sabato 17 marzo 2012

Fisica o chimica/3 e la (ridicola) censura di un Paese che non sa più sognare


Sono esterrefatta: per puro caso, ho guardato durante la cena "In onda", un programma ad alta boriosità giornalistica, ancora più evidente da quando non c'è più la bionda tornata da poco in tv in un altro talk show dal quale, naturalmente, mi tengo a debita distanza (mio marito, facendo zapping, ha fatto in tempo a beccarsi un cornacchione svolazzante durante una discussione sulla giustizia; l'infontainment ha scassato le balle già da mò, ma in Italia siamo indietro su tutto, quindi avanti cornacchione. Fino a al prossimo flop).
Così facendo, ho scoperto che Fisica o chimica, il mio telefilm per adolescenti preferito, la mia distrazione quotidiana che in questi ultimi mesi mi ha aiutato a dimenticare per circa un'ora in che merda di paese viviamo, è stato spostato in seconda serata. Non riuscivo a crederci, ed è così che ho ingurgitato un bicchiere in più di frizzantino, nemmeno se fossi stata risucchiata in una vera tragedia.
Il bello è che non sono per niente d'accordo neanche con Carlo Freccero, il vero responsabile dello spostamento del telefilm, ben più dell'articolo dell'educando Francesco Borgonovo di Libero, sguinzagliato forse appositamente dal suo giornale per mettere in croce l'effettivamente debole servizio pubblico nazionale. Borgonovo, com'è giusto che sia, può pensarla come gli pare, anche se, obiettivamente, titolare "pornorai" prendendo spunto da Fisica o chimica è veramente ridicolo. In un paese normale, d'altra parte, sarebbe finito per l'appunto a risate: andiamo, su, non si vede un capezzolo manco per sbaglio né altre appendici ancora più evidenti. Sarà che ho quasi 41 anni (e che dovrei vergognarmi proprio per questo motivo di avere sviluppato una così insana passione per il suddetto telefilm), ma il porno è altro, la volgarità è altra e si vede abitualmente su tutti i canali, rai, mediaset o la7 e loro repliche digitali annesse. Basti pensare ai telefilm violenti, necrofili, o alle ancora più raccapriccianti trasmissioni-verità (non parliamo delle fiction made in Italy, quasi tutte recitate in modo penoso, come ho già avuto modo di sottolineare, una vera offesa al gusto, assai più di un bmovie degli anni Ottanta).
Ma insomma: c'era bisogno di minacciare di mandare i forconi sotto la redazione dei finti (furbeschi) bigotti? C'era davvero così tanta necessità di gridare alla censura per un articolo di un cronista noto solo ai lettori del suo giornale? Perché cadere in un tranello così idiota? Forse c'è dell'altro che noi comuni cittadini (e telespettatori) non vediamo? Forse, Freccero, ti stavano per fare le scarpe comunque, dal momento che le creature che tu hai sponsorizzato e fatto crescere (Santoro, Dandini, Guzzanti etc etc) sono tutte emigrate verso altri canali? E' questa la ragione del tuo sbroccamento veramente fuori dalle righe oppure stavi cercando un pretesto per andartene via prima che la barca "Rai di qualità" affondi del tutto?
Che poi, se ho capito bene, Fisica o Chimica non era affatto in fascia protetta, che comincia alle 16, né lo era al mattino, prima collocazione, già contestata in passato per analoghi motivi di turbamento della morale dei nostri figli (io non ne ho, ma potrei averne e poi si sa i giornalisti parlano spesso di quello che non conoscono: come facevano Porro-Telese and co che non hanno visto neanche una puntata di Fisica o Chimica. Borgonovo, invece, si ricordava solo di Quino, messo in croce per il suo voto di castità pre-matrimoniale, dimenticando che, qualche puntata dopo, il voto lo rompe eccome con Alma, che poi abbandona per inseguire il suo sogno di diventare una pop-star. Alla faccia della coerenza, eh, Borgonovo?).
