lunedì 17 settembre 2012

Il Novecento secondo Natsume Soseki. E il suo gatto

Bice e Io sono un gatto
Mai fidarsi delle scritte civetta sui libri, comunque, per lo meno, è bene diffidarne.
Io sono un gatto di Natsume Soseki è entrato per caso a far parte della mia libreria, grazie a una gentile (quanto inconsapevole) commessa della Feltrinelli di Pescara. Per mesi ho tenuto perfino lo scontrino, nel quale non c'era traccia dell'acquisto da me, effettivamente, non previsto. Avrei voluto riportarlo, in altri termini, fino al giorno in cui, a metà estate, l'ho sfilato dal ripiano dei libri non ancora letti (l'accumulo degli inevasi ahimè continua) e ho finito per cambiare idea.
Ad attrarmi, lo confesso, le famigerate scritte-recensioni sulla copertina e sulla quarta.
"Un romanzo allegro e importante, scritto per il divertimento dei lettori. Di ieri e di oggi", recitava la scritta in copertina, tratta - ma sarà vero? - da La Stampa.
A divertirmi mi sono divertita, almeno a tratti e non posso negare l'importanza dell'opera di questo autore giapponese vissuto a inizio Novecento, da quel che ho capito una sorta di Alessandro Manzoni del Sol Levante.
Le scritte, però, non erano finite: in quarta si dice che protagonista del libro è un "gatto, nero, audace, scettico, creativo, fine osservatore e filosofo". Tutto giusto tranne il fatto che il gatto non è nero, bensì giallino o qualcosa del genere. Il nero che vi si descrive è rozzo e poco incline alla speculazione, ma se non fosse stato per l'imprecisione, tutto sommato, il resto risponde abbastanza al vero. In questo caso la recensione in pillole va attribuita a L'Espresso.
Più sinteticamente (e direi più appropriatamente) Alias del Manifesto giudica Io sono un gatto come "il primo romanzo giapponese moderno". Pur non potendo giurarlo (non so niente di letteratura giapponese, tolto un po' di Murakami e qualcosa di Mishima), il libro parla proprio dei mutamenti nella società di inizio secolo scorso prodotti dalla modernità e dai sempre più frequenti contatti con l'Occidente.
Ed è proprio qui il punto: non è affatto un romanzo allegro. Certo, a tratti si sorride, in qualche caso si sghignazza pure, ma ogni parola è pervasa da un sottile smarrimento, lo stesso - all'incirca - descritto da tanti romanzi coevi di altre latitudini.
Il Novecento, d'altra parte, ha prodotto la più grande rivoluzione nei costumi mai vista prima, di pari passo con innovazioni tecnologiche dall'impatto enorme. Pensiamo solo alle automobili, agli aerei, ma anche al cinema e al telefono. Insomma, con il secolo nel quale sono nata anch'io è cominciata l'era della velocità, dei mutamenti rapidi. Direi proprio che è cominciata l'epoca del non ritorno.
In assoluto, indietro non si torna mai, ma in particolare non è possibile fermare il progresso tecnico, anche quello che ci fa bruciare tonnellate e tonnellate di energia, con conseguenze probabilmente ancora più terribili di quelle preconizzate dagli ambientalisti.
Non siamo più capaci di rallentare e chi lo fa spesso vi è semplicemente costretto. Chi invece decresce consapevolmente, intendo dire, chi applica i principi - a parole - giustissimi dalla cosiddetta decrescita felice, sa di essere destinato a restare minoranza. Gli altri, i miliardi di poveri che abitano la terra, vorranno continuare a crescere. Eccome se lo vorranno.
Mai periodo storico è stato più vorace di quello che ha causato così tanta acuta inquietudine nello scrittore giapponese.
Pur non svelando il finale della storia, insomma, consiglierei di leggere Io sono un gatto fino in fondo per poterlo giudicare nella sua interezza.
Qui mi limito a suggerirvi di soffermarvi sulle pagine dedicate alle previsioni sul futuro della società, in cui, in estrema sintesi, finiremo per starcene ciascuno per conto nostro, decidendo anche il giorno della nostra morte.
Non so se sono d'accordo con Soseki, so solo che quelle pagine mi hanno molto impressionato.
Mi riprometto infatti di tornarci su e di approfondire un po' meglio la biografia di questa straordinaria personalità.
E in ogni caso, che abbia scelto di incarnarsi in un gatto (forse proprio nel suo?) per parlare di massimi sistemi è estremamente significativo.

venerdì 14 settembre 2012

Gli eroi di tutti i giorni e l'intimo errare verso l'alto... nonostante tutto!


