gli esami si avvicinavano e io avevo bisogno di concentrarmi. Ho espresso questo mio desiderio probabilmente a entrambi i genitori, con la mia proverbiale veemenza. Oppure, chissà, quella volta la veemenza ce l'ha messa mio padre, sempre così pronto a farsi in quattro per le sue bambine.
Come sia andata, insomma, non lo ricordo più. So solo che quello è stato uno dei rari casi in cui ho visto mio padre alzare la voce con mia madre. Pareva proprio l'avvocato della pubblica accusa durante l'arringa finale, la mamma la controparte messa rabbiosamente nell'angolo.
La nonna, però, stava male davvero e, a posteriori, capisco quanto mia madre, sua figlia, dovesse essere preoccupata. Come posso lasciarla da sola?, si sarà detta, Chi veglierà su di lei durante la notte? Alla fine la scelta è ricaduta su mia sorella, tornata da Roma, dove frequentava l'università, non so bene se richiamata apposta o perché in pausa tra un esame e l'altro.
Proprio a mia sorella è toccato effettivamente soccorrere la nonna nei drammatici momenti finali. Quattro giorni dopo il mio esame orale, ci ha lasciato. Eravamo annichiliti. Il voto finale, per me, alla fine, non è contato più nulla.
Molto più importante, era invece riuscire a trovare un modo per stare vicino alla mamma, affranta come mai l'avevo vista.
Non potevo sopportare che soffrisse, è stato così anche molti anni dopo, quando si è ammalata. Solo in un'altra circostanza, qualche tempo prima, l'avevo trovata distesa sul divano della sala, senza forze. Chissà se aveva l'influenza o se era solo un ciclo particolarmente doloroso, fatto sta che io ero nel panico.
Ricordo di averla quasi sgridata: "Dai, su, alzati!", penso di averle detto e lei mi ha sorriso debolmente e mi ha risposto, qualcosa del tipo: "Sì, sì, domani sto meglio". Chissà se lo pensava davvero o se voleva solo rassicurarmi.
Stavolta la sua infelicità aveva un'origine diversa, non sapevo proprio come maneggiarla. Gli strepiti non sarebbero serviti e nemmeno altre lacrime.
Però una sera sono entrata comunque in cucina per il solito saluto della buonanotte. La mamma non piangeva più. Seduta davanti alla tv con i piedi sulla seggiolina, aveva la fronte corrugata di chi già da minuti stava rimuginando su un pensiero preciso e sgradevole.
Con una certa cautela mi sono avvicinata a lei, l'ho abbracciata e discretamente l'ho baciata sulla guancia magra.
Stavo quasi per allontanarmi quando l'ho sentita dire: "Voglio il divorzio".
Rammento di essere rimasta lì accanto a lei qualche istante, atterrita. Ma come? Ma perché? Papà aveva sbagliato, certo, o comunque non aveva capito la gravità della situazione, d'accordo, ma addirittura il divorzio. E io? E noi? Possibile che tutto dovesse finire così?
L'episodio mi è tornato in mente ieri, sentendo la rassegna stampa mattutina sulla radio, un'abitudine di famiglia ereditata dal nonno paterno che non ho mai più perso.
Fino a poco tempo fa anche mio padre la ascoltava sempre, non di rado a un volume piuttosto alto, negli anni più recenti, da suo lettone di vedovo.
La mamma no, la mamma guardava la televisione, non rammento di averla mai vista armeggiare con manopole e frequenze. Se fosse stata ancora tra noi, forse avrebbe visto in tv qualche servizio sui cinquant'anni dalla legge sul divorzio, l'anno in cui era incinta di me.
Chissà che cosa ne pensava ai tempi, chissà che cosa ha votato, quattro anni dopo, al referendum.
Di nostro padre parlava di tanto in tanto come di un uomo bravo, intelligente e serio, lodandolo particolarmente per le sue qualità di padre. "Quello che dite voi, per vostro padre, è legge", asseriva. Di solito tirava fuori questo discorso mentre era impegnata in qualche attività domestica, nello specifico mentre spazzava, ed io, a volte vagamente annoiata, ma in verità registrando ogni sua parola, l'ascoltavo dal piccolo divano dello studio, con un libro in grembo.
A sentirla parlare, insomma, il suo era un matrimonio riuscito, anche se ripetutamente a me e mia sorella ha detto che il vero collante che tiene in piedi qualsiasi unione, all'epoca sua come ai tempi in cui abbiamo messo famiglia noi figlie, è la donna.
