Dall'esterno non si capisce bene. O forse sì. Già dalla finestra a sinistra, con il tubo inclinato sottostante, coperto per un pezzetto dall'asciugamano svolazzante, e dalla gemella con le tende incrociate alla meno peggio intorno alla maniglia, si intuisce che lì dentro si svolge una vita piuttosto caotica.
Come posso dirlo con tanta certezza? Semplice: perché quelle sono le finestre di casa mia, compresa la terza, più a sinistra, dietro la quale s'intravede un tendone asimmetrico, usato dalla gatta come liana da circo.
Non ne sono certa, ma credo di far parte di quella categoria di persone incapaci di vivere nell'ordine.
E dire che mi sforzo di togliere i vestiti e le scarpe e di pulire periodicamente (con intervalli, lo riconosco, non sempre della stessa grandezza).
Per essere vere reginette della casa, però, la pulizia e il rigovernamento da gran bazar non basta. Occorre, probabilmente, una predisposizione genetica, e, ancor più, una volontà di ferro.
Invece, la mia indole naturale tende verso altre suggestioni.
Da bambina, quando non volevo rimettere a posto i giocattoli da sola, dicevo che avevo "la mano secca".
Giusto ieri una mia recente conoscenza parlava della cattiva abitudine del figlio piccolo di infilare tutti i giocattoli sotto al letto, quando gli si chiedeva di fare ordine.
Probabilmente facevo cose del genere anch'io. Adesso, butto tutto nell'armadio, tenendo però stranamente fede al doppio scomparto che divide collant e calzini che ho orgogliosamente ricavato nello scatolone dal coperchio schiantato stazionante sotto cappotti e pantaloni.
La sciarpe, invece, si agitano e si riavvoltolano l'una con l'altra, come anime dannate.
Alla destra dello scatolone delle calze, invece, tengo una coperta, nel suo contenitore di plastica, almeno questo sì, sopra alla quale ho deciso che sia bene tenere i regali che devo ancora assegnare, a riparo da occhi indiscreti. Sempre ammesso che non passi troppo tempo, altrimenti c'è il rischio concreto che i suddetti regali scivolino giù, lungo il fianco liscio dell'involucro della coperta e poi vatti a ricordare che li avevo comprati.
Insomma, sono sicuramente una "accrocchista" nata, intendendo con questo neologismo di difficile pronuncia, la mia naturale tendenza al'accrocco. Ma che cos'è un accrocco?
Dicesi tale, mi è stato spiegato, la composizione fatta con oggetti delle più disparate fogge e finalità, ammassati insieme nella convinzione che quella sia la loro giusta collocazione.
Per esempio, nel carrello a tre piani che abbiamo in cucina, sono riuscita a piazzarci dall'alto in basso: due dei tre sacchi per la raccolta differenziata e, appena sotto i medesimi, cinque-sei bustoni per la spesa; al piano di mezzo abitano da un po' le ciotole avanzate dei gatti, infilate in una busta di cellophane per ripararli dalla polvere (mi piace la plastica, sono un'accrocchista figlia della post-industrializzazione); infine, al terzo, ci sono altre buste, quasi tutte di carta, compresa una grandissima che, direbbero i toscani, sbