mercoledì 2 dicembre 2020

Un matrimonio riuscito


Non se n'era mai andato, ma è da qualche giorno che ne avverto la presenza nitidamente. 

Sto parlando del volto di mia madre, ma non solo di quello.

La vedo a figura intera, in alcune sue pose tipiche.

La sera dopo cena spesso la trovavo seduta in cucina nel suo modo bizzarro. Poggiava le ginocchia sulla sedia, sempre la stessa, dal lato dei fornelli, e i gomiti sulla tavola. A volte si teneva il mento tra le mani, altre volte sfogliava i giornali del mattino in quella posizione, come se volesse dominarli dall'alto con il suo busto, avvolta nella vestaglia, lunga e materna. 

La schiena la teneva piuttosto piatta, vagamente inarcata all'indentro, come quando si fanno certi esercizi di ginnastica. Nelle sere d'inverno, quella posa piaceva moltissimo a Sancio e Stino, i due gattoni di casa.

Non di rado se li ritrovava addosso, un peso enorme, tutto considerato, per il quale, chiamandomi a gran voce, rideva fingendo sconforto. 

Sono sicura di avere una foto in cui l'ho ritratta così, con quei due vitelli a pesarle sulla bella schiena di mamma.

Aveva anche un'altra postura stravagante, che poi le ho rubato. Seduta al solito posto, girava la sedia verso la televisione e, per guardarla, poggiava i piedi sulla sediolina impagliata della nonna. Per la precisione, di solito li infilava sul sostegno orizzontale delle piccole gambe di legno. Non sia mai che dovesse rilassarsi del tutto.  

La schiena, però, le si piegava un po' in avanti, soprattutto quando poggiava i gomiti sulle ginocchia e si teneva, stavolta sì, il mento tra le mani. A pensarci adesso, in quei momenti sembrava più vecchia di come fosse in realtà.

E d'altra parte, non ho mai ben capito perché, nonostante avesse sonno, amava restarsene lì in cucina fino a tardi, spesso fino a dopo mezzanotte, la porta della cucina accostata per trattenere ancora un po' il calore dei termosifoni ormai spenti e forse per non disturbare mio padre e, quando c'ero, anche me.

Dopo aver chiuso la tv in sala, prima di andare a letto passavo dalla cucina per salutarla, spesso le davo proprio il bacio della buonanotte, anche da grande.

Una volta, però, mi ha scioccato.

Mia nonna, sua madre, era morta da pochi giorni e lei era davvero a pezzi. 

Io ero appena uscita per sempre dal liceo: negli ultimi due anni avevo dormito spesso dalla nonna, via via che la sua salute si faceva più precaria. 

In genere andavo da lei volentieri: mi piaceva il latte bollente (mi pelavo proprio la lingua) con il Nesquik e i biscotti Atene Doria (sempre quelli) che la nonna mi faceva trovare tutte le mattine nel soggiorno, dopo aver lasciato la tazza sulla stufa a gas, per tenermela meglio in caldo.

Ricordo il tratto in macchina che separava il nostro appartamento dalla sua grande casa. Partivamo dopo cena, mentre guidava la mamma mi dava spesso una breve carezza sul ginocchio sinistro, quello più vicino al cambio. Poi arrivavo dalla nonna e aprivo io con le chiavi: lei mi salutava dal letto, gli occhiali sulla punta del grande naso. 

Tutto questo, dicevo, un giorno d'estate è finito e forse me ne sento ancora un po' in colpa. 

Gli esami si avvicinavano e io avevo bisogno di concentrarmi. Ho espresso questo mio desiderio probabilmente a entrambi i genitori, con la mia proverbiale veemenza. Oppure, chissà, quella volta la veemenza ce l'ha messa mio padre, sempre così pronto a farsi in quattro per le sue bambine.

Come sia andata, insomma, non lo ricordo più. So solo che quello è stato uno dei rari casi in cui ho visto mio padre alzare la voce con mia madre. Pareva proprio l'avvocato della pubblica accusa durante l'arringa finale, la mamma la controparte messa rabbiosamente nell'angolo.

La nonna, però, stava male davvero e, a posteriori, capisco quanto mia madre, sua figlia, dovesse essere preoccupata. Come posso lasciarla da sola?, si sarà detta, Chi veglierà su di lei durante la notte? Alla fine la scelta è ricaduta su mia sorella, tornata da Roma, dove frequentava l'università, non so bene se richiamata apposta o perché in pausa tra un esame e l'altro. 

Proprio a mia sorella è toccato effettivamente soccorrere la nonna nei drammatici momenti finali. Quattro giorni dopo il mio esame orale, ci ha lasciato. Eravamo annichiliti. Il voto finale, per me, alla fine, non è contato più nulla.

Molto più importante, era invece riuscire a trovare un modo per stare vicino alla mamma, affranta come mai l'avevo vista.

Non potevo sopportare che soffrisse, è stato così anche molti anni dopo, quando si è ammalata. Solo in un'altra circostanza, qualche tempo prima, l'avevo trovata distesa sul divano della sala, senza forze. Chissà se aveva l'influenza o se era solo un ciclo particolarmente doloroso, fatto sta che io ero nel panico. 

Ricordo di averla quasi sgridata: "Dai, su, alzati!", penso di averle detto e lei mi ha sorriso debolmente e mi ha risposto, qualcosa del tipo: "Sì, sì, domani sto meglio". Chissà se lo pensava davvero o se voleva solo rassicurarmi.

Stavolta la sua infelicità aveva un'origine diversa, non sapevo proprio come maneggiarla. Gli strepiti non sarebbero serviti e nemmeno altre lacrime.

Però una sera sono entrata comunque in cucina per il solito saluto della buonanotte. La mamma non piangeva più. Seduta davanti alla tv con i piedi sulla seggiolina, aveva la fronte corrugata di chi già da minuti stava rimuginando su un pensiero preciso e sgradevole. 

Con una certa cautela mi sono avvicinata a lei, l'ho abbracciata e discretamente l'ho baciata sulla guancia magra.

Stavo quasi per allontanarmi quando l'ho sentita dire: "Voglio il divorzio".