Credo, sinceramente, che avesse ragione, anche se, almeno lei, ha lasciato che nostro padre gestisse i conti e altre attività storicamente considerate maschili, mentre lei, pur lavorando, ha voluto mantenere il controllo della casa e della nostra educazione affettiva. Per quella intellettiva, da un certo momento in poi, ci ha pensato invece papà, spinto dal grande desiderio di farci studiare, un'attività per la quale lui stesso era molto portato, come ribadiva sempre la mamma.
E dire che lei ha insegnato, aiutando a crescere generazioni di bambini, con una passione pura e vitale, che oserei definire violenta, in certi istanti. La mamma non amava le mezze misure, anche se all'esterno, soprattutto negli anni più maturi, fingeva una pacatezza per la quale spesso l'ho presa in giro.
Se non fosse stata così, così passionale e assoluta, intendo, non avrebbe detto mai quella frase, davanti a me diciannovenne, intontita e sognatrice com'ero.
A pensarci adesso, in queste ore in cui mi appare davanti con i gatti sulla schiena e gli occhi che le si chiudono dal sonno, sono contenta di aver vissuto quel momento. Quello squarcio di verità di donna offesa, ancora giovane, ancora forte e in grado di conquistare tutti, donne e uomini, con la sua bella figura e la sua autorevolezza.
Chissà come hanno fatto pace, chissà se papà le ha chiesto scusa, chissà in che modo l'avrà fatto, considerando la sua dolce goffaggine di uomo poco abituato alle smancerie.
In ogni caso sono rimasti insieme fino alla fine, ma temo che non sapremo mai quanto sia stata dura, per papà, vederla andarsene giorno dopo giorno.
Non ho mai pensato davvero che avrebbero divorziato, mai più, almeno, dopo quella volta.
Non so che cosa avrei fatto né come sarebbe stata la mia vita se fossi stata figlia di genitori separati. So invece com'è stato essere una figlia amata, una figlia che ha fatto fatica a crescere e che oggi fa fatica ad invecchiare.
Sono però grata a tutti e due per come erano e come saranno per sempre, diversamente ansiosi, ugualmente pratici, leggeri, pesanti, attenti.
Grazie, mamma, per essere sempre con me, con noi. Ti aspetto presto, davanti a me, dentro di me. Intorno a me.
E tu, papà, resisti. Pure io lo farò. Per te e per me.
sabato 14 novembre 2020
Vienna e i cestini dei rifiuti in arancio: "bennezza" geniale!
Credo di aver notato questo cestino della spazzatura già dal mio primo giorno a Vienna. Anche se adesso viene, ahinoi, utilizzato per indicare le zone a contagio Covid un po' più alto, l'arancione è un bellissimo colore.
A me, comunque, piace un sacco, e soprattutto in questa città, dove il cielo è in prevalenza grigio, trovo assolutamente sensato l'uso di un colore acceso per invogliare i cittadini a gettare i rifiuti nel posto giusto.
Nel mio subconscio, doveva avere insomma fatto centro quella scritta là, Hasta la mista, dal sapore spagnoleggiante. Ai tempi, però, di sicuro non avevo fatto caso al gioco di parole.
Dubito infatti che le reminiscenze piuttosto sbiadite del tedesco mi bastassero per ricordare che Mist, auf Deutsch, significa spazzatura.
O meglio: è una delle molte parole adoperate in tedesco per indicare la monnezza, "mista", per l'appunto, di materiali di non meglio comprovate origini.
A dirla tutta, il mio Langescheidt online Tedesco - Italiano e viceversa traduce la sopradetta parola con "letame" o "porcheria". E non pensate che si tratti di metafore, no no: il Duden Deutsch - Deutsch parla proprio di Vermischte Exkremente, un'espressione che non credo abbia bisogno di ulteriori spiegazioni.
Ma, a questo punto, qualcuno di voi forse si starà chiedendo: sì, ma a noi che ce ne cale?
Poco, probabilmente. Epperò la storia che c'è dietro questi arrotondati e colorati cestini dei rifiuti, e delle molte scritte che si vedono qui è là per Vienna, è molto simpatica (direi proprio geil, più o meno l'equivalente di cool...) e io ve la voglio raccontare.
Ho bisogno di più input |
Ad idearli e installarli ci ha pensato il Magistrat 48, ossia il dipartimento della città che si occupa della gestione dei rifiuti, oltre che della cura del verde urbano.