Tant'è. Ce l'hanno fatta. Adesso mi toccherà scaricarmelo da internet e guardarmelo quando capita; ma già so che non sarà la stessa cosa. Sono all'antica, io, a me non piace starmene rigida su una sedia a compulsare lo schermo del pc anche per rilassarmi un'oretta.
Vorrei però concludere con una notazione proprio su quel che ho visto in questi mesi.
Ho visto dei ragazzi e delle ragazze con vestiti e trucchi colorati (tutti sponsorizzati in maniera più che sfacciata: semmai su questo ci sarebbe stato da dire qualcosa...), dotati di una certa predisposizione alla recitazione (Gorka è BRAVISSIMO, per esempio), calarsi nei panni di analoghi adolescenti forse un po' svogliati ma con una grande energia vitale. Quest'ultima, certo, era riposta principalmente nel sesso, nell'amore o nel banale ormone reso pazzo dall'età adulta incombente. Il tutto, però, quasi sempre in un'atmosfera leggera ma non superficiale che sì, poteva, può, educare a riflettere sulla diversità.
Personalmente, per dire, sono rimasta un po' disorientata dalla tesi del rapporto a tre proposto da Veronica, la nuova prof di letteratura che vedete in alto nella foto. La tipa, peraltro, è diventata madre a sedici anni di Teresa, una ragazzina che conosce solo nel momento in cui si trasferisce al Colegio Zurbaran, abbandonata ancora in fasce per la sua paura di prendersi una responsabilità che ai tempi considerava troppo grande.
Nell'anticipazione che mandano in onda dopo la sigla di coda, si vede che Veronica ha intenzione di parlare alla figlia della sua visione dell'amore e della coppia.
Io, per esempio, non sono d'accordo con quest'ultima (un pizzico mi sono pure scandalizzata), ma non per questo avrei mai scritto alla Rai per chiedere di spostare il programma. Direi anzi che mi incuriosisce assai vedere come andrà a finire, perché, peraltro, cose del genere succedevano davvero in Europa tra fine anni Sessanta e Settanta (The Dreamers di Bertolucci non parla di cose del genere? E lì le scene sono MOLTO più esplicite che nel contestato telefilm).
Insomma, non tutto quello che mostrano nel telefilm rispecchia il mio modo di vivere né di vedere il mondo, ma che meraviglioso arricchimento (e che divertimento per la bizzarria di alcune situazioni descritte) confrontarsi con altre realtà e che relax (e commozione, in certi istanti) in quell'oretta a spasso nei corridoi dello Zurbaran e nel cortile della scuola.
Adesso, niente, mi toccherà modificare le mie abitudini, spezzettando, forse, la visione del telefilm nell'arco di più giornate. Che tristezza. Che tristezza la polemica e la decisione di quella rigida donna a capo di viale Mazzini, più cattiva della Fornero.
Sembra proprio che questo paese mi stia spingendo alla fuga, ogni giorno di più.
Anzi, magari faccio così: finalmente me lo guardo direttamente in Espanol, così comincio ad allenarmi a esprimermi nella lingua di un paese che non ha smesso di sognare (ritorno della tauromachia a parte: anche in Spagna l'oscurantismo non è stato del tutto battuto, del resto non è mica l'Eldorado).
Solo chi sogna, chi si illude almeno un po', infatti, è ancora in grado di concepire strategie salva-Pil più forti di tutte le paccate di riforme per ora, da noi, per lo più solo annunciate.
Hasta suerte, amigos.

martedì 13 marzo 2012

Strategie di primavera contro la muffa che avanza

C'è del marcio a casa mia, come testimonia la decadente natura morta in alto, composta da mio marito per sottolinearne la proliferazione incontrollabile (e incontrollata).
Ho salvato questa foto già da un po', aspettando il momento giusto per utilizzarla.
In verità, in questo post dovrei parlare del marcio che sta al di fuori delle pareti domestiche, ma l'una e l'altra cosa, in fondo, non poi così così scollegate.
Per dire, in questo momento, sul tetto fuori dalla finestra della mia camera da letto, c'è di nuovo Giuliano Il Muratore, impegnato nella sistemazione dei coppi danneggiati dalle abbondanti nevicate del mese scorso.
A occhio, poi, tra un sampietrino e l'altro della mia via, si celano gore ammuffite e maleodoranti, habitat graditissimo di vermiciattoli e insettini vari.
Insomma, la decadenza materiale è pronta a fagocitare la vita e per combatterla ci vuole impegno (e manutenzione) costante.
Qualcosa mi dice che sia assai più difficile tenerla a bada in ambiti meno concreti di un palazzo o di un frigorifero.
La società italiana dà un po' l'idea di essere sotto assedio di oscure forze necrofore. Sto esagerando? Vorrei dire di no, ma temo che la realtà sia ancora peggiore di come la dipingo io.
Il marcio è arrivato dappertutto e non ci vuole Savonarola per denunciarlo.
Una delle prove più evidenti è la totale resa della classe dirigente alle leggi inafferrabili del sovra-governo della finanza mondiale. Sto delirando? "Pole esse" (il confine tra sanità e pazzia è molto mobile), ma se così non fosse, non si spiegherebbe il plauso generalizzato a un governo "tecnico" fatto di iper-ricchi che niente possono sapere di come va la vita di milioni di persone, sempre più numerose, che comprano scarpe a cinque euro dai cinesi anche in distretti un tempo famosi per le calzature, frequentano con assiduità sempre maggiore i discount in barba al made in Italy e al tutto-bio, e accettano lavori, mansioni mal pagate o pressoché hobbystiche pur di far qualcosa. Come uscirne? Ovvio: cominciando a re-investire sulle persone e sulle cose, tenendo fuori dalla porta la muffa. Ma, onestamente, chi è che lo fa? Chi ha davvero il coraggio di osare e di credere che un altro mondo, pulito e deumidificato, sia veramente possibile?
Secondo me nessuno, tranne, naturalmente, qualche lodevole eccezione. Come posso esserne così certa?
Basta sfogliare qualsiasi giornale o sito internet di annunci economici per vedere inserzioni ridicole, direi anche offensive per chi abbia un minimo di esperienza oltre che di cervello.
Ho scritto qualcosa del genere anche nella precedente vita di questo spazio, ma ritengo giusto insistervi ancora. Ad esempio:
"Edizioni Vivere è una società marchigiana che edita quotidiani online nel centro Italia. Per il 2012 vuole ampliare la propria rete commerciale ed editoriale. 
La società sta dunque cercando Giornalisti, Direttori Commerciali e chiunque abbia voglia di mettersi in gioco nell'informazione online per la gestione autonoma del quotidiano della propria città.
Mettersi in gioco per fare che cosa? Per gestire in autonomia (tradotto? Forse gratis?) l'informazione online della propria città: e che sarebbe, in concreto? Anzi, come dicono da queste parti: che sarrìa?
Sono andata a guardarmi la versione dell'informazione online già attiva nella mia cittadina di residenza. Ebbene: c'erano linkati alcuni comunicati stampa di comune e associazioni varie. Volendo, potrei farlo anch'io: anzi, qualche volta lo faccio davvero, quando voglio mettere in evidenza un contenuto particolarmente significativo.
Da quel che ho capito, sono contenitori per la raccolta di pubblicità, un modo come un altro per vivere (per l'appunto), ma che con il giornalismo, sia chiaro, non ha niente a che vedere.
Un mesetto fa il mio buon padre (che mi legge e perciò non me ne voglia: ambasciator non porta pena) mi ha segnalato la ricerca da parte di un centro per l'impiego di un comune abruzzese di un "giornalista pubblicista esperto di età superiore ai trent'anni in possesso di patente B". Certo, saper guidare la macchina è un requisito in più per chi debba andare a caccia di notizie, ma dal fatto che non mi abbiano risposto ho dedotto che non di questo avevano bisogno (non sono Niki Lauda né mai lo sarò, però avevo potenzialmente tutti i requisiti, più altri che non sto qui a elencare). Molto più verosimilmente cercavano un agente, uno di quelli che vanno di negozio in negozio e di azienda in azienda a comprare pubblicità. Una prassi consolidata in tutte le piccole realtà editoriali, niente da dire; il problema sorge se però le mansioni giornalistiche finiscono per coincidere in tutto e per tutto con quelle commerciali.
In generale, quando la muffa fagocita tutto, si smarriscono le competenze a vantaggio delle professioni-per passione e dell'improvvisazione. Succede in maniera particolare nei mestieri intellettuali e creativi, ossia laddove non si possano stabilire con certezza i denari da corrispondere per prodotti risultanti dalla propria penna/tastiera, pennello/photoshop etc etc. Di recente mi è toccato sentirmi dire da uno pseudo-regista teatrale, un uomo brutto fuori e dentro, se potevo prestarmi per fargli da intervistatrice per un video promozionale di un suo spettacolo, a suo dire, richiestissimo (e come no). Per amicizia nei confronti di una terza persona, gli avevo pure detto di sì, ma soltanto dopo aver chiarito, primo, che le domande le avrei scritte io e, secondo, che volevo essere pagata, poco, magari (mi accontentavo di cinquanta euro, manco una marchetta, in senso biecamente proprio), ma gratis nemmeno a pensarlo.
Com'è andata a finire? Non se n'è fatto nulla.
Idem qualche mese fa per un'altra prestigiosa collaborazione con una testata locale: e dire che in entrambi i casi i proponenti avevano provato pure a lusingarmi, l'una dicendomi che mi corteggiava già da tempo per via della mia fine penna (ma quando mai?) e l'altro per la mia... bellezza!!
La sto facendo troppo lunga, quindi basta.
Voglio concludere, come sempre, con una nota di speranza, attaccandomi, stavolta, alla meteorologia.
Tra due settimane scarse la luce tornerà a illuminare e scaldare colline, tetti e vie: la frutta abbandonata sul mio frigorifero (e dentro), probabilmente, marcirà ancora più in fretta, ma la muffa dovrebbe comunque regredire almeno all'esterno della mia casa, mentre i fiori diffonderanno i loro profumi illudendoci che, sì, un altro mondo più lindo, più gioioso, sia ancora possibile. E a quel punto, ma sì, l'inverno e la scontentezza potranno attendere ancora.