Rammento di essere rimasta lì accanto a lei qualche istante, atterrita. Ma come? Ma perché? Papà aveva sbagliato, certo, o comunque non aveva capito la gravità della situazione, d'accordo, ma addirittura il divorzio. E io? E noi? Possibile che tutto dovesse finire così?

L'episodio mi è tornato in mente ieri, sentendo la rassegna stampa mattutina sulla radio, un'abitudine di famiglia ereditata dal nonno paterno che non ho mai più perso.

Fino a poco tempo fa anche mio padre la ascoltava sempre, non di rado a un volume piuttosto alto, negli anni più recenti, da suo lettone di vedovo. 

La mamma no, la mamma guardava la televisione, non rammento di averla mai vista armeggiare con manopole e frequenze. Se fosse stata ancora tra noi, forse avrebbe visto in tv qualche servizio sui cinquant'anni dalla legge sul divorzio, l'anno in cui era incinta di me.

Chissà che cosa ne pensava ai tempi, chissà che cosa ha votato, quattro anni dopo, al referendum. 

Di nostro padre parlava di tanto in tanto come di un uomo bravo, intelligente e serio, lodandolo particolarmente per le sue qualità di padre. "Quello che dite voi, per vostro padre, è legge", asseriva. Di solito tirava fuori questo discorso mentre era impegnata in qualche attività domestica, nello specifico mentre spazzava, ed io, a volte vagamente annoiata, ma in verità registrando ogni sua parola, l'ascoltavo dal piccolo divano dello studio, con un libro in grembo.  

A sentirla parlare, insomma, il suo era un matrimonio riuscito, anche se ripetutamente a me e mia sorella ha detto che il vero collante che tiene in piedi qualsiasi unione, all'epoca sua come ai tempi in cui abbiamo messo famiglia noi figlie, è la donna.

Credo, sinceramente, che avesse ragione, anche se, almeno lei, ha lasciato che nostro padre gestisse i conti e altre attività storicamente considerate maschili, mentre lei, pur lavorando, ha voluto mantenere il controllo della casa e della nostra educazione affettiva. Per quella intellettiva, da un certo momento in poi, ci ha pensato invece papà, spinto dal grande desiderio di farci studiare, un'attività per la quale lui stesso era molto portato, come ribadiva sempre la mamma.

E dire che lei ha insegnato, aiutando a crescere generazioni di bambini, con una passione pura e vitale, che oserei definire violenta, in certi istanti. La mamma non amava le mezze misure, anche se all'esterno, soprattutto negli anni più maturi, fingeva una pacatezza per la quale spesso l'ho presa in giro.

Se non fosse stata così, così passionale e assoluta, intendo, non avrebbe detto mai quella frase, davanti a me diciannovenne, intontita e sognatrice com'ero.

A pensarci adesso, in queste ore in cui mi appare davanti con i gatti sulla schiena e gli occhi che le si chiudono dal sonno, sono contenta di aver vissuto quel momento. Quello squarcio di verità di donna offesa, ancora giovane, ancora forte e in grado di conquistare tutti, donne e uomini, con la sua bella figura e la sua autorevolezza.  

Chissà come hanno fatto pace, chissà se papà le ha chiesto scusa, chissà in che modo l'avrà fatto, considerando la sua dolce goffaggine di uomo poco abituato alle smancerie. 

In ogni caso sono rimasti insieme fino alla fine, ma temo che non sapremo mai quanto sia stata dura, per papà, vederla andarsene giorno dopo giorno.

Non ho mai pensato davvero che avrebbero divorziato, mai più, almeno, dopo quella volta. 

Non so che cosa avrei fatto né come sarebbe stata la mia vita se fossi stata figlia di genitori separati. So invece com'è stato essere una figlia amata, una figlia che ha fatto fatica a crescere e che oggi fa fatica ad invecchiare.

Sono però grata a tutti e due per come erano e come saranno per sempre, diversamente ansiosi, ugualmente pratici, leggeri, pesanti, attenti.

Grazie, mamma, per essere sempre con me, con noi. Ti aspetto presto, davanti a me, dentro di me. Intorno a me.

E tu, papà, resisti. Pure io lo farò. Per te e per me. 

sabato 14 novembre 2020

Vienna e i cestini dei rifiuti in arancio: "bennezza" geniale!


 

Credo di aver notato questo cestino della spazzatura già dal mio primo giorno a Vienna. Anche se adesso viene, ahinoi, utilizzato per indicare le zone a contagio Covid un po' più alto, l'arancione è un bellissimo colore

A me, comunque, piace un sacco, e soprattutto in questa città, dove il cielo è in prevalenza grigio, trovo assolutamente sensato l'uso di un colore acceso per invogliare i cittadini a gettare i rifiuti nel posto giusto.

Nel mio subconscio, doveva avere insomma fatto centro quella scritta là, Hasta la mista, dal sapore spagnoleggiante. Ai tempi, però, di sicuro non avevo fatto caso al gioco di parole.

Dubito infatti che le reminiscenze piuttosto sbiadite del tedesco mi bastassero per ricordare che Mist, auf Deutsch, significa spazzatura

O meglio: è una delle molte parole adoperate in tedesco per indicare la monnezza, "mista", per l'appunto, di materiali di non meglio comprovate origini.

A dirla tutta, il mio Langescheidt online Tedesco - Italiano e viceversa traduce la sopradetta parola con "letame" o "porcheria". E non pensate che si tratti di metafore, no no: il Duden Deutsch - Deutsch parla proprio di Vermischte Exkremente, un'espressione che non credo abbia bisogno di ulteriori spiegazioni. 

Ma, a questo punto, qualcuno di voi forse si starà chiedendo: sì, ma a noi che ce ne cale?

Poco, probabilmente. Epperò la storia che c'è dietro questi arrotondati e colorati cestini dei rifiuti, e delle molte scritte che si vedono qui è là per Vienna, è molto simpatica (direi proprio geil, più o meno l'equivalente di cool...) e io ve la voglio raccontare.

Ho bisogno di più input

Ad idearli e installarli ci ha pensato il Magistrat 48, ossia il dipartimento della città che si occupa della gestione dei rifiuti, oltre che della cura del verde urbano.

