mercoledì 15 ottobre 2014

Paolo Conte e la magia che si rinnova. Crescendo ancora

Gli anticorpi non collaborano, ma cerco di non pensarci concentrandomi piuttosto su ciò che di bello mi è successo non meno di ventiquattr'ore fa.
Sotto il piatto rovesciato della cena ho trovato Snob, l'ultimo album del Maestro Paolo Conte.
A regalarmelo, naturalmente, il suo omonimo fumatore di pipa, che ha così facendo anticipato l'acquisto che già aveva in mente di fare per me. E' riuscito a sorprendermi: anzi, sono riusciti a sorprendermi entrambi.

Perché se è vero che nel nuovo disco dell'avvocato astigiano si trova, inevitabilmente, l'eco di sue canzoni e pezzi del passato (le parentesi mi contraddistinguono: non potrei smettere di usarle neanche volendo, come Conte con il kazoo e le sue note sgangherate alla Duke Ellington), in Snob ho trovato anche una freschezza tutta nuova, che per esempio non c'era in Nelson, uscito a troppa pochissima distanza dalla scomparsa di Renzo Fantini, grande amico e mentore del Nostro.

Molto originale è per dire l'impostazione del brano che dà il titolo all'intero album, che vola via in soli 49 minuti e una manciata di secondi: la melodia è malinconica, francese come solo un italiano savoiardo (all'incirca!) può essere, ma le parole sono sottilmente, sfacciatamente, ironiche.
Quanto si deve essere divertito a giocare con i suoi stilemi più conosciuti: l'amore che muore, il tinello marron e l'italiano che non parla il tedesco, tornano potenti in questa canzone così apparentemente semplice, poche note cucite con una classe e una sapienza da capo indiano che mi hanno davvero scaldato il cuore.

Seduta sul divano rattoppato che tanti momenti ha visto del mio più antico e recente passato, mi sono lasciata andare all'ascolto in cuffia dei quindici pezzi che compongono il nuovo lavoro contiano, alternando brividi, sorrisi interni, sorrisi aperti, battere di piedi e qualche lieto aggrottare di sopracciglia, come solo con lui mi succede.
Avevo quasi scordato che effetto mi fa ascoltarlo. 
Sono successe troppe cose negli ultimi mesi, troppo dolore, troppa rabbia, troppa poca buona vita.

Ieri sera, dopo tanto tempo, mi sono re-innamorata di lui e della sua musica, come nel brano (tra quelli che mi ha richiesto un ascolto più attento) che ha chiamato Gente, che ha per sottotitolo un acronimo che per l'appunto significa "che si innamora di noi".
Mi sono immaginata, leggendone le parole, che sia stato scritto per parlare dei fan, di noi fan, stregati e avvinti come bambini davanti ai cartoon.

Non mi ha richiesto nessuno sforzo, invece, innamorarmi di Fandango, nella sua commovente perfezione. Sono anzi sicura che sarà successo lo stesso a chi segue il Maestro praticamente da sempre.
Mio cognato Massimo Del Papa ha giustamente ricordato che sono ormai quarant'anni che l'avvocato con i baffi da gatto si è trasformato in un cantautore: mi sto sempre più convincendo che la mia nascita giusto agli esordi del decennio più difficile della storia italiana recente (tolto il momento presente, che però non riesco, ovviamente, a comprendere appieno) abbia segnato per sempre anche i miei futuri gusti non solo musicali.

Dovevo incontrare, un giorno, il Maestro astigiano: era scritto nel mio Dna, nelle nebbie abruzzesi così diverse da quelle della pianura padana, ma così simili per il romanticismo sottotraccia che mi si è appiccicato addosso.
Come Conte, sono una provinciale anch'io, abituata a cibi "sostanziosi", come scrive sempre in Snob, a canti "che van bene per soldati e muli", alla presa in giro di chi, di più nobile lignaggio vero o presunto, se la tira, l'unica arma di difesa possibile contro chi sarà sempre più educato e colto di noi.

E chissà se quella nostalgia per anni che non abbiamo mai vissuto non sia stata provocata dall'essere cresciuti in luoghi appartati, eternamente vintage nonostante la globalizzazione, in mezzo a quegli odori di campagna che ogni tanto si fanno largo pure nella piazza principale della città, protetti da quei maglioni blu dei papà ragionieri e le gonne a metà ginocchio delle mamme maestre, coccolati dagli zuccheri saturi dei diplomatici della domenica e delle patatine consumate lungo la strada del ritorno dalla messa con l'amichetta del cuore.