"Hasta la mista" è insomma solo la punta dell'iceberg di un servizio che occupa presumo diverse centinaia di persone che, con le loro ramazze e bidoni a rotelle, raccolgono cartacce & monnezza varia e spazzano via le foglie dalle piste ciclabili che ho percorso ogni giorno in questi mesi diretta al corso di tedesco.
Oltre a loro, ci sono gli addetti appesi ai camion, pure questi ultimi muniti di scritte. Negli ultimi tempi li ho incrociati spesso, qualche volta anche sbuffando per l'odore non proprio di rosa che esce fuori dalla loro enormi bocche di lamiera.
Il fastidio odorifero è però terminato il giorno in cui mi è apparso LUI, il camion dico, più figo della storia della nettezza urbana:
Stessa cosa è successa quest'anno con l'esplosione della pandemia. Le mascherine chirurgiche, si sa, non sono riciclabili, difficile peraltro ironizzarci sopra. In qualche maniera il Magistrat ci ha provato con questa scritta qua:
Per la frase sopra, contrastano alquanto le traduzioni offertemi dall'amica poliglotta e dal cognato tedesco, che pure non scherza quanto a competenza linguistica.
Facendo una mediazione tra i due, opterei per una salomonica traduzione: "Fai centro!", intendendo con questo: "Butta i rifiuti e le tue cicche nel posto giusto!".
Non me ne vogliano i puristi germanofili, ma oggettivamente l'è dura.
Andando avanti, un paragrafo a parte di questo mio viaggio nei "magistrali" cestini è rappresentato da quelli con scritte in tedesco "hoch", come a dire in italiano-italiano, ma comunque fortemente evocative:
Bel colpo! 😅
Prego, nutrire 😉 |
Alcune, personalmente, le trovo un po' troppo sibilline, ma pensando, per esempio, ai nostri comici preferiti (ognuno avrà il suo), non tutte le loro battute ci fanno sempre spanciare dalle risate. O no?
"La posso liberare di qualcosa?" |
"Buco nero cerca materia di scarto"... più o meno si traduce così! |
Insomma, l'idea è forte, la realizzazione anche, al punto che anche altre città, come Berlino (vedi cestino sotto), Amburgo e Innsbruck, hanno seguito l'esempio di Vienna, sempre stando a quel che mi ha detto l'impiegata del Magistrat 48.
Ora che guardo meglio il cestino berlinese, mi accorgo di un dettaglio che avevo tralasciato, da non fumatrice quale sono.
Anche i cestini viennesi sono dotati di un apposito sotto - cestino per le sigarette.
Ecco, forse è stato proprio quel tubo cilindrico bianco, culminante con il filtro arancione (munito anch'esso di scritta che ora non decifro), a colpirmi già dal mio primo giorno a Vienna.
All'inizio, insomma, potevo credo già apprezzare la finezza di una frase come questa:
"Sono dei geni", diremmo la mia amica poliglotta ed io, guardandola.
Solo lei poteva peraltro scovare questo:
Anziché "Rest" o "Mist", il Magistrat in questo caso ha usato il sinonimo Müll. Il gioco di parole è oggettivamente da Nobel:
"Sarei volentieri un Mullionario". Applausi, sipario.
Tra un attimo, bitte.
Sì, perché mi resta l'ultimo, fondamentale cestino, scovato nemmeno dieci giorni fa a due passi da casa mia:
Quando si dice il caso o il destino, eh?
Buona monnezza a tutti! :)
venerdì 6 novembre 2020
Vielen Dank, Vienna e... #schleichdichduoaschloch!
martedì 3 novembre 2020
C'era una volta Vienna
La chiamavano la città dalla migliore qualità della vita. Sono, erano dieci anni che Vienna continuava a restare in vetta alle classifiche internazionali che analizzano le condizioni più favorevoli di esistenza per il lavoro, l'ambiente e la sicurezza. L'ultima volta è successo solo nel febbraio di quest'anno. Praticamente un secolo fa, considerati tutti gli avvenimenti di questo lungo, assurdo e doloroso 2020.
Tutto questo, ieri sera, mentre lavavo i piatti, è finito.