"Hasta la mista" è insomma solo la punta dell'iceberg di un servizio che occupa presumo diverse centinaia di persone che, con le loro ramazze e bidoni a rotelle, raccolgono cartacce & monnezza varia e spazzano via le foglie dalle piste ciclabili che ho percorso ogni giorno in questi mesi diretta al corso di tedesco. 

Oltre a loro, ci sono gli addetti appesi ai camion, pure questi ultimi muniti di scritte. Negli ultimi tempi li ho incrociati spesso, qualche volta anche sbuffando per l'odore non proprio di rosa che esce fuori dalla loro enormi bocche di lamiera. 

Il fastidio odorifero è però terminato il giorno in cui mi è apparso LUI, il camion dico, più figo della storia della nettezza urbana:


Impossibile non far caso alla faccina sorridente, e contemporaneamente, stavolta sì, anche alle parole, vista la rinfrescata nel frattempo sopravvenuta (ma sempre in corso) alla lingua tedesca.
"Rimanete ottimisti - dice la scritta - ci curiamo noi della vostra spazzatura". La traduzione, in verità, non è letterale.

Più precisamente avrei dovuto scrivere: "Rimanga Un ottiMISTA. Ai Suoi rifiuti ci pensiamo noi".

E' chiaro, però, che in italiano la scritta non funziona. Nella nostra lingua avremmo bisogno di un altro gioco di parole, uno in cui, che so, far suonare insieme monnezza e bellezza.

Ma adesso non mi viene in mente e poi non c'entra. 

E invece, a pensarci bene, c'entra, considerando il sistema scelto dal Magistrat 48 per selezionare le varie scritte attaccate ai cestini.

Le origini della fortunata iniziativa risalgono addirittura al 2009, anno in cui il dipartimento viennese ha coinvolto nella gestione della comunicazione un'agenzia di pubblicità, che ha utilizzato la chiave umoristica per sensibilizzare la popolazione al rispetto del decoro cittadino. 

A raccontarmelo, è stata un'addetta alle relazioni con il pubblico del Magistrat 48, che molto gentilmente ha risposto alle mie domande (in tedesco, natürlich!).

L'exploit delle scritte più originali è stato raggiunto nel 2015, quando il dipartimento viennese ha chiamato in causa direttamente i cittadini, invitandoli a mandare idee per nuove frasi. Al concorso hanno partecipato anche i dipendenti del Magistrat: i migliori giochi di parole sono stati individuati con un voto online. 

Sempre nel 2015 - ha precisato l'impiegata - il Magistrat ha pensato di cavalcare l'appuntamento dell'Eurovision Song Contest, qui molto più seguito che in Italia. Un'analoga strategia è stata seguita l'anno dopo, in occasione degli Europei di calcio:



Stessa cosa è successa quest'anno con l'esplosione della pandemia. Le mascherine chirurgiche, si sa, non sono riciclabili, difficile peraltro ironizzarci sopra. In qualche maniera il Magistrat ci ha provato con questa scritta qua:



La frase è in "wienerisch", il dialetto viennese. Io l'avevo tradotta con "le vecchie maschere appartengono ai secchi", cioè vanno buttate nei cestini, non per strada, ma la mia preziosa amica bulgara poliglotta mi ha appena scritto che no, si traduce più semplicemente con: "Le mascherine usate vanno buttate!". Che, come dice lei, fa pure rima :)

Non so bene quanto siano efficaci le frasi nell'idioma locale, ma comincio a credere che lo siano eccome, a giudicare dal discreto di numero di cestini in wienerisch che man mano vado scoprendo:


Per la frase sopra, contrastano alquanto le traduzioni offertemi dall'amica poliglotta e dal cognato tedesco, che pure non scherza quanto a competenza linguistica.

Facendo una mediazione tra i due, opterei per una salomonica traduzione: "Fai centro!", intendendo con questo: "Butta i rifiuti e le tue cicche nel posto giusto!".

Non me ne vogliano i puristi germanofili, ma oggettivamente l'è dura.

Andando avanti, un paragrafo a parte di questo mio viaggio nei "magistrali" cestini è rappresentato da quelli con scritte in tedesco "hoch", come a dire in italiano-italiano, ma comunque fortemente evocative:


Bel colpo! 😅


Prego, nutrire 😉

Alcune, personalmente, le trovo un po' troppo sibilline, ma pensando, per esempio, ai nostri comici preferiti (ognuno avrà il suo), non tutte le loro battute ci fanno sempre spanciare dalle risate. O no?


"La posso liberare di qualcosa?" 

"Buco nero cerca materia di scarto"... più o meno si traduce così!

Insomma, l'idea è forte, la realizzazione anche, al punto che anche altre città, come Berlino (vedi cestino sotto), Amburgo e Innsbruck, hanno seguito l'esempio di Vienna, sempre stando a quel che mi ha detto l'impiegata del Magistrat 48. 


Wow wow! Fantastico come abbiate impacchettato il "manufatto"  
dei vostri quattrozampe e l'abbiate smaltito da noi! 😆

Ora che guardo meglio il cestino berlinese, mi accorgo di un dettaglio che avevo tralasciato, da non fumatrice quale sono. 

Anche i cestini viennesi sono dotati di un apposito sotto - cestino per le sigarette

Ecco, forse è stato proprio quel tubo cilindrico bianco, culminante con il filtro arancione (munito anch'esso di scritta che ora non decifro), a colpirmi già dal mio primo giorno a Vienna.

All'inizio, insomma, potevo credo già apprezzare la finezza di una frase come questa



"Sono dei geni", diremmo la mia amica poliglotta ed io, guardandola.

Solo lei poteva peraltro scovare questo:

Anziché "Rest" o "Mist", il Magistrat in questo caso ha usato il sinonimo Müll. Il gioco di parole è oggettivamente da Nobel: 

"Sarei volentieri un Mullionario". Applausi, sipario.

Tra un attimo, bitte.

Sì, perché mi resta l'ultimo, fondamentale cestino, scovato nemmeno dieci giorni fa a due passi da casa mia:


Quando si dice il caso o il destino, eh?

Buona monnezza a tutti! :)

venerdì 6 novembre 2020

Vielen Dank, Vienna e... #schleichdichduoaschloch!