A differenza sua, però, a casa mia non circolava musica jazz, ma molta (non sempre buona) musica italiana. L'omonimo con la pipa mi ha preso in giro per anni per una musicassetta (un nastro, come diceva sempre mio zio Gigi) di Fausto Papetti. Ovviamente, non era mia, ma ne rammento vagamente la copertina, così simile a una delle peggiori, anche per lo stesso Conte, della sua produzione anni Settanta.
Volente o non nolente, insomma, anche sul Maestro sono rimasti attaccati quegli anni là, quelli del suo esordio: ai colori acidi delle Polaroid delle ricorrenze di famiglia, mi riportano diversi brani del nuovo disco, in particolare Glamour, con quel tedesco veramente improbabile e perciò simpatico, poi, almeno in parte, Incontro e soprattutto L'uomo specchio, con quella costruzione del testo presa pari pari dalla Settimana enigmistica.

Non sono in grado di cogliere la maggior parte dei giochi linguistici del Nostro, vista la mia totale imperizia con sciarade e rebus (mentre sono praticamente un asso con i crittografici), ma ho la certezza assoluta che i suoi momenti di relax siano spesso impiegati nella costruzione di calembour e boutade di varia natura.

Me lo figuro mentre ride da solo per qualche invenzione un po' demenziale, mentre si arrotola i baffi ghignando contento.
Immagino che abbia una fantasia immensa e meravigliosa, direi, finalmente, cinematografica.
Ve lo confesso: finora non avevo mai completamente capito perché più di qualcuno abbia attribuito questo aggettivo alla musica di Conte.

Posso dirlo di averlo compreso pienamente solo adesso, con Snob, ascoltando in particolare, tra i pezzi di sapore sudamericano, Argentina e Manuale di conversazione, più che Tropical, la canzone che ha anticipato l'uscita dell'album, e Maracas.

Perché mi sembrano cinematografici? Semplice: perché ho proprio visto, chiaramente, davanti a me, l'autista peruviano di camion che carica l'autostoppista italiana e che alla fine è contento che scenda, non essendo in grado di imbastire neanche la più banale delle conversazioni, e gli italiani emigrati che frustano le scarpe dei ricchi fazenderos, sotto un cielo bianco che fa star male per la nostalgia.

Ha giocato più volte, Paolo Conte, con i ritmi e le suggestioni dell'altro capo dell'Oceano Atlantico, ma soprattutto nella produzione più matura, penso in maniera particolare all'album Elegia, la freschezza di brani come Messico e Nuvole e Sudamerica avevano lasciato il posto alla fatica del vecchio proprietario del Mokambo, che non si rassegna al tempo che non torna più.
Cinematografici anche quei brani, sì, ma in modo triste, quasi tragico, direi.

In Snob, invece, la leggerezza è tornata a spruzzare di amore per la musica tutti e quindici i pezzi, alcuni dei quali, c'è da scommetterci, appartengono a epoche passate, come il ritratto di copertina del Nostro, che pare arrivare direttamente dagli eterni Seventies.

Se non li aveva ancora tirati dal cassetto, evidentemente, non erano ancora maturi: potrà sembrare strano, ma sono assolutamente certa di ciò che sto per scrivere.
A settantasette anni suonati, Paolo Conte è cresciuto ancora, passato com'è da un lutto così serio come la morte del suo sodale Renzo e dalle morti, presumo altrettanto dolorose, di un sacco di persone fondamentali nella sua spero ancora lunghissima esistenza.

Sto parlando anche di me, è evidente, ma la grandezza di Paolo Conte è talmente universale da lasciare davvero disorientati tutti quelli che vorrebbero mettersi lì a cercare di capirlo, fingendo una gravità che il Nostro assolutamente non possiede.

Più invecchia, anzi, più prende in giro. Sé, innanzitutto, e gli altri.
Perché l'unica cosa da prendere sul serio è la musica.
Quella per cui è nato.
Basta solo assistere a un suo concerto, senza paraocchi e abiti sbagliati, per comprenderlo pienamente.
Non vedo l'ora di rivivere quella magia.

Grazie ai Paoli della mia vita.
E buon ascolto a tutti noi.

lunedì 13 ottobre 2014

Il senso delle cose secondo Cristina Donà



Buon ascolto.


E ho capito che mi basta, 
mi basta il tuo nome, 
per far esplodere le rose 
su questo balcone...

Troppo bella.

E tra poco... Paolo Conte!
Meno male la musica.

venerdì 10 ottobre 2014

I libri inutili e i cambi (necessari) di stagione


Il periodo è quello giusto: il cambio di stagione va onorato anche con una bella selezione tra i libri della nostra vita. Finora non ne avevo mai buttato neanche uno, ma ultimamente mi sono resa conto che non c'è niente di più sbagliato (almeno per me) della sacralità imposta.
Chi decide che un libro meriti di essere conservato più di un paio di scarpe o di una spugnetta abrasiva?
Non tutti i libri sono utili. Non tutto, in generale, è veramente indispensabile.