Ho scattato questa non memorabile fotografia a Sassoferrato, un piccolo borgo dell'Anconetano che ho avuto occasione di visitare di recente. Ero rimasta colpita dall'intrico di linee orizzontali e verticali che celavano solo parzialmente, oltre alla scritta nel cartello, un magnifico orto, uno dei molti che ingentiliscono i paesi d'Italia lontani dai centri urbani maggiori.
Inconsciamente, devo aver associato l'eroismo dei grandi combattenti di tutti i tempi a quello molto meno visibile, ma non per questo meno importante, di coloro che lottano con tenacia per strappare manciate di ettari, magari anche solo qualche metro, alla cementificazione allo scopo di farvi crescere qualcosa di vivo.
Quando ne incontro qualcuno, provo un grande senso di pace e anche un pizzico di invidia per chi è molto più avanti di me nella comprensione di ciò che più conta nella vita.
Curiosamente, ho poi scoperto che il libro di Luciana Quaia, intitolato Intime erranze, il familiare curante, l'Alzheimer, la resilienza autobiografica, da me letto per motivi professionali, si incentra proprio sul concetto dell'eroe di tutti i giorni, ossia di colui o colei che non compie atti memorabili per passare alla storia, bensì è capace di affrontare un cambiamento prodotto da eventi critici piegandosi, sì, ma non spezzandosi. Come? Magari anche dedicandosi alla cura di un piccolo orto. In ogni caso, sapendo guardare autenticamente dentro di sé per acquisire un nuovo centro. C'è infatti una sottile differenza tra le parole resistenza e resilienza. La prima viene in genere associata alle azioni di lotta di chi combatte contro un tiranno; la seconda proviene dalla fisica - ho scoperto - ma è ormai di uso comune nelle psicoterapie a beneficio di chi ha subito un forte trauma, per esempio l'essersi ritrovato alle prese con la grave malattia di un familiare.
A mio avviso, però, imparare a piegarsi senza spezzarsi riguarda un po' tutti, a maggior ragione chi non trova consolazione in una religione o in qualche forma di meditazione trascendentale.
Il dolore fa parte della vita e solo se si hanno spalle abbastanza larghe e muscoli sufficientemente flessuosi si può andare avanti e magari diventare anche migliori.
Del libro di Luciana mi hanno colpito in particolare le citazioni letterarie (non essendo una tecnica della sua materia, penso fosse inevitabile). Due sembravano scritte appositamente per me.
Ve le trascrivo.
Da Giuseppe Conte, Il passaggio di Ermes. Riflessioni sul mito:

Quando, nel mezzo di una conversazione concitata, cadeva all'improvviso un istante di silenzio, i Greci dicevano: 'passa Ermes'.
Ermes, il dio viaggiatore, che viene da lontano ed è già pronto a ripartire, il dio messaggero, il dio delle piazze affollate, dei crocicchi, presente sulle porte d'ingresso delle città e delle case, il dio dei mercati e dei mercanti, ha dunque a che fare anche, e imprevedibilmente, con il silenzio. Con quel silenzio subitaneo ma quasi preordinato, leggero come un soffio e profondo come un baratro, in cui ciascuno di noi sente la propria solitudine sulla terra, la difficoltà di ogni comunicazione, la sospensione stessa dell'essere sui suoi fondamenti, e avverte l'irruzione di una forza invisibile, fulminea ed amica presso di sé. E' il silenzio dell'anima: Ermes, con il suo passare, ci porta intorno all'anima un messaggio muto: ci dice che la sua funzione di guida e di scorta riguarda soprattutto lei, il suo viaggio verso le ombre. E ancora: Ad Ermes interessa rendere mobile lo spazio, essere sempre nel punto dove si transita, dove una porta si apre, e nel visibile irrompe l'invisibile.

Spesso mi sembra di essere come Ermes, ossia di essere vera solo nei passaggi da uno stato all'altro. Sarà che nel mio nome c'è l'atto dell'andare, del condurre? Di parole da aggiungere ne avrei, ma preferisco lasciarvi riflettere sulle assai più interessanti frasi del poeta citato da Luciana.