 




Poco fa un amico mi ha segnalato un pezzo uscito sul Resto del Carlino, cronaca di Fermo, con il mio post precedente. Ho autorizzato io la collega a saccheggiarlo liberamente, per cui mi becco, diciamo così, il momento di gloria e vado avanti.

Avevo scritto quelle parole a caldo, dopo una notte pressoché insonne e una profonda tristezza nel cuore. 

Nel frattempo, sono successe alcune cose personali direi anche belle, viste le circostanze che le hanno generate.

Ho potuto seguire molto da vicino la cronaca del giorno dopo e di quello dopo ancora, coinvolta da un giornalista della Rai, che aveva bisogno di aiuto con il tedesco, fondamentalmente. 

Grazie a questa inattesa occasione di lavoro, sono riuscita ad entrare, forse per la prima volta un po' meglio, nello spirito di Vienna.

La capitale della verde Austria e i suoi abitanti sono spesso scontrosi, all'apparenza possono risultare piuttosto distaccati, due caratteristiche difficili da digerire, soprattutto per noi italiani del sud. 

Per fortuna, sono anche altro.

Sono anche quelli che hanno risposto immediatamente all'assassino, urlandogli da una finestra: "Vattene via, stronzo!".

La frase "Schleich di, du Oaschloch!" è stata pronunciata in viennese stretto. L'avevo anche fotografata con la mia Nikon, ma non l'avevo capita.

Il cognato tedesco mi ha spiegato che corrisponderebbe più o meno al romano "vatteneammorìammazzatoastronzo!".

Ecco: quella frase lì è diventata virale. Si può proprio considerarla come la versione viennese di #jesuischarliehebdo

Personalmente, la preferisco alla frase francese, perché incarna alla perfezione, a mio parere, l'immagine di una città e di un popolo, schivo sì, a volte provinciale, certo, ma disponibile ancora ad accogliere tutti, oltre ogni razza, religione e appartenenza politica.

In questa città così lontana dall'Italia (provate a venirci in macchina o in treno: vi accorgerete di quanto sta in culo al mondo), si può vivere benissimo, a patto di rispettare le regole. Poche e semplici regole, come pagare le tasse, i mezzi pubblici e l'affitto. 

Per il resto, vivi come vuoi, ti dice lo Stato, e te lo ribadiscono i partiti, anche quello di centro-destra del giovane Cancelliere Sebastian Kurz e del ministro dell'Interno Karl Nehammer, che qualche giorno fa avevo preso in giro con mio marito, per la sua idea di controllare gli ingressi dei migranti irregolari con i droni.

Nessuno dei due, né tantomeno il presidente della Repubblica Alexander Van Der Bellen, né il sindaco di Vienna, Michael Ludwig, hanno alzato la voce l'uno con l'altro. Certo, qualcuno ha parlato di falle nei Servizi Segreti e ha invocato una rapida riforma della giustizia, ma il tutto si è svolto con i toni civili tipici di un popolo orientato al fare. 

Nonostante il Covid e il peso dell'incertezza mondiale, qui si immagina ancora il futuro. 
A Vienna vivono molti giovani di nuova immigrazione di ogni nazionalità. Numerosi sono anche gli anziani, verso i quali già dal primo lockdown le istituzioni hanno mostrato massima attenzione.

Una ferita come questa, certo, non si rimargina solo con uno slogan virale, ora riproposto su magliette e altri gadget (comprese le nostre ahinoi ormai abituali mascherine), ma quello slogan racconta l'orgoglio di chi sa di aver costruito tanto, al punto da guadagnarsi per ben dieci anni di seguito il titolo di città dalla migliore qualità della vita.

I più informati (tipo il direttore di Die Presse, Rainer Nowak, intervistato dal giornalista del Tg2) dicono che ci si aspettava da un momento all'altro che un orrore così potesse succedere.

Altrettanto non inaspettata, forse, è anche la reazione dei viennesi per chi la conosce meglio.

Ma io sono qui da poco, per cui non potevo sapere. Non potevo immaginare quanto mi sia già nel profondo affezionata a questa città, quanto mi piaccia attraversarla in bicicletta e farmi sorprendere dalle sue strade solo all'apparenza ordinate. 

Per questo voglio ringraziarli dello slogan, e non solo di questo.

Grazie, Vienna, grazie, viennesi, per avermi ricordato quanto sia fondamentale difendere la nostra dignità, personale e nazionale.



martedì 3 novembre 2020

C'era una volta Vienna




 La chiamavano la città dalla migliore qualità della vita. Sono, erano dieci anni che Vienna continuava a restare in vetta alle classifiche internazionali che analizzano le condizioni più favorevoli di esistenza per il lavoro, l'ambiente e la sicurezza. L'ultima volta è successo solo nel febbraio di quest'anno. Praticamente un secolo fa, considerati tutti gli avvenimenti di questo lungo, assurdo e doloroso 2020.

Tutto questo, ieri sera, mentre lavavo i piatti, è finito.

D'ora in avanti Vienna sarà una normalissima capitale europea, come Parigi dopo il Bataclan e Charlie Hebdo, come Berlino e Strasburgo dopo gli attacchi ai mercatini di Natale, dopo e prima la decapitazione del prof Samuel Paty e le vittime di Nizza. Tra queste ultime c'era anche il sacrestano Vincent Loquès, 54 anni. Quando l'abbiamo saputo, con mio marito abbiamo riso amaramente, visti i contatti di lavoro che abbiamo, lui in particolare, con la Chiesa italiana di Vienna. La bellissima Minoriten Kirche, che ospita una pregevole riproduzione sotto forma di mosaico del milanese Cenacolo di Leonardo, si trova a due passi dai luoghi degli attentati di ieri sera. Noi, per fortuna, abitiamo a mezz'ora di bicicletta, nostro unico mezzo di trasporto dall'arrivo della pandemia.

A proposito. La pandemia e il lockdown scattato proprio alla mezzanotte tra ieri e oggi.

Gli attentatori sono come attori. Sanno quando entrare in scena e quando ritirarsi, lasciandosi dietro, non il fragore degli applausi, bensì lacrime e terrore.