giovedì 8 marzo 2012

Franca Valeri e la vera bellezza

L'arancione è un colore che mi piace molto. Di recente, ho scoperto di avere questa preferenza in comune con Loretta Emiri, un'altra grandissima piccola donna che ho avuto la fortuna di conoscere di recente.
Gli ultimi mesi, come vado dicendo già da un po', sono stati proprio densi, soprattutto di persone e di idee, non so decidermi, sinceramente, se siano state le prime a stimolare le seconde o viceversa.
Quella penna è un dono fattomi da uno di questi incontri così importanti per la mia vita presente.
Non potevo portarmene un'altra per lo scopo che mi ero prefissa: proprio sotto quel bel primo piano divertito, c'è l'autografo, tremolante, della regina Franca Valeri. 
Martedì non sono riuscita neanche ad andare in palestra, tanta era l'ansia di arrivare rilassata (il più possibile) e abbastanza in ordine nel piccolo teatro di Porto Sant'Elpidio (sembravo Zorro, con quel cappello stile Borsalino e il cappottino grigio antracite).
Lo dico subito: "Non tutto è risolto", l'ultima piéce della signora Norsa, non è una commedia per amanti di grasse (e crasse) risate. Direi anzi che a tratti emana una cupezza disperata, di chi sa di guardare la morte molto da vicino. Non che non sia così per tutti, ma l'anagrafe (e purtroppo anche la malattia) non può essere ignorata. Eppure. Eppure, proprio le parole che ogni tanto si perdono e quel lento sostare sul palcoscenico danno al personaggio di Matilde, impersonato dalla Valeri, una potenza dirompente. Ogni tanto, tra l'altro, la voce si fa forte e chiara, come a urlare il desiderio di restare ancora un po', ancora qui, su questa terra e tra persone all'apparenza non troppo amate, snobbate, comandate. 
Nella chiacchierata, la gigantessa del teatro ha precisato di non essere come la protagonista della sua opera. E' ovvio che sia così, ma la sua insistenza mi è sembrata un po' sospetta e non tanto perché abbia impersonato una vecchia bisbetica e difficile, quanto per la fragilità intrinseca della sua contessa, manifestata apertamente con l'arrivo in scena di una carrozzina bianca avorio, scintillante e fredda protesi di un corpo non più efficiente. 
Qualunque sia la verità (ma è davvero importante conoscerla?), mi ci è voluto più di un giorno per riprendermi da un'esperienza di quell'intensità.
Nell'intervista, per forza di cose sintetica e incompleta, ho concluso ringraziandola, come faccio spesso con le persone che mi regalano i loro ritratti. In questo caso, però il mio grazie era particolarmente sentito proprio per la preziosità dell'evento, atteso lungamente e giunto, forse, nel periodo giusto.
Sarò banale, come la Franca mai potrebbe essere, ma la vita è un gran privilegio. Non conviene sprecarla.