D'ora in avanti Vienna sarà una normalissima capitale europea, come Parigi dopo il Bataclan e Charlie Hebdo, come Berlino e Strasburgo dopo gli attacchi ai mercatini di Natale, dopo e prima la decapitazione del prof Samuel Paty e le vittime di Nizza. Tra queste ultime c'era anche il sacrestano Vincent Loquès, 54 anni. Quando l'abbiamo saputo, con mio marito abbiamo riso amaramente, visti i contatti di lavoro che abbiamo, lui in particolare, con la Chiesa italiana di Vienna. La bellissima Minoriten Kirche, che ospita una pregevole riproduzione sotto forma di mosaico del milanese Cenacolo di Leonardo, si trova a due passi dai luoghi degli attentati di ieri sera. Noi, per fortuna, abitiamo a mezz'ora di bicicletta, nostro unico mezzo di trasporto dall'arrivo della pandemia.
A proposito. La pandemia e il lockdown scattato proprio alla mezzanotte tra ieri e oggi.
Gli attentatori sono come attori. Sanno quando entrare in scena e quando ritirarsi, lasciandosi dietro, non il fragore degli applausi, bensì lacrime e terrore.
Tutti, ormai, avranno guardato i numerosi video che circolavano già pochi minuti dopo i primi spari (qualcuno li aveva presi per fuochi d'artificio). Ce n'è uno particolarmente agghiacciante, girato immagino da un balcone. Negli stessi istanti la Polizia viennese pregava i cittadini di non condividerli assolutamente, ma nel frattempo i miei occhi avevano già visto il sangue sul ginocchio di un ferito e ascoltato le urla di chi stava scappando in cerca di un riparo.
Mentre scrivo queste righe, la caccia ai terroristi sta continuando. I quotidiani austriaci e la Orf, l'equivalente della nostra Rai, parlano di 17 feriti gravi e 5 morti, compreso uno degli attentatori. Non è ancora chiaro se l'obiettivo del primo attacco fosse davvero la Sinagoga di Seitenstettengasse. Di uno degli attentatori si sa che fosse un simpatizzante dell'Is, una notizia che ha spinto la Comunità musulmana dell'Austria ad esprimere immediatamente la propria vicinanza alle persone rimaste coinvolte nei tragici avvenimenti di queste ore.
Man mano si saprà tutto quello che c'è da sapere e, spero, man mano tornerà il silenzio.
Quel che non tornerà più, purtroppo, è l'immagine che finora più o meno tutti avevamo di questa città.
Una capitale che non ha nemmeno i tornelli alla metropolitana, una città dove ci si sposta che è una bellezza da un punto all'altro, un centro di due milioni di abitanti che spesso sembrava poco più di un paesone, soprattutto durante il Wiener Wiesn, l'equivalente austriaco dell'Oktober Fest, e durante i turistici mercatini di Natale.
La magica, fiabesca atmosfera ottocentesca che si respira in ogni statua del meraviglioso parco di Schönbrunn, in ogni siepe ingiallita dall'autunno, in ogni rosa del romantico Volksgarten, altro luogo che ho imparato ad amare, non c'è più. Non ci sarà mai più.
Certo, tutto passa, anche il Covid 19 finalmente un domani ci lascerà tranquilli di reinfettarci come ci pare, ma ieri è cominciata una nuova fase anche qui, nella ex capitale imperiale, l'ultimo avamposto pacifico, rassicurante e un po' provinciale della nostra Vecchia Europa.
sabato 24 ottobre 2020
Vivere all'estero - genesi ed epilogo di un esercizio di tedesco
martedì 13 ottobre 2020
Auf Wiedersehen, Italia
Lo ammetto. Me lo sentivo che stavolta non ce l'avrei fatta, ma evidentemente la vita ha in serbo per me nuove sorprese. Belle, coinvolgenti e concrete sorprese. Voglio crederlo ciecamente.Sto parlando della preselezione del Concorso Rai, la seconda sostenuta negli ultimi cinque anni. La prima mi era andata meglio: ero riuscita a superarla, piazzandomi alla fine di quella lunga cavalcata 210ma sugli iniziali circa tremila partecipanti.
Stavolta concorrevo per le Marche, quindici erano i posti in palio su circa 270 vincitori da distribuire anche in altre regioni.
Come i partiti di quattro gatti che non riescono a superare la soglia di sbarramento alle elezioni, ecco, stavolta pure io sono stata segata. E il bello che ho anche capito perché, anche se fino a mezz'ora fa ho sperato nella classica botta di deretano imprevista.
Non ho risposto a dieci domande volutamente, perché la risposta sbagliata sarebbe stata valutata negativamente, mentre quella non data avrebbe avuto solo zero. Avevo fatto così anche l'altra volta, solo che l'altra volta, probabilmente, ne avevo tralasciate di meno.