Tutti, ormai, avranno guardato i numerosi video che circolavano già pochi minuti dopo i primi spari (qualcuno li aveva presi per fuochi d'artificio). Ce n'è uno particolarmente agghiacciante, girato immagino da un balcone. Negli stessi istanti la Polizia viennese pregava i cittadini di non condividerli assolutamente, ma nel frattempo i miei occhi avevano già visto il sangue sul ginocchio di un ferito e ascoltato le urla di chi stava scappando in cerca di un riparo.

Mentre scrivo queste righe, la caccia ai terroristi sta continuando. I quotidiani austriaci e la Orf, l'equivalente della nostra Rai, parlano di 17 feriti gravi e 5 morti, compreso uno degli attentatori. Non è ancora chiaro se l'obiettivo del primo attacco fosse davvero la Sinagoga di Seitenstettengasse. Di uno degli attentatori si sa che fosse un simpatizzante dell'Is, una notizia che ha spinto la Comunità musulmana dell'Austria ad esprimere immediatamente la propria vicinanza alle persone rimaste coinvolte nei tragici avvenimenti di queste ore.

Man mano si saprà tutto quello che c'è da sapere e, spero, man mano tornerà il silenzio.

Quel che non tornerà più, purtroppo, è l'immagine che finora più o meno tutti avevamo di questa città.

Una capitale che non ha nemmeno i tornelli alla metropolitana, una città dove ci si sposta che è una bellezza da un punto all'altro, un centro di due milioni di abitanti che spesso sembrava poco più di un paesone, soprattutto durante il Wiener Wiesn, l'equivalente austriaco dell'Oktober Fest, e durante i turistici mercatini di Natale.

La magica, fiabesca atmosfera ottocentesca che si respira in ogni statua del meraviglioso parco di Schönbrunn, in ogni siepe ingiallita dall'autunno, in ogni rosa del romantico Volksgarten, altro luogo che ho imparato ad amare, non c'è più. Non ci sarà mai più.

Certo, tutto passa, anche il Covid 19 finalmente un domani ci lascerà tranquilli di reinfettarci come ci pare, ma ieri è cominciata una nuova fase anche qui, nella ex capitale imperiale, l'ultimo avamposto pacifico, rassicurante e un po' provinciale della nostra Vecchia Europa.


sabato 24 ottobre 2020

Vivere all'estero - genesi ed epilogo di un esercizio di tedesco

Lo so, continuo a violare l'Abc della comunicazione online, ma direi che a quasi cinquant'anni me lo posso anche permettere.

Dopo questo incipit garrulamente sarcastico, aggiungo una breve precisazione sull'immagine sopra riportata, fitta di oscure parole germaniche.

Si tratta di un esercizio di scrittura, che mea sponte ho voluto ammannire al prof di tedesco. Mancano ormai poche settimane alla fine del mio secondo e presumo ultimo corso di questo splendido 2020, per cui ho deciso di farlo fruttare finché Corona non ci separi.

Eh sì, perché non è mica detto che riusciremo a concluderlo in presenza, vista la crescita di casi persino nella Felix Austria, dove la gggente ha fatto scorta come ogni fine settimana di birre&carta igienica, felice stavolta di avere un giorno più per sfondarsi.

Mi spiego meglio: qui lunedì è la Festa della Repubblica, ossia tutto chiuso e sbarrato a partire dalle 18 di oggi fino a martedì prossimo, un lungo auto lockdown che farà impazzire di gioia prima i consumatori seriali di lattine, dopo l'efficiente (speriamo) sanità nazionale.  

Scusatemi, ma una volta che mi parte la vena sarcastica, faccio fatica a controllarmi.
Torno al punto. 

In vista della lezione di ieri, il prof ci aveva chiesto di riflettere sul tema "Vantaggi e svantaggi di vivere all'estero". L'argomento era stato scelto democraticamente dalla classe. Ognuno di noi avrebbe dovuto indicare quali fossero i personali Pro e Contro e da lì, sempre secondo il prof, avremmo dovuto "streiten", discutere.

Bene: pur se dotata della vena sarcastica di cui blateravo poco fa, non amo molto i dibattiti, forse per via della mia piccola voce. Perché è sicuro che a un certo punto di qualsiasi scambio di pareri, anche del meno acceso, intendo, finirà per predominare chi parla più forte.

Nella mia classe, ad esempio, c'è un russo, simpaticissimo, brillante e ironico come pochi, che però, ahimè, non è capace di modulare il tono. Il suo banco monoposto (senza rotelle) è nella fila dietro la mia e, a occhio e croce, tra noi ci saranno almeno due metri. 
Eppure: ogni volta che parla, è come se mi condannassero a stazionare nei pressi della mia lavatrice quando parte la centrifuga. Provate un po' voi a sovrastare il suono di una centrifuga rumorosa. Io, di certo, non gliela fo.

Quindi, con sano e demodé spirito pratico teatino, ho buttato giù i miei "Vorteile" e "Nachteile" dello stare in Austria, in maniera anche da avere una traccia scritta, in caso di necessità.

Il russo di cui sopra ha vissuto in vari Paesi, quindi la sua visione non poteva che differire totalmente non solo dalla mia, ma anche dalla maggioranza del resto della classe.

Di certo, ascoltandolo (in silenzio, aspettando che tacesse per potergli fare delle domande senza rischiare di compromettere le corde vocali), ho capito che di sicuro non potrei vivere né in Svezia né in Norvegia. "Troppo freddo, mica come qui a Vienna?", ha detto il nostro biondissimo giramondo.

Insomma, alla fine non c'è stato un vero dibattito: anche se non tutti abbiamo esattamente la stessa idea dell'Austria, ognuno ha potuto raccontare la propria esperienza, in un'atmosfera distesa, benché sottilmente malinconica. 
 
A dirla meglio, ho avuto proprio l'impressione che tutti, compresa io, volessimo farci forza a vicenda ascoltando il racconto dell'altro.