L'altra citazione che mi ha fatto trasalire è verso la fine del libro ed è di Emily Dickinson:

Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci.
E, se siamo fedeli al nostro compito, 
arriva al cielo la nostra statura. 
L'eroismo che allora recitiamo
sarebbe quotidiano, se noi stessi
non c'incurvassimo di cubiti
per la paura d'essere dei re.

E delle regine. Di poco più di un metro e mezzo, per quanto mi riguarda.
Il mio intimo errare, insomma, continua: grazie a Luciana per avermene fatto prendere più consapevolezza. E non è detto che non mi metta a realizzare gli esercizi di scrittura autobiografica che proponi per ragioni molto più serie della mia auto-analisi da giornalaia!

martedì 11 settembre 2012

Del fumetto estivo/invernale: che cos'è la verità?

Dago, La figlia della luna
Lo so, non aggiorno molto spesso questo spazio, ma pazienza. Potrei mentirvi dicendo che ho avuto cose ben più importanti da fare o dirvi la verità e cioè che, effettivamente, un po' ho avuto da fare e un po' volevo andare al mare.
Quale sarà vera, la prima o la seconda giustificazione? In fondo, che cosa importa?
Lo dice bene il beduino che incanta tutti intorno al fuoco con una storia che più inverosimile non si può: "Maledetti creduloni!", esclama giusto all'inizio della pagina.
Da lì parte un "flashante" (consentitemi questo orribile neologismo finto-adolescenziale) monologo sul significato di verità e menzogna. Per certi versi, ricorda la massima del Dottor House, secondo la quale "tutti mentono". Dal mio personalissimo punto di vista, però, è ancora più ficcante proprio perché va oltre lo slogan. Non solo tutti mentono, ma molti lo fanno pensando di dire la verità. E sono proprio questi ultimi i più pericolosi, rovesciando la conclusione cui giunge il saggio arabo viaggiante.
Quest'ultimo, infatti, in un certo senso assolve i bugiardi incalliti, quelli che proprio non possono dirti come stanno davvero le cose su di loro, forse, ma neanche su di voi.
Del resto, pensateci: quante volte mentiamo a noi stessi pur di non ammettere che stiamo sbagliando qualcosa? Quante altre non abbiamo il coraggio di prendere di petto una persona che ci impensierisce in qualche maniera, trovando cervellotiche motivazioni alle ferite che ci stanno infliggendo?
Scopro (ma sarà vero?) un po' le carte: essendo stata giudicata da sempre molto permalosa, adesso cerco in tutti i modi di fare l'adulta e di accettare le punte di lancia nel mio costato (uela che metafora ardita). Però poi che accade? Che mi rimane un senso di fastidio aguzzo, una specie di prurito emotivo che vorrei lavare via.
Certo, quando non riesco proprio a smettere di grattarmi, a un certo punto esplodo e torna fuori la mia prima (istintiva) natura di grande sbattitrice di porte contro i giudizi che non mi stavano bene quand'ero ragazzina.
L'altra tendenza, ahimè, è quella di piagnucolare come una poppante.
Su quest'ultimo fronte, però, ho fatto grandi passi avanti. Sto imparando talmente bene a mentire a me stessa da essere riuscita quasi completamente a congelare le cascatelle dagli occhi (che poi mi diventano pesti e alla mia età non va bene).
Per farla breve, non possiamo cambiare. Forse solo prendere consapevolezza di ciò che siamo.
Però, per favore, non mostriamolo a chi non lo merita. E se proprio vogliamo dire la verità, mescoliamola in una tale quantità di menzogne da confondere la stragrande maggioranza dei nostri interlocutori. Ai quali interessa sempre e soltanto la superficie con la quale ci vedono, l'esatto specchio delle menzogne che in quel momento staranno raccontando a loro stessi.
Parlo sul serio?
Secondo voi?