lunedì 5 marzo 2012

Le passioni che premiano


Quella che sto per raccontare è una piccola storia di determinazione premiata.
Con la testa (e il cuore) sono già a domani sera, al buio che scende prima che si alzi il sipario e alla luce che lentamente mi mostrerà sul palcoscenico una piccola, fortissima donna che ho inseguito per oltre un anno intero.
Non ho idea se "Non tutto è risolto" mi piacerà davvero, ma quando stamattina ho sentito la tremolante voce di Franca Valeri raggiungermi direttamente a casa mia, mi è sembrato che non fosse passato neanche un giorno da quelli, intensi, appassionati in cui cercavo di conoscerla al meglio delle mie possibilità.
All'origine di tutto, c'è stata la sua autobiografia: ho letto "Bugiarda no, reticente" due volte, la prima, fulminante, in cui mi sono convinta in maniera chiara che sì, DOVEVO a tutti i costi mettermi in contatto con lei. La seconda, per impararne quasi a memoria i passaggi salienti della sua vita, o almeno quelli che lei aveva voluto mettere in risalto.
Naturalmente, già prima di approfondire vita e opere di questo importante personaggio della cultura italiana (e non solo) sapevo che nel parlare con lei mi sarei sentita piccola piccola e che, una volta chiusa la telefonata, sarei rimasta con la stessa (o quasi) autentica fame di conoscenza vagheggiata prima del contatto.
Però sono straordinariamente felice lo stesso, perché la mezz'ora che mi ha regalato, tra i latrati lontani di Roro IV e le valigie da finire per la partenza verso la tappa della tournée in cui potrò finalmente rivederla dopo tanti anni, mi ha restituito un pezzetto della quotidianità di una persona speciale, nella sua acutezza fragile e sincera.
I passaggi più importanti? L'immagine di lei circondata dai suoi animali, Roro e i due gatti di casa, assai simili ai cani, a suo giudizio, proprio perché domestici e l'affermazione che, se potesse, adotterebbe tranquillamente anche una scimmia e una tigre.
Lo sapevo già, mi verrebbe da dire, ma sentirlo direttamente dalla sua voce è tutt'altra storia.
La scrittura di questa nota è stata interrotta da una telefonata che dire inutile è poco.
A proposito dei tempi cambiati e delle arti improvvisate, purtroppo non credo proprio che una giovane Franca Valeri oggi avrebbe le stesse possibilità della generazione dei miei nonni. Per quanto fossero tempi difficili, segnati dal fascismo, dalla guerra e dalla povertà, oggi è decisamente peggio. Péggio, come ha detto la signora Norsa con lieve accento milanese, non del tutto scalfito dai lunghi anni trascorsi nella capitale.
E comunque oggi sono felice. E non c'è nessun ritorno alla realtà (triste e squallida, alla Moretti e il suo Siro Siri) che potrà farmi cambiare umore.

giovedì 1 marzo 2012

Grazie, Lucio


Dovevamo già viaggiare in A112 bianca o forse a bordo della versione della stessa auto immediatamente precedente, turchese come molti dei vestiti che mi comprava la mamma per far risaltare i miei occhi, i "laghi alpini" nella finta lettera d'amore che qualche anno dopo mi ha scritto mia sorella per prendermi in giro.
Mio padre ha sempre avuto un mangianastri portatile, persino adesso ne ha uno, benché le musicassette non ci siano più da tempo. Fondamentalmente, a lui è sempre piaciuta la radio ed è stata proprio la sua abitudine ad ascoltarla, a casa e nei viaggi, a trasmettermi l'amore per le parole, da sentire e da scrivere.
Quando invece i miei genitori decidevano di mettere musica loro, la scelta era davvero limitata, ma comunque di qualità.
Non potrò, credo, mai dimenticare Banana Republic, l'album dal vivo cantato (e suonato) magistralmente da Lucio Dalla e Francesco De Gregori. Mi piacevano moltissimo, in particolare, "Un gelato al limon" e "Ma dove vanno i marinai". Della prima, solo molti anni dopo ho scoperto chi ne fosse l'autore. Ancora più tardi, tra l'altro, ho saputo anche che Lucio, quell'omino con gli occhialini, simili a molte paia che ho posseduto pure io, con quell'aria da folletto simile alla mia, era un raffinato jazzista.
Sul lettore Mp3, scrostato e privo di coperchio della batteria, c'è stato fino a pochi giorni fa il live che l'ha visto affianco a Pupi Avati e al mio amato Paolo Conte. Ho imparato a memoria i suoi tipici vocalizzi, già conosciuti nelle altre canzoni che nei viaggi con i miei genitori ascoltavo divertita.
Non più tardi di un anno fa mi sono goduta, lasciandomi cullare da una dolce nostalgia, la riedizione di Banana Republic a distanza di trent'anni, i due artisti invecchiati, De Gregori, per me, più di Dalla. I piccoli di statura, probabilmente, conservano più a lungo degli altri sembianze infantili, come i nanetti di Biancaneve, un po' rugosi ma tanto bonari. Come molti miei simili, però, anche Lucio Dalla è stato piccolo solo per i centimetri e come tutti è andato incontro al suo destino.
Adesso non piango, anche se confesso che, accendendo la radio e sentendo un pezzo della sua "Piazza grande", qualche lacrima mi è uscita. Riflettendoci dopo, mi sono resa conto che, almeno, lui ha avuto una bellissima vita ed è morto prima di invecchiare davvero, uscendo di scena all'indomani di un concerto che di sicuro avrà deliziato molte persone.
Credo che morire così, dopo aver lasciato tracce di sé immortali, sia il sogno di tutti, o per lo meno di tutti i grandi artisti. Un privilegio del genere, purtroppo, non capita sempre, quindi, oltre il sincero cordoglio per la fine di una vita e la malinconia per l'addio a un altro pezzo della mia infanzia, voglio dire anche grazie a Lucio. Ti dico grazie, Lucio, per avermi accompagnata negli anni della crescita e per avermi strappato più di un sorriso per i tuoi pelacci neri da piccola scimmia e i tuoi berretti di lana così stravaganti.
Se sono diventata quella che sono, con tutti i difetti e i pregi eventuali, un po' c'entri anche tu e il tuo Gesù bambino di periferia.

mercoledì 29 febbraio 2012

Diventare grandi

Il cielo è sempre più blu, cantava Rino Gaetano, e puntuale come solo i bioritmi sanno essere, oggi è una giornata da schifo. Sono stata peggio e in generale "ci sta sempre chi sta peggio", anzi "ce stha sembre chi stha pegghiu", seguito da fastidioso sgranocchiamento di patatine da sacchetto da parte di un amico del tutto inconsapevole del suo notevole livello di disadattamento.
Decisamente è vero. Penso per esempio che stia molto peggio di me quel povero deficiente (fino a prossima consacrazione nazionale su qualche reality) di no-tav-boy (chiamarlo no global mi fa strano e troppo fascio) che ha dato della pecorella al poliziotto.
Quest'ultimo, invece, ha mostrato grande professionalità, ma spero che, a sua volta, resista dalla tentazione di comparire davanti alle telecamere.
Il fatto è che siamo talmente poco abituati, in questo Paese, alla serietà da scambiare per eroi persone che semplicemente stanno facendo il loro lavoro. Nel caso specifico, non rispondere a idiote provocazioni.
Non sempre, però, si ha la forza morale, psicologica, di sottrarsene e non capita solo da giovani.
Se c'è un tipo di persona che mi fa impazzire (parafrasando Mina) è quella che sottostima le tue capacità/esperienze professionali. Faccio un esempio molto concreto.
"Ti presento tizia... una giornalista freelance, come si dice". Come si dice cosa? Disoccupata, cane sciolta?
Ma questo passi, tutto sommato un po' sfigata lo sono davvero, e pazienza se presentazioni così grevi possono servire per procurarsi contatti per lavorare.
Molto peggio è invece chi non si fida per partito preso solo perché ti vede ancora giovane o ritiene di avere analogo titolo ed esperienza. Quando lavoravo in un piccolo giornale locale, per dire, era la norma avere a che fare con collaboratori abbastanza analfabeti, con esperienze risibili o nulle, ma convinti di essere Montanelli. In quel caso, però, il diverso ruolo e soprattutto la pratica quotidiana li rimetteva velocemente a posto.
Da quando sono, per l'appunto, una freelance, sono ripiombata nell'anonimato che ti costringe a spiegare, puntualizzare, a imporre insomma il tuo saper fare tentando il più possibile di non far caso ai rifiuti, alle mezze risposte, ai consigli non richiesti o poco calzanti o alle frasi sbagliate.
E però a volte non se ne può proprio più. Di recente mi sono sentita piccata per via di una tizia, una cosiddetta collega, che mi ha chiesto notizie di un mio parente acquisito perché desiderava chiedergli un aiuto in qualità di "giornalista esperto". Che sia esperto non ci piove, il problema che mi sono posta era però un altro: perché mai io non avrei dovuto esserlo quanto lui? Solo perché sono più giovane? Solo perché sono meno conosciuta di lui? E poi, per quale ragione avrebbe dovuto saperne più di me di problemi legali? Mica scrive per Top Legal, ammesso che esista ancora? Alla tizia ho perciò puntualizzato qualcosa con educazione forse un pelo stizzita, ma in auto sono letteralmente esplosa con mio marito. Insomma: lei che ne sa delle esperienze che ho avuto io? Perché ha dovuto supporre, in partenza, che non sarei stata in grado di aiutarla? Perché, in definitiva, rivolgersi sempre a qualcuno di "più grande", come se una tua coetanea non potesse darti una mano? Alla fine, comunque, che si cuocia nel suo brodo.
Il problema, però, è più generale e appartiene a tutta la mia generazione: i trenta-quarantenni, mediamente, si comportano come se ne avessero dieci di meno. Una delle cause è sicuramente sociale e legata alla solita gerontocrazia nazionale che non schioda. Ma di questo ho già ampiamente parlato.
Un'altra, più sottile, è invece proprio dentro di noi e delle nostre abitudini da adolescenza iper-iper prolungata.
Un conto è, infatti, restare giovani nella testa, mostrando di saper giocare innanzitutto con noi stessi; un altro è non avere abbastanza fiducia (e palle) per imporre al mondo quel che si fa fare, e anche molto bene, difendendolo da tutti quelli che ci vorrebbero sempre in una condizione di minorità.
Lo diceva Kant e lo ripeto anch'io: lo stato di minorità è imputabile innanzitutto a noi stessi e non esiste "deus ex machina", quello che ho simpaticamente evocato qualche post fa, capace di farci volare in alto se non siamo prima di tutto noi a desiderare di spiccare il volo.
Quindi, niente inutili lamentele né recriminazioni, stop alle relazioni dannosamente deprimenti e assolutamente sì a quelle che ci fanno crescere e diventare (finalmente) adulti.
Non è facile (anzi, è durissima), ma in un mondo che non ti dà niente se non te lo prendi con i canini (e i molari), non abbiamo proprio niente da perdere.
E quell'aquilone volerà. Dovessimo metterci un motore a ciascun piede come Paperinik pur di vederlo sparire all'orizzonte.