Il vantaggio principale?
Imparare una lingua nuova. E' incredibilmente arricchente e tiene il cervello in allenamento, ha detto mi pare la sveglia giovane mamma rumena. La sua vicina di banco, una dolcissima trentenne di origine bulgara, molto più minuta di me, ha aggiunto che vivere all'estero aiuta ad "allargare gli orizzonti". Gliel'avevo già sentito dire, ma stavolta mi ha fatto ancora più simpatia, perché ho pensato alla fatica che sta facendo per mantenersi, lavorando nella cucina di un pub, tra austriaci che le parlano in dialetto.

"Qui c'è la sicurezza", ha precisato la giovanissima afgana, la mia vicina di banco velata, due occhi da principessa mediorientale, che ha parlato di quanto sia stato difficile all'inizio, circa due anni fa, capire e farsi capire. Nonostante qualche sguardo critico rivolto al suo capo coperto, dice che Vienna le piace perché è piccola (!) e piena di cultura e natura.

Il principale svantaggio?
La distanza dagli affetti, dalla famiglia in particolare, più che dagli amici. Di questi ultimi, la giovane mamma rumena ha raccontato di come i suoi siano spariti, dopo un po' che si era trasferita. "Eppure ci sono le tecnologie, potremmo sentirci facilmente - ha precisato - ma evidentemente non erano interessati davvero a me". 

Per la lontananza dalla famiglia soffre molto la giovane mamma moldava, la Miss della classe, dotata di un incantevole visino di porcellana. Con una voce se possibile ancora più flebile della mia, ha detto che le manca la vita che faceva nel suo Paese (che ho scoperto essere un grande produttore di vino, grazie a un altro esercizio che ci aveva assegnato il prof). Le manca sua madre, ha sottolineato, e poi, povera, l'infanzia che ha trascorso lì.

Per chi ha figli, come lei e qualcun altro, ho l'impressione che possa essere ancora più complicato interagire con i nativi. 
Il vicino di banco della moldava, un cantante lirico rumeno molto amabile e scherzoso, ha parlato dei gruppetti di bambini che giocano rigorosamente divisi per nazionalità, come ha potuto osservare quando accompagna suo figlio al parco. 

Razzismo in Austria? Il tema è stato solo sfiorato, ma nessuno, in effetti, ne ha parlato apertamente, forse perché è sempre troppo vivo in tutti gli Ausländer, che cercano di costruirsi una nuova vita, il ricordo delle file dal Magistrat per farsi rilasciare i documenti, la scortesia di alcuni impiegati, i controlli di polizia, presumo più severi per i non europei. 

Tutto liscio, nessuna polemica? Direi di no. C'è stato però un solo intervento, quello del giovane istruttore subacqueo egiziano, che ha asserito, piuttosto lapidario: "Integrazione? No, grazie: non ne ho bisogno". 

Che cosa voleva dire?
Nulla, o per meglio dire, tutto.
Quando era ancora al Cairo, ha raccontato, si è sentito non di rado un "Außerseiter", ossia uno che stava da un'altra parte, uno fuori dal coro. 

"Anziché parlare di come gli austriaci vedono gli stranieri, ognuno di noi si dovrebbe chiedere: ma quando vivevamo a casa nostra noi personalmente quanti stranieri conoscevamo?", ha sottolineato, "quanti, voglio dire, erano nostri amici intimi? E non parlo solo degli stranieri, ma anche degli altri 'diversi', omosessuali, trans e via dicendo. Che cosa vuoi che conti la razza? Wir sind alle Tiere!".
Che significa: "siamo tutti animali". 

Il giovane egiziano ha due occhi neri neri e una parlantina molto vivace. 
Non è felicissimo dell'Austria, me l'ha detto a parte una volta, durante una pausa, ma evidentemente l'origine del suo scontento non ha niente a che fare con la razza, la sua e quella di chi ci ospita. 

E in effetti, riflettendoci, gli dò ragione.

Se dovessi riassumere in una parola qual è il sentimento che accomuna tutti noi espatriati, userei spaesamento.

Prima o poi lo proviamo tutti. Per qualcuno non va via facilmente, altri lo mettono a tacere pur avvertendolo sempre almeno un po'. Altri ancora, i più fortunati, dal mio punto di vista, smettono di soffrirne. 
E si sentono finalmente a casa.

Non so dirvi se mai succederà anche a me, tenendo conto anche delle ragioni che mi hanno spinta fin qui. 

Però, come ho scritto nell'esercizio, sufficientemente diplomatico per essere diffuso nell'universo telematico (per chi riuscirà a decifrarlo: apropos, riporto la versione corretta dal prof. Se ci sono errori residui prendetevela con lui!), sono curiosa di vedere che cosa mi riserva il futuro.

Ma la cucina austriaca non mi piacerà mai! 
 
Scommettiamo?
;) 

martedì 13 ottobre 2020

Auf Wiedersehen, Italia


 

Lo ammetto. Me lo sentivo che stavolta non ce l'avrei fatta, ma evidentemente la vita ha in serbo per me nuove sorprese. Belle, coinvolgenti e concrete sorprese. Voglio crederlo ciecamente.

Sto parlando della preselezione del Concorso Rai, la seconda sostenuta negli ultimi cinque anni. La prima mi era andata meglio: ero riuscita a superarla, piazzandomi alla fine di quella lunga cavalcata 210ma sugli iniziali circa tremila partecipanti.

Stavolta concorrevo per le Marche, quindici erano i posti in palio su circa 270 vincitori da distribuire anche in altre regioni.

Come i partiti di quattro gatti che non riescono a superare la soglia di sbarramento alle elezioni, ecco, stavolta pure io sono stata segata. E il bello che ho anche capito perché, anche se fino a mezz'ora fa ho sperato nella classica botta di deretano imprevista.

Non ho risposto a dieci domande volutamente, perché la risposta sbagliata sarebbe stata valutata negativamente, mentre quella non data avrebbe avuto solo zero. Avevo fatto così anche l'altra volta, solo che l'altra volta, probabilmente, ne avevo tralasciate di meno. 

Che cosa mi ha fregato? La Storia dell'arte, la mia amatissima quanto sconosciuta Storia dell'Arte (due erano di una facilità sconcertante, ma in quel momento avevo il vuoto totale). E poi le altre, paradossali, sul contratto giornalistico 2013-2016.