domenica 2 settembre 2012

Il fumetto dell'anno scorso e il senso severiniano della vita


Napoleone, Storia di Allegra

L'estate sta finendo e il mio povero computer sembra essersi avviato anch'esso sul viale del tramonto. Del resto, ha svolto il suo compito più che degnamente, considerata la mole di ciarpame vario con cui l'ho sovraccaricato.
E comunque, come stavo dicendo, tutto passa (provengo dalla scuola di Lapalisse), persino le serie a fumetti. E' successo per esempio a Napoleone Di Carlo, bizzarro portiere italiano di un hotel ginevrino (in un'altra vita faceva il poliziotto), amico di strani esserini fantasy visibili solo a chi, come lui, non ha tutte le rotelle a posto. Nella storia contenente le vignette sopra riportate, il protagonista del seriale chiuso dalla Bonelli una decina d'anni fa circa, condivide la sua capacità di andare oltre la realtà visibile a noi comuni mortali con un'adolescente rimasta orfana troppo presto. Perché ho deciso di scannerizzare (male) la pagina del fumetto, sottoponendo il mio povero strumento di simil-lavoro a ulteriore sforzo? Per due ragioni. Una piccola e l'altra grande.
Ho comprato il fumetto l'estate scorsa nel banco del mercatino di Fermo del giovedì che ne aveva a pacchi: quest'anno, invece, lo "svizzero" ha lasciato il posto ad altri seriali, compresi i simpatici Niko e Chico, in voga nei primi anni Settanta, che tanto mi hanno deliziato nelle serate più calde di questa lunga e crudelmente bella stagione.
Si trattava, in sostanza, di un avanzo che ho aspettato pazientemente di leggere nello stesso periodo dell'anno, sottoponendomi a una specie di inconscio (e segretamente infantile) rito di passaggio. E d'altra parte, con tutti i libri che non ho ancora letto, potevo ben dimenticarmi di Napoleone per aprirlo al momento giusto, ossia sdraiata sulla spiaggia, con il sole quasi allo zenit.
La verità sapete qual è? Dovevo leggerlo quest'anno. E qui passo alla seconda ragione che mi spinge a parlarne in questo spazio. In sogno Allegra, la protagonista del numero, ritrova la nonna, l'unica parente che le era rimasta fino a poco tempo prima. E' proprio lei a spingerla ad andare avanti, parlandole della vita e della morte in una maniera che mi ha fatto pensare al filosofo Emanuele Severino, di cui, pur sapendo pochissimo, ho cominciato ad apprezzare il valore grazie alle continue sollecitazioni del mio caro amico Paolo Ferrario.
Anche quando tutto sembra finire, in realtà non finisce davvero. Preferisco però trascrivere le parole della nonna di Allegra, a beneficio dei molti che non riusciranno a leggere direttamente dalla mia pessima scannerizzazione: "La vita si alterna alla morte e scorre in un tempo senza fine... è un trucco che le serve per giocare con le forme e costruire emozioni, desideri, sogni, rinnovando le cose continuamente... e quando anche il dolore sembra insopportabile, quando si muore, e sembra che tutto finisca, niente finisce veramente...".
Sì. Dovevo leggere questo numero di Napoleone quest'anno: lo scorso ero troppo concentrata sugli imminenti 40 anni e sui tristi bilanci dei traguardi mai raggiunti. Anche adesso sono sempre convinta di aver perso un sacco di tempo e di non aver messo a frutto quasi nulla dei miei forse solo potenziali talenti, ma guardando ieri tutte quelle persone in alcuni casi molto più vecchie di me disposte a mettersi in gioco con i loro lavori fotografici, ho capito che sì, i riti di passaggio servono, ma proprio per aiutarci a non sentirci (almeno non troppo) prigionieri dei nostri limiti. Dei nostri corpi e dei nostri pensieri necessariamente limitati.
Per fortuna, il mondo è molto più grande di noi.

lunedì 27 agosto 2012

Ma il catalogo Ikea non fa per noi


A me invece non capiterà di provare questo brivido, ma come mi hanno scritto tanto gentilmente, per future selezioni, basterà che rifaccia l'identica trafila della scorsa. E come no.
Mentre svuotavo il mio pc sovraccarico di troppa roba, distrattamente ho consultato la mia mail ed eccola lì la risposta alla mia candidatura alla nuova filiale di mobiletti svedesi appena aperta a San Giovanni Teatino (Ch, che non sta per Svizzera, bensì per Chieti):


Gentile Alessandra Cicalini,

siamo lieti di aver ricevuto la Sua candidatura. Grazie per l'interesse, la disponibilità e il tempo che ci ha dedicato. 

Si è conclusa la fase di selezione finalizzata al primo reclutamento dei collaboratori del nuovo punto vendita IKEA di San Giovanni Teatino (CH). Pur ritenendo interessante il Suo profilo, abbiamo indirizzato la scelta verso risorse maggiormente in linea con le nostre attuali esigenze. 