Che cosa mi ha fregato? La Storia dell'arte, la mia amatissima quanto sconosciuta Storia dell'Arte (due erano di una facilità sconcertante, ma in quel momento avevo il vuoto totale). E poi le altre, paradossali, sul contratto giornalistico 2013-2016.
Quando le ho lette, quasi non ci potevo credere. Mi era balenato il dubbio che me lo dovessi rileggere, ma ripassando per l'ennesima volta tutto il ripassabile, ho ritenuto - errando - che un contratto scaduto già da quattro anni non potesse essere una valida materia d'esame. E invece lo era e io sono una fessa.
Una cosa simile mi era successa all'esame di Diritto Privato all'università. Era il mio terzultimo esame, avevo aspettato a lungo prima di darlo, ma non volevo lasciarlo proprio alla fine per evitare di arenarmi a un passo dalla laurea.
Da brava studentessa avevo frequentato tutto l'inverno il seminario della prof, una specie di Cerbero in gonnella piena di capelli grigi. Facevo anche domande, esattamente come mi succede adesso al corso di tedesco. Ero così "fleißig", come si dice qui dei secchioni.
A ridosso della prova, mi capitano sott'occhio gli appunti su un argomento molto specifico (ricordarselo adesso, quasi trent'anni dopo, sarebbe inquietante) e io mi dico che no, non valeva la pena riguardarselo, figuriamoci se me lo chiedono.
E invece il grigiocerbero lo tira fuori. Ricordo bene le mie gambe irrigidite sotto la scrivania, e, non so perché, totalmente divaricate, in una posizione oserei dire ginecologica. Comincio a rispondere arrampicandomi sugli specchi, aiutandomi con la mia una volta proverbiale memoria fotografica.
Casco argenteo non abbocca, capisce che ce sto a provà e infatti mi fa osservare l'incompletezza delle mie argomentazioni.
E lì viene fuori lo spirito un filino polemico e paraculo che ogni tanto si affaccia sul mio faccino raggrinzito. "In effetti - oso dirle - l'argomento non era molto chiaro neanche durante il seminario".
L'occhialuta creatura dantesca si agita vagamente sulla sedia e ribatte: "Signorina, sia seria, non usi questi mezzucci da leguleio. L'ho vista a lezione, per cui le offro 23. Che fa, accetta?".
Ma certo che accetto. Vielen Dank, professoressa Rottemeier e a mai più rivederci.
Ecco. Se mi avessero dato la possibilità di parlare, avrei fatto notare il paradosso di chiederci qualcosa sul contratto che, diciamolo, è diventato come l'Eldorado per i cercatori di pepite.
Però, obiettivamente, come l'argomento che non avevo ripassato all'epoca, ci stava qualche domanda sul mezzo con cui, bontà loro, i novanta colleghi cominceranno un domani il loro percorso professionale da Mamma Rai. Sperando, tra l'altro, che nel frattempo lo rinnovino. Finalmente.
Un po' più paradossali le domande sulle Marche, più adatte - a ridaje il leguleio e i suoi tristi mezzucci - agli studenti di Beni Culturali che a noi (leggi: a me) eruditi a metà.
Insomma, non è andata.
Mi consola, parzialmente, vedere tra gli ammessi molti giovani, gente, intendo, nata tra il 1991 e i secondi anni Ottanta.
A loro auguro lunghe e felici carriere, sperando che un domani si ricordino di noi vecchietti che abbiamo pagato l'iscrizione all'Ordine, i contributi all'Inpgi2 (e io per brevi, fortunati periodi anche all'Inpgi) per anni, confidando che un giorno il vento sarebbe girato.
E' già da tempo che non credo più che il giornalismo fosse davvero la mia strada. L'ho amato molto, moltissimo, tutte le volte che ho potuto scrivere anche una sola riga e persino in quest'ultimo mese, in cui mi è toccato rispolverare manuali e leggi professionali, come quasi vent'anni fa.
So bene però qual è il motivo che mi ha portato a Vienna e credo di aver fatto la scelta giusta, nonostante la delusione lavorativa iniziale.
E adesso che succederà?
Keine Ahnung.
O meglio. Intanto finisco il corso di tedesco (apropos, come dicono qui: giovedì ho la simulazione dell'esame finale. Mortaccen, devo studiare).
Dopodiché (direi nel frattempo) continuerò a cercare un lavoro, come fanno tutti, come fa chi sa che, comunque andrà, andrà bene.
Punto e a capo.
Auf Wiedersehen, Italia.