Quando le ho lette, quasi non ci potevo credere. Mi era balenato il dubbio che me lo dovessi rileggere, ma ripassando per l'ennesima volta tutto il ripassabile, ho ritenuto - errando - che un contratto scaduto già da quattro anni non potesse essere una valida materia d'esame. E invece lo era e io sono una fessa.

Una cosa simile mi era successa all'esame di Diritto Privato all'università. Era il mio terzultimo esame, avevo aspettato a lungo prima di darlo, ma non volevo lasciarlo proprio alla fine per evitare di arenarmi a un passo dalla laurea.

Da brava studentessa avevo frequentato tutto l'inverno il seminario della prof, una specie di Cerbero in gonnella piena di capelli grigi. Facevo anche domande, esattamente come mi succede adesso al corso di tedesco. Ero così "fleißig", come si dice qui dei secchioni.

A ridosso della prova, mi capitano sott'occhio gli appunti su un argomento molto specifico (ricordarselo adesso, quasi trent'anni dopo, sarebbe inquietante) e io mi dico che no, non valeva la pena riguardarselo, figuriamoci se me lo chiedono.

E invece il grigiocerbero lo tira fuori. Ricordo bene le mie gambe irrigidite sotto la scrivania, e, non so perché, totalmente divaricate, in una posizione oserei dire ginecologica. Comincio a rispondere arrampicandomi sugli specchi, aiutandomi con la mia una volta proverbiale memoria fotografica.

Casco argenteo non abbocca, capisce che ce sto a provà e infatti mi fa osservare l'incompletezza delle mie argomentazioni.

E lì viene fuori lo spirito un filino polemico e paraculo che ogni tanto si affaccia sul mio faccino raggrinzito. "In effetti - oso dirle - l'argomento non era molto chiaro neanche durante il seminario".

L'occhialuta creatura dantesca si agita vagamente sulla sedia e ribatte: "Signorina, sia seria, non usi questi mezzucci da leguleio. L'ho vista a lezione, per cui le offro 23. Che fa, accetta?".

Ma certo che accetto. Vielen Dank, professoressa Rottemeier e a mai più rivederci.

Ecco. Se mi avessero dato la possibilità di parlare, avrei fatto notare il paradosso di chiederci qualcosa sul contratto che, diciamolo, è diventato come l'Eldorado per i cercatori di pepite. 

Però, obiettivamente, come l'argomento che non avevo ripassato all'epoca, ci stava qualche domanda sul mezzo con cui, bontà loro, i novanta colleghi cominceranno un domani il loro percorso professionale da Mamma Rai. Sperando, tra l'altro, che nel frattempo lo rinnovino. Finalmente. 

Un po' più paradossali le domande sulle Marche, più adatte - a ridaje il leguleio e i suoi tristi mezzucci - agli studenti di Beni Culturali che a noi (leggi: a me) eruditi a metà.

Insomma, non è andata.

Mi consola, parzialmente, vedere tra gli ammessi molti giovani, gente, intendo, nata tra il 1991 e i secondi anni Ottanta. 

A loro auguro lunghe e felici carriere, sperando che un domani si ricordino di noi vecchietti che abbiamo pagato l'iscrizione all'Ordine, i contributi all'Inpgi2 (e io per brevi, fortunati periodi anche all'Inpgi) per anni, confidando che un giorno il vento sarebbe girato.

E' già da tempo che non credo più che il giornalismo fosse davvero la mia strada. L'ho amato molto, moltissimo, tutte le volte che ho potuto scrivere anche una sola riga e persino in quest'ultimo mese, in cui mi è toccato rispolverare manuali e leggi professionali, come quasi vent'anni fa.

So bene però qual è il motivo che mi ha portato a Vienna e credo di aver fatto la scelta giusta, nonostante la delusione lavorativa iniziale.

E adesso che succederà?

Keine Ahnung. 

O meglio. Intanto finisco il corso di tedesco (apropos, come dicono qui: giovedì ho la simulazione dell'esame finale. Mortaccen, devo studiare).

Dopodiché (direi nel frattempo) continuerò a cercare un lavoro, come fanno tutti, come fa chi sa che, comunque andrà, andrà bene.

Punto e a capo. 

Auf Wiedersehen, Italia. 



domenica 2 agosto 2020

Sospensioni d'agosto


Non ho mai fatto il bagno nel Danubio e credo che anche per quest'anno passerò. A dirla tutta, non amo molto nemmeno la piscina: mi secca assai l'idea che debba mettermi a nuotare per forza, un attimo dopo essermi pucciata in acqua. 
Ma quanto può essere brutto il verbo che ho appena usato?
Tra l'altro il correttore me lo segna come errore.

Tant'è.

Amo entrare in acqua un poco alla volta. Noi gente dell'Adriatico, d'altra parte, siamo fatti così. Siamo viziati. Vuoi mettere il piacere che si prova a starsene a riva, i piedi appena appena in ammollo, poco dopo i polpacci, le ginocchia, le cosce e poi, alt: per il bacino e la pancia, beh, che fretta c'è. Prima camminiamo un po'.

Ecco: se fossi al mare in questo momento, approfitterei del grigiore della giornata per andare un po' avanti e indietro in quell'acqua magnificamente brodosa, così vituperata dai troppi connazionali che si lagnano per le meduse e il clima tropicao di questi ultimi anni. 

Per carità, a chi piace l'idea che potremmo ritrovarci tutti appassionatamente in una vignetta dei Peanuts insieme con Spike, il fratello di Snoopy che parla con i cactus. 
Nell'attesa dell'Apocalisse prossima ventura, consiglierei però a tutti di fare un salto in una qualsiasi città del Nord Europa con analogo clima lattiginoso ma puzzolente come una discarica per via della mancanza di acqua e brezza marina. 

Che poi un altro effetto del riscaldamento climatico, almeno credo, ma bisognerebbe chiederlo al pacifico Luca Mercalli o all'altrettanto bonario meteorologo di La7 che ora non ricordo come si chiami, è che si passa in poche ore dal forno crematorio alla bufera artica. La sottoscritta, per dire, si è beccata l'altra sera un "Gewitter" epocale, mentre tornava in bicicletta dalla palestra.