La informiamo che, ai sensi del D.lgs n 196/2003, i suoi dati, conservati nella nostra banca dati, sono stati trattati esclusivamente ai fini della selezione del personale,

Per le esigenze che dovessero presentarsi in futuro, raccoglieremo le candidature unicamente attraverso il nostro sito www.ikea.it nella sezione "lavora con noi".

Le auguriamo di raggiungere i Suoi obiettivi professionali attraverso le Sue attitudini personali ed il Suo percorso formativo.

RingraziandoLa ancora per la sua attenzione, con l'occasione Le inviamo i nostri più cordiali saluti.

IKEA Risorse Umane

Non che avessi mai avuto alcun dubbio sul fatto che non mi avrebbero mai chiamato neanche per la prima scrematura dei Cv (oltre trentamila per circa 200 posizioni. Un esercito di questuanti che neanche ai tempi della carestia di patate causa della prima emigrazione transoceanica di massa).
Tra l'altro sono stati a loro modo assai gentili. E scaltri: capiranno assai bene che una 41 enne dall'incerta collocazione nel mondo potrebbe essere una loro probabile cliente. E infatti ho da poco ricevuto il catalogo 2012-13, pieno di carinissime novità di arredamento "giovane" standardizzato.
Peccato, però, che lo stia conservando per regalarlo a un'altrettanto giovane (ricordo che in Italia si è giovani fino alla pensione di vecchiaia, che peraltro non c'è più) coppia, la cui bellissima casa (non è ironico: è davvero bella) sembra veramente uscita da uno dei loro magazzini.
Noi, invece, siamo quelli dei "mobili vecchi", come ho già raccontato in un precedente post.
Però, Ikea sa: tempo al tempo e dovremo riemigrare dacchepparte (trascrizione letterale dal dialetto fermano) e non è detto che i bauli e soprattutto il pregevole tavolo da sei della mia carissima nonna materna ci stiano in un loft (= stamberga) di qualche ridente comune della Germania (stavo per dire Brianza, ma escludo con ferma certezza che mai mi ci trasferirò. Piuttosto mi compro direttamente un prefabbricato svedese e mi piazzo abusivamente su qualche spiaggia non ancora cementificata. Molto poche in Italia. Il mondo è grande, però).
E insomma, è andata. Giuro che la notizia non mi ha depresso. Ormai mi sono indurita. Grazie, sicuramente, alle frequenti nuotate di questa lunga e per fortuna quasi sempre calda estate.
Per rammollimenti veri e metaforici c'è sempre tempo.
Converrà che aumenti la dose di anti-rughe serale e di thè verde mattutino per contrastare il crollo complessivo, di fisico e psiche.
Non mi avrete.
Non ora, almeno.
Lo scrivo a cuore (abbastanza) leggero, come il mio pc dopo le grandi pulizie di oggi.