giovedì 23 febbraio 2012

Le amiche del cuore


Non sono mai stata capace di avere l'amica del cuore.
Ho diverse buone amiche, questo sì, ma non ho mai avuto la confidente preferita né un surrogato al femminile di un fidanzato.
Al liceo, Rosa, la mia compagna di banco, cui ho voluto un bene fortissimo, una volta mi rimproverò aspramente perché non ero capace di piangere guardando i film. Non era vero (o forse sarà che invecchiando ho preso a piagnucolare anche davanti ai telefilm), ma il suo giudizio mi ferì, direi anzi che mi ferisce ancora adesso, dal momento che non l'ho mai dimenticato. In particolare, rimasi molto male nell'apprendere, sempre in occasione di questo rimprovero, che da quel momento in poi la sua amica migliore sarebbe diventata un'altra compagna di classe, Federica. A distanza di tempo, da quel che so, Rosa e Federica si sono perse di vista, mentre io, quella incapace di sentimenti intensi, ho conservato affettuosi rapporti con altre tre compagne, perdendone di vista una solo negli ultimi anni, non so bene perché. A questo proposito, chissà come sta Paola, così distante da me nello stile di vita e negli obiettivi raggiunti. Sono molto orgogliosa di lei e della sua bella famiglia, ma non posso escludere che proprio il fatto di non aver vissuto esperienze analoghe alla fine abbia pesato nell'aumentare la distanza tra noi. Io le voglio bene come sempre: rammento ancora i pomeriggi passati a studiare insieme e a ridere dei nostri prof. Ho molta simpatia per suo fratello e i suoi genitori e li sento vicini quasi quanto i miei.
Lo stesso posso dire di Valentina, madre super e moglie coraggiosa, passata attraverso un'esperienza così dolorosa che non credo di essere in grado di capire fino in fondo. Quando ho saputo quel che le stava capitando, avrei voluto esserle più vicina, ma siamo lontane non solo geograficamente, temo.
In quel caso, ho dubitato di me e ho ripensato alle parole di Rosa: chissà che un pochino non avesse ragione lei, ma non sul fatto che non pianga ai film. Ho costruito spesso delle corazze per non farmi sorprendere troppo scoperta. In molti casi, lo faccio senza neanche accorgermene.
Prima della "grossa crisi" dell'anno della laurea, mi ero accreditata come giovane donna forte ed efficiente.
Adesso che l'ho ampiamente metabolizzata (superarla del tutto non credo che sarà mai possibile), sono tornata a mostrare al mondo la mia faccia sorridente e rassicurante, tanto più efficace quanto meno mi conosce l'interlocutore. Mi piace, lo riconosco, dispensare calma in chi incontra i miei occhi e ascolta la mia vocetta adolescente. Sono allo stesso modo consapevole che si tratti di una finzione, di una recita a uso e consumo del mio bisogno di mantenere un decente livello di autostima per non soccombere alle ferite che potrebbe causarmi un presente incerto e un futuro ancora più nebuloso.
Che sia così lo capisco ancora di più proprio perché adesso, davanti ai film, come dicevo sopra, spesso piango. Qualche giorno fa, a dire il vero, ho piagnucolato anche sentendo un pezzo del nuovo film dei fratelli Taviani su Hollywood party. Ho attribuito la ragione della mia improvvisa commozione all'aperitivo a base di succo tropical e spumante consumato in solitaria nel cucinino; ma anche in questo caso so, lo so profondamente, l'auto-schernimento mi permette di tenermi a galla.
E in ogni caso, il più possibile, evito, esattamente come facevo a quindici anni, di lasciarmi andare in pubblico.
Come mai lo scrivo qui, allora? Perché anche qui indosso una maschera e perché, non senza presunzione, ormai mi sono convinta che alcuni frammenti del mio privato meritino di essere sparati nell'etere.