Tornando al tema, alcuni libri, in particolare, mi parlano di periodi morti e sepolti che non ho alcuna voglia di ricordare.

Fino a ieri pomeriggio avevo ancora il raccoglitore contenente il primo anno di numeri della Voce delle Marche. Adesso non ce l'ho più. L'ho lasciato sul bidone della carta, in piedi, aperto.
Chissà se i netturbini l'hanno sfogliato giusto un attimo prima di mandarlo al macero.

Nel novembre di dieci anni fa ho preso i miei primi contatti con Fermo. A inizio 2005 ho cominciato a lavorare nel settimanale diocesano, ormai mitizzato nella mia memoria.
I tre anni successivi sono stati tanto belli quanto dolorosi da rievocare. Ogni volta che ne parlo mi risale una rabbia che non ha più senso.

Perciò era ora che mi privassi di quel raccoglitore. Oltretutto, in cantina staziona ancora la collezione completa che avevo fatto da sola, da brava formichina, numero dopo numero.
Qualcosa mi dice che finirò per buttare anche quella.

Necessito di spazio. Di pulizia disco, quella che non faccio mai sul mio pc, sottoponendolo a sforzi eccessivi. Ogni tanto, infatti, il mio povero portatile va in tilt, esattamente come me.

Anche la casa dei miei genitori ha bisogno di un cambio di stagione. Non sarà facile liberare un po' d'armadio per mio padre, ma lo faccio per lui. E anche per mia mamma che approverebbe.

Quindi, tra poco, parto.
Compiendo un viaggio all'indietro che indietro non è.

mercoledì 1 ottobre 2014

Quando ringiovanirò imparerò a parlare inglese


Ho cominciato a scrivere questo post un po' di settimane fa, ma non ce l'ho fatta a terminarlo, semplicemente perché non sono riuscita a capire tutto il testo di questa bella canzone di Joe Cocker.
Alla fine l'ho cercato su internet, ma almeno, questo sì, non ho avuto bisogno della traduzione in italiano.
Per le canzoni di Mark Knopfler, invece, non ce la faccio proprio: sono davvero complesse. Ieri, per dire, ho riascoltato l'ultimo album (Privateering), mentre facevo la cyclette, ma pur con il libretto davanti, non capivo almeno la metà delle parole. E d'altra parte pure questo è uno stimolo ad andare avanti nello studio dell'inglese

Vi riporto quel che ho capito da sola:


Imparerò a suonare la chitarra blues
Guiderò veloce le auto ...
Salterò dagli aerei in volo
Andrò a cercare Dio e ne diventerò il testimone
Mi guarderò dentro e cercherò di capire 
che cosa penso della vita e di ciò che ho intorno

Quando ringiovanirò (due volte)

Ballerò con i folli e prenderò in giro i re
dirò il meglio sui miei genitori...
...

smetterò di fumare per il mio bene,
cercherò le parole perfette per dire
che cosa amo di più ...


Quando ringiovanirò (due volte)

Ci sono un sacco di cose da fare
dovrò fare di tutto prima di non esserci più


Per il resto, ascoltatela da voi.

E, comunque, più che ringiovanire, si è costretti a fare i giovani.
Poi, da un momento all'altro, trà, ci si ritrova più rugosi di Dorian Gray nello specchio.

E pazienza.

Nel frattempo, ripeto mentalmente il mantra che mi ha insegnato mia sorella.
E il cambiamento arriverà.

martedì 16 settembre 2014

Le fotografie di mia madre e i tratti distintivi del suo carattere


Mia mamma mi ha vista così, credo due anni fa, a giugno. Deduco il periodo dell'anno dal colorito che ho normalmente, prima del breve periodo di rosolatura estiva. Il posto in cui è stata scattata la fotografia mi è molto familiare. E se è crudele passarci tutte le volte, andando e tornando dal mare, lo è stato ancora di più vederlo in immagine.

Ci abbiamo festeggiato così tante riunioni familiari, che dubito che riuscirò a rimetterci piede tanto presto. Anche mio padre sembra pensarla come me, ma d'altra parte poi il tempo passa e ammetto di essere stata contenta che abbia giocato a carte con gli amici della spiaggia, giusto due giorni fa, alla fine di questa estate così triste.