sabato 25 agosto 2012

Cronache dalla spiaggia

Ci vorrà un po' di collagene?
Quel braccialetto di stoffa vagamente etnico è stato strappato dalle onde adriatiche, risibili, certo, rispetto alle potenti spire atlantiche, ma pur sempre forti per una donnetta come me.
Scrivo come strategia anti-afa e per togliere (non lo nascondo) dal primo piano il precedente, cupissimo post.
Non che la mia visione rispetto all'Italia e al presente sia cambiata, ma bisogna pur andare avanti.
La callara (parola di chiara matrice dialettale che non ho intenzione di dantescamente ripulire) non mi ha impedito di pensare, o sarà che, tanto, deliro con qualsiasi temperatura.
Tra gli argomenti per questo spazio mi frulla da parecchio una puntata numero due sulla maternità e sulle madri, ma per il momento lo lascio sedimentare un altro po'. Mi limito a svelare un dettaglio: non sopporto le mamme che parlano solo dei figli, soprattutto quando questi ultimi non sono più nell'età delle prime pappe. Al mare, invece, non ho potuto proprio fare a meno di ascoltare di quei discorsi, ma di quei discorsi. E pensare che si tratta di mie coetanee o di persone anche più giovani. Mi fermo qui. Ci tornerò su.
Passiamo all'argomento numero due: i milanesi (meglio: i lombardi in genere) in vacanza. Tolti quelli (che saranno la maggioranza, certamente) che si fanno gli affari loro e che usano un tono di voce moderato o proprio assente, sulle spiagge mi capita spesso di incontrare varia umanità dall'accento settentrionale che urla e spesso si lamenta dello stato selvaggio dei locali  (qualche ragione ce l'hanno, ma che ci sono venuti a fare, considerato che tornano TUTTI gli anni?). Oppure, colgo negli sguardi di qualche esponente della razza ariana d'Italia un misto di disprezzo e ingiustificabile senso di superiorità. Perché loro, i produttivi connazionali nati (o comunque cresciuti) al di là del Po, nei paesini e nelle valli pedemontane da dove provengono "hanno abbassato la saracinesca" (cit) per un po', ma poi torneranno a rialzarla, ammesso che il governo non li tassi dell'altro. Mentre qui, questi generici terroni si grattano la panza e lasciano tutto sporco, ma di cambiare mentalità proprio non se ne parla.
Devo però aggiungere che un pizzico mi viene anche da gongolare, considerato che le Marche, anche quelle del Sud, non possono di certo essere ascritte all'ex Regno borbonico. E però c'è sempre qualcuno più meridionale di noi con cui prendersela e io, lo confesso, non sopporto di essere guardata (a volte) dall'alto in basso solo perché vengo da Chieti.
E insomma, ce ne ho una per tutti: bella scassapalle, non c'è che dire.
Terzo e ultimo argomento, gli habituè della spiaggia libera dove noi Sfaccendati (ebbene sì, signori del Nord: non c'avemo voja de faticà, come dicono da queste parti) siamo soliti passare le nostre mattine.
In particolare, c'è un tizio sui settant'anni o giù di lì che mi ha incuriosito già dallo scorso anno. Occhi chiarissimi, secco come un chiodo, abbronzatura dorata molto simile alla mia e un tatuaggio non meglio identificato sulla scapola, quest'uomo, tutte le sante mattine, nuota fino alla secca a un centinaio di metri dalla riva, con una sistematicità davvero impressionante.
Prima di tutto si bagna, quando fa particolarmente caldo come oggi, altrimenti, intorno alle undici-undici e mezzo, si tuffa a pochi passi dalla riva e con lente bracciate percorre metà del suo percorso abituale. A quel punto, se ne resta lì in ammollo, qualche volta fa anche il morto, e poi, a seconda forse anche delle correnti, decide se proseguire a dorso o sempre a stile libero. La sua testa pelata diventa così sempre più piccola, finché, talvolta si innalza sulla secca, come ho visto fare ieri da un sub che sembrava camminare sulle acque come Gesù. Con analoga calma, torna indietro, in genere prima a stile libero, poi, a metà strada, a dorso. Anche in questo caso non nuota perfettamente perpendicolare alla riva, come se sapesse che tagliando le onde si fa meno fatica. Una volta uscito dall'acqua, poi, infila le ciabattine e si allontana sulla battigia. Fino a quest'anno non sapevo dove si dirigesse, da poco l'ho capito: va a farsi la doccia al più vicino stabilimento. Forse, dopo, va anche in bagno, ma di solito non a cambiarsi il costume. Come faccio a saperlo? Perché quando torna al suo asciugamano, liscio e perfettamente parallelo alla riva, gli abiti altrettanto perfettamente piegati sopra uno dei lembi superiori, si sdraia di schiena, poggiando i gomiti a terra, la testa liscia reclinata in avanti, e dopo un po' si gira e prosegue con l'asciugatura del lato anteriore. A un certo punto, probabilmente per via del caldo, si calca sulla testa il suo cappellino bianco con la visiera e gli occhiali da sole. A questo punto del rito, so già che saranno più o meno le dodici e trenta. Tra un po' si alzerà e si rivestirà.
Prima, però, riannoda i fili interni del costume, poi si infila la maglia, quindi piega perfettamente l'asciugamano e se è il caso con il quadrato che ne ha formato si asciuga la pelata sollevando un po' il suo cappellino.
Nessun rito riesce esattamente uguale, però. Me ne sono accorta stamattina, quando il soggetto in questione, che io credevo impegnato a riannodare i lacci dello slip, in verità li stava sciogliendo per calarseli giù. Stavo guardando verso il mare, quand'ecco che, voltandomi verso di lui, l'ho visto in piedi, di spalle, con una strana fessura più chiara al di sotto della schiena. Velocemente, devo dire, ho constatato che stava già infilandosi i pantaloncini, ma non ho potuto fare a meno di strabuzzare gli occhi. Anche perché, di fronte a lui, a pochissima distanza dai gioielli di cui sono dotati tutti i maschietti (anche il suddetto nuotatore ordinato), c'era la solita, graziosissima ragazza bionda anche lei abituale frequentatrice di quel tratto di spiaggia. Mi pare che stesse dormicchiando, ma non ne sono certa. In tutti i casi, è facile che abbia richiuso gli occhi non appena intravista tanta meraviglia.
E dire che in altre zone dell'Europa è considerata prassi svestirsi del tutto e rivestirsi dopo il mare. Tuttavia, sono rimasta un tantino spiazzata, più che altro perché non mi tornava con l'idea che mi ero fatta del personaggio. Sarà il caso di osservarlo (sempre a debita distanza) un altro po' per capire se ci saranno evoluzioni. Beh, speriamo di non dover assistere all'arresto per atti osceni in luogo pubblico.
In tutti i casi, vedremo che cosa farà la bionda. Se piazza l'ombrellone da tutt'altra parte o se non la rivedrò più, sarà il caso che prenda di mira qualche altro bagnante per le mie improduttive osservazioni di fine estate.

mercoledì 22 agosto 2012

Largo ai giovani? Non agli "ex" della generazione perduta



"Largo ai giovani", dice Peppy Miller all'intervistatore. Al tavolo alle sue spalle sta cenando George Valentine, famoso attore del cinema muto, orgogliosamente ancorato alle pellicole prive di sonoro. La sua scelta conservatrice lo porterà, come si vedrà nel corso del film, quasi alla morte, ma per una volta, accidenti, un film così intenso e originale come non se ne facevano da tempo, sceglie il lieto fine.
Che poi, intendiamoci, non vuol dire che sarà possibile tornare indietro. Tutt'altro: il tempo, ahinoi, non si ferma mai, figuriamoci il progresso tecnologico. Però un sottile e sottinteso messaggio didascalico la pellicola di Michel Hazanavicious lo dà proprio grazie alla sua coraggiosa e assai creativa scelta di girare alla maniera del cinema degli esordi, naturalmente con tutte le differenze potrei dire post-moderne del caso.
Il messaggio è a mio avviso il seguente: nessun 3D di ottima fattura potrà mai soppiantare la necessità di una trama convincente e di una recitazione altrettanto degna di questo nome. Il regista, peraltro, è abbastanza giovane, ma non per questo sembra essersi dimenticato dell'importanza del passato.
Lo stesso, purtroppo, non accade in Italia, in cui si è fatto di tutto per bruciare presente e futuro di schiere di ex giovani e giovani veri.
Chi segue questo blog (pochi ma buoni) sa che lo scrivo da tempo: la generazione più disgraziata di questo crudele Paese è quella a cavallo tra i 30-40 anni; sì, proprio quella da sempre impegnata a guardarsi l'ombelico (le schiere di fan dell'Ultimo bacio ne sanno qualcosa) e a farsi un'istruzione destinata a frustrarli a vita.
Del resto, l'ha detto anche Mario Monti non più di qualche giorno fa, tra gli applausi entusiasti anche di gente della mia età (le blandizie pagano ancora, si vede): a riportarlo, è stato il Manifesto della generazione perduta, segnalatomi dal mio caro amico Paolo Ferrario, che ha peraltro anche avuto il coraggio di firmarlo, benché, per fortuna sua, non lo riguardi direttamente.
Vi confesso, tra l'altro, di averlo già ricevuto ieri, ma, sinceramente, non ho avuto il coraggio di aprirlo perché sapevo che mi sarei inc... inquietata assai.
Vi trascrivo giusto la premessa dell'iniziativa di questi miei coetanei (forse pure più giovani: perché la tragedia vera è che quelli di noi nati tra i Sessanta e i Settanta avrebbero anche potuto averlo un posto a tempo indeterminato, ma chi l'ha perso o se n'è andato convinto di poter trovare di meglio, sa bene, troppo bene, di aver perso l'ultimo treno per darsi uno straccio di stabilità economica).
Mi auguro solo che non si tratti dell'ennesimo tentativo di avere visibilità a buon mercato, sempre nella malcelata speranza di passare dall'altra parte, tra quelli che parlano di crisi solo perché oggi fa tanto fashion.  Eccoli qua:
Noi siamo la generazione perduta. Quei 30-40enni italiani per i quali – come ha di recente confermato il Presidente Monti – lo Stato non potrebbe far altro che limitare i danni. Perché è ormai troppo tardi per offrirci speranze e futuro. Siamo consapevoli – e ce lo ha ricordato lo stesso Premier – che le responsabilità di questa situazione sono di un’altra generazione: quella alla quale appartiene buona parte della classe dirigente che negli ultimi venti anni ha guidato questo Paese. Oggi i quasi dieci milioni di italiani che appartengono alla nostra generazione vengono considerati “perduti” ed invitati ad accettare con rassegnazione un destino senza speranze né futuro. E padri senza futuro non possono generare figli capaci di averne.