Non sono esattamente Jack London, per cui non nascondo di essermela abbastanza fatta sotto, pur essendo riuscita a rifugiarmi appena in tempo sotto lo squallido androne di un negozio di telefonia (era sera: l'ho capito solo qualche giorno dopo dove diavolo mi fossi andata a rintanare). 

Prima di decidermi a proseguire fino a casa, ho potuto osservare la potenza dei fulmini che illuminavano il cielo a giorno e la massa d'acqua spostata dal vento, a sua volta mostrata in tutta la sua imponenza dai lampioni. 
Il giorno dopo, però, non è che avesse granché rinfrescato. 

E così mi sono decisa ad andare in piscina. "La piscina" per eccellenza, per quanto mi riguarda, almeno finora.
Sto parlando del magnifico spazio all'interno del parco di Schönbrunn.

Posso contare sulle dita di una mano le volte in cui ci sono stata: l'anno scorso ci ho portato anche il Bipede, in un'analoga giornata di calura e con analoga nostalgia adriatica.

Per fortuna ho trovato un lettino libero a bordo vasca, un miracolo autentico, considerata la folla di gente di ogni età che aveva avuto la mia stessa idea su come passare un sabato pomeriggio d'estate. 

Nella prima mezz'ora ho tentato di leggere e prendere il sole, ma proprio come mi succede al mare, alla fine ho girato il lettino verso la vasca e mi sono messa a guardare i bagnanti. 

L'età era varia, molte panze al vento come in Italia, vari palestrati, qualche ragazza caruccia, meno i ragazzi, e poi quella donna non più giovane, con un viso da cinema incorniciato dai capelli bianchi raccolti, che si è appoggiata al bordo per riposarsi un po'.

Per un attimo ho temuto che fosse in difficoltà, e invece, eccola lì, che sguscia via placida e agile tra i corpaccioni in verticale con occhiali da soli annessi. 

Non volevo bagnarmi subito, troppa gente in acqua, troppo poco lo spazio tra la scaletta e i ragazzotti ai lati. E poi da lì dovevo nuotare subito e, ve l'ho detto, io sono viziata.

Così ho fatto prima una doccia, dopo un po' ho bagnato le gambe sulla scalinata della vasca per i "nichtschwimmer" e però avevo gli occhiali da sole e no, non potevo bagnarmi la testa. Allora li ho poggiati sulle ciabatte e splash. Si fa per dire.

Ho sguazzato per pochi minuti. Vicino a me una giovane mamma giocava a palla con i suoi piccini.
Che cosa avrei pagato per essere uno di loro. Almeno avrei avuto un'ottima scusa per usare il tukano che vedete nella foto.

L'ho comprato l'anno scorso, un po' per gioco un po' sul serio.
Avevo pensato che per fare il bagno nel Danubio mi ci sarebbe voluto un supporto di salvataggio. Per i braccioli, beh, sarei stata piuttosto fuori età, ma il tukano, o meglio ancora il flamingo rosa, vanno tanto di moda: chi mai avrebbe avuto da ridire se una signora se ne fosse avvalso per tenersi a galla?

Fatto sta che non sono riuscita ad usarlo. 
Ai tempi lavoravo e i giorni liberi quasi mai coincidevano con il meteo favorevole. A settembre siamo tornati in Italia, ma me lo sono scordato qui a Vienna. E pazienza: tanto nel mio mare non ne avrei avuto bisogno.

Al ritorno, ho riposto il tukano ancora chiuso nella sua confezione in fondo all'armadio. Poi è arrivato l'autunno e poi l'inverno e sopra ci ho piazzato una busta con i costumi e altri accessori estivi tristemente poco utilizzati. 
Finché è tornata la primavera con lockdown annesso e l'incertezza liquida nella quale navigo ancora.

La figlia dei miei proprietari è una bambina simpaticissima. A maggio ha compiuto 7 anni. Perfetta per il tukano.
Gliel'ho fatto trovare davanti alla porta di casa con un biglietto. Per imballarlo, avevo usato una carta regalo natalizia: ho scritto che, in fondo, quello era il suo Natale e altre scemenze simili.
La piccola ha gradito ed io ne sono stata felice. 

Durante l'estate i suoi genitori hanno installato una piscinetta nel giardino. Anche loro, a dirla tutta, non l'hanno usata poi così tanto, ma io speravo che prima o poi tirassero fuori anche lui, il salvagente trendy acquistato dalla loro bizzarra inquilina italiana, in uno dei tanti accessi di saudade.

Finché è successo, proprio ieri sera, al termine di questa mia giornata rilassante, finalmente estiva, sospesa tra un passato spesso cupo e un futuro che non so dove mi porterà. Ho guardato giù dalla finestra e ho visto il volatile di plastica adagiato su una sdraio. Credo che abbiano fatto il bagno di notte: bravi loro. 

Ogni estate dovrebbe regalarci momenti del genere, e dovrebbe darli a tutti, a prescindere da quante rughe abbiamo. 

Giusto ieri ricorrevano i miei primi due anni a Vienna. Non riesco a crederlo e insieme mi pare che sia davvero successo di tutto da allora. 

Non ho ancora del tutto superato quello che mi è successo qualche mese fa (me lo dicono i sogni sui colleghi che a volte mi svegliano nel cuore della notte. Nell'ultimo mi avevano ripreso con loro, ma io non volevo tornare), eppure il tempo è passato e ieri, per fortuna, ero in quel posto bellissimo, a guardare le foglie degli alberi baciate dalla luce.

Tra un paio di settimane comincio un nuovo corso di tedesco, livello B2, intermedio superiore. Vado fiera di come ho gestito il tempo passato dalla fine del contratto ad oggi e sono orgogliosa che qualcuno, finalmente, se ne sia accorto. 

Però non so cosa sarà di me, durante il nuovo corso e soprattutto dopo.

Nel frattempo, mi aggrappo all'estate e alla sospensione che ci regala l'acqua e l'azzurro e le lunghe serate di stelle. A quelle che ho visto davvero, anno dopo anno, agosto dopo agosto, a quelle che ho immaginato di vedere anche da qui, a mille e più chilometri dalla mia bella Italia.