E poi, perché, come dicevo all'inizio, io non ho l'amica del cuore, con cui, magari sparlare di uomini o di noi stesse.
Non lo sono neanche Annalisa e Simona, la prima in passato spesso spugna dei miei sfoghi, la seconda una straordinaria fonte di energica intelligenza, ma come me poco incline agli slanci emotivi.
Trovo però talmente miracoloso che abbiamo ancora così tante cose da dirci, nelle non frequenti occasioni in cui ci ritroviamo, da non importarmi più che non ci sia tra noi quel tipo di confidenza così comune tra tante donne. Per me, è un dono rivederle, tanto che sarei persino capace di non parlare affatto pur di stare in loro compagnia.
Qualcosa del genere, anche se con pathos lievemente minore, dovuto al fatto che si tratta di amicizie nate in età più adulta, mi capita anche con Simona S., Claudia e Marta, quest'ultima per me identica, nel carattere e nelle movenze, all'Olimpia di "Fisica o chimica".
Con loro è ancora più facile esporre la mia faccia buonista e mondana, disponibile allo scherzo e all'ironia. Lo è ancora di più adesso che non viviamo insieme; ai tempi della nostra convivenza, invece, inevitabilmente, ogni tanto erano costrette ad assistere alle mie crisi nevrotiche. E quanto mi pesava mostrare la mia fragilità, quanto avrei voluto sparire in quei momenti.
Non posso dimenticare Ketty, l'unica, forse, con cui, per un breve periodo, ho intrecciato un rapporto più tipico tra due donne-sorelle. Di Ketty amo soprattutto il suo calore siciliano, la sua spontaneità nel dispensare complimenti ed epiteti affettuosi. Però anche con lei, alla fine, non sono andata oltre e l'ultima volta che l'ho vista, analogamente a quanto mi capita con le amiche milanesi, ho mostrato la faccia da donna di mondo, un po' svagata-ma-serena.
Resta Roberta, la mia ex amica, cui avevo, effettivamente, cominciato a mostrare il mio cuore. Che bruciante delusione è stata accorgermi del suo opportunismo.
So di avere qualche responsabilità anch'io se mi ritrovo, periodicamente, con le amicizie più recenti, a sentirmene tradita: puntando troppo spesso sull'amabilità, finisco per lasciar credere di essere sempre disponibile, leggiadra e leggera. In questa maniera, attiro gente che ha bisogno di piaceri, di massaggini dell'ego e simili, ma non di persone davvero disponibili a mettersi in gioco.
Ma io mi metto in gioco davvero? E' proprio questo il punto.
Credo di no. Credo di essermi talmente imbozzolata da non lasciarmi conoscere davvero, se non da chi già sa da dove vengo, come la mia cara amica Annalisa, e da pochi, sporadici, nuovi incontri.
Il dolore mi spaventa, il mio più di quello degli altri, che sono in grado di accogliere e di assorbire.
Preferisco insomma mettermi in ascolto piuttosto che mostrare chi sono, o almeno quella parte di me, la più disperata e "munchiana", seppellita sotto strati e strati di petali. Di carciofo, magari, ma comunque petali, perché mi basterebbe in fondo non molto per non fingere più. Mi basterebbe giusto sentirmi veramente accolta, veramente amata, senza doppi fini e urgenze (altrui) di vario tipo.
Forse, legami così complessi sono possibili solo in casi rarissimi e magari non con un'amica, bensì con un compagno di vita. Può essere. Però nel rapporto di coppia non esiste gratuità o, perché esista, bisogna avere un livello di maturità esistenziale difficilmente raggiungibile.
Fatto sta che un po' me ne dispiaccio, perché sento di averne bisogno.
Magari, potrei cominciare io a essere più diretta, a rispondere con il massimo di sincerità possibile alla domanda, generica e di circostanza, "come stai"?
Come sto oggi? Riflessivamente quieta. E pure un po' inquieta.
Come inizio può andare?