In questi pochi paragrafi c'è tutto, quindi non serve aggiungere molto altro. Resto però colpita dal fatto che a parlare, ancora una volta, sia un uomo: lo deduco dal riferimento alla paternità mancata o perduta, che dir si voglia. La prima domanda che mi pongo è infatti: che fine hanno fatto le donne del movimento "Se non ora, quando?". Forse che lì c'erano anche svariate esponenti di quella fetta di classe dirigente in rosa tuttora ben piazzata sugli scranni del potere, la stessa, sì, proprio quella, che ha impedito alle più giovani di farsi largo anche senza, perdonatemi la volgarità, allargare le gambe? Lo sanno le agiate (e spesso ageé) signore che recitavano Christa Wolf o qualche altra autrice radical chic che per molte delle loro un po' più giovani compagne di sfilata post-femminista non ci sarà mai il momento per rivendicare la proprietà sul proprio corpo (quante violenze domestiche su italiane ci sono già state quest'anno?) né tanto meno difendere quello delle figlie sventuratamente messe al mondo? Sanno che alcune di loro rischiano di fare come Anna Magnani in "Bellissima"? E non ditemi, per favore basta, che la colpa è di Berlusconi. E' anche sua, naturalmente, come perfetto esponente dell'Italia che ha rubato il presente e il futuro a me e agli ex ragazzi del Manifesto sopra detto, ma parte di questa colpa ce l'ha anche Monti, che avrebbe potuto anche scegliersi collaboratori più giovani, anziché quelle vecchie ciabatte incarognite che hanno dato più prove di quanta considerazione abbiano per i famosi bamboccioni.
Come uscirne? Io qualche idea comincio ad averla, come forse s'intuisce dai miei continui riferimenti alla mitizzata nazione tedesca. Nel frattempo, continuerò a digitare parole e a credere, ferocemente, in tutti i progetti, anche i più strampalati, che dovessero partorire dalla mia testa. E da quella di altri "sfaccendati" come me che vogliano - anzi: PRETENDANO - esattamente quanto indicato come punti programmatici dal Manifesto: rispetto, merito, impegno, progetto, fiducia.
E no, Claudio Risè non ha del tutto ragione, caro Paolo Ferrario: io non avrei potuto fare nient'altro che la giornalista o qualcosa del genere. Però è vero che lo sfascio di un Paese che non sa più formare i ragazzi ai mestieri, quelli che teoricamente gli italiani non vogliono più fare, ha aggravato il dramma della mia generazione. Io, poi, ho fatto il Classico e dopo Scienze Politiche. Peggio di così.
Per fortuna ho imparato (abbastanza) a fare almeno le pulizie. E non è escluso che per racimolare qualche denaro ricominci proprio dalla ramazza. Basterà mentire sul curriculum o, magari, sulla nazionalità: a parte l'altezza, posso passare per ucraina. Dirò che sono muta. Ecco: straniera e appartenente alle categorie protette è l'ideale.
Una volta messi da parte un po' di denari, quelli bastevoli per comprarsi un piccolo terreno su cui costruire una casetta di legno con un piccolo appezzamento da destinare a orto, potrei passare direttamente "dalla penna alla vanga", come mi aveva predetto il mio amatissimo Sfaccendato. Perché, nonostante la sfiga, ogni tanto sorridiamo. L'unico vero antidoto contro la miseria, soprattutto morale, in cui vorrebbero farci sprofondare.
Concludo con un contro-appello ai promotori del Manifesto: voglio credere nei vostri intenti, ho pure firmato, cosa che non faccio mai, men che meno sul Web. Per favore, non deludetemi.