Sfogliando le fotografie scattate da mia madre, però, devo ammettere di aver più volte sorriso.
Abbiamo passato molti momenti felici, naturalmente felici, di quella normalità intima priva di aneddoti rilevanti se non per la stretta cerchia parentale, che tutti meriteremmo di avere.

Guardando i momenti del nostro passato comune resi inconsapevolmente immortali (salvo sbiadirsi negli anni o disperdersi nel cimitero dei byte), capisco ancora di più quanto io sia stata fortunata.
Mi sono rivista mentre giocavo a racchettoni con zio Gigi, mentre prendevo il sole con il quotidiano spaginato sulle ginocchia, con indosso i pigiami vecchi che continuiamo a metterci mia sorella ed io quando andiamo nella nostra casa da ragazze. E poi ho visto gli zii, i cugini, i nipotini prestarsi all'obiettivo con quel misto di ritrosia e vanità che mia mamma stuzzicava sempre quand'era in loro, in nostra, compagnia.

A volte ci fotografavamo vicendevolmente, in un gioco infantile che dava piacere a entrambe.
Ho scovato anche un suo ritratto in cui sfoggiava una parrucca verde fosforescente e sorrideva molto divertita. Ne ho una analoga di me, con un'espressione straordinariamente uguale, solo il colore della parrucca è diverso.

Da lei, credo, di aver preso un po' di spirito canzonatorio.
A fine mese mia zia farà dire una messa dal suo padre spirituale: gli ha passato un po' di parole chiave che vorrebbe che dicesse per ricordarla.
Io ne ho aggiunte due all'elenco per il resto veritiero composto dalla sorella: ironia e fierezza.

Per lo meno, io l'ho vista anche così.

Più passano i giorni e più mi convinco che non avrebbe mai potuto sopportare di diventare un vegetale. Noi avremmo voluto che restasse di più con noi, ma poi, come si dice dei figli, bisogna accettare che le persone che si amano di più prendano altre strade.

Non riesco ancora a provare granché conforto nel saperla sepolta accanto ai suoi genitori, ma al contempo, non posso fare a meno di percorrere il viale di cipressi soffermandomi ad ascoltare il gracchiare dei corvi e di qualche altro uccello a me sconosciuto.

Sei con me, sei con noi, in ogni momento.
Guidaci, se puoi, ancora un po'.
Ciao, mamma. Adesso sono io che vado a guidare: il cambiamento è cominciato dalla macchina nuova. Speriamo che ne arrivino anche altri.

So che tu ci credi. Cercherò di crederci anch'io.

domenica 7 settembre 2014

Più forte del fuoco

Sembra che Cristina Donà, la mia scoperta di questa strana estate (in verità, è merito della mia ex compagna di liceo, Simona, se l'ho conosciuta. L'ho già ringraziata una volta, lo faccio di nuovo) verrà da queste parti verso ottobre. Dovrebbe suonare/cantare al teatro di San Ginesio, in provincia di Macerata, lo stesso in cui si sono esibiti mio cognato e suo fratello, detto anche (quest'ultimo) il Bipede Paolo. Ora che ci penso, uno degli ultimi discorsi fatti con mia mamma è stato proprio sullo spettacolo dei DelPapa boys e sulla bellezza di quel piccolo teatro di provincia. E insomma, vorrei andarla a sentire anche per questa ragione. Spero di non dovermene pentire.

Anche perché le sto per affidare un ruolo davvero importante.
Dedico una delle canzoni del suo ultimo album alla mia mamma, a tre mesi dal nostro (chissà se solo figurato) addio.
Si chiama Più forte del fuoco (sotto nella versione unplugged) ed è stata a sua volta dedicata dall'artista lombarda "alla nostra stella Olivia". Chissà chi è. Perché anche Olivia "è" in ogni caso, dovunque sia.

"Più forte del fuoco c'è solo l'amore. Esiste da sempre". Proprio così. Lo conferma una che ha già provato le ortiche. Altro che se le ha provate. Sotto, effettivamente, può esserci la seta. Anche se faccio ancora fatica a riconoscerla. Sono sicura che ci riuscirò. Oggi più che mai.

Ciao, mamma. Grazie di tutto.



lunedì 1 settembre 2014

Settembre, risaliamo. Facendo quel che si può



Un pezzetto(ino) alla volta, spero proprio di fare più o meno come in questa canzone.

Verso fine mese esce il nuovo cd di Cristina Donà, una bella scoperta di questa strana estate in chiusura. Credo che me lo procurerò e, se è il caso, ne parlerò.

Buon settembre, amici. Facciamo tutto quel che si può.
Per risalire.
Lo sto già facendo adesso.
Sì, lo sto già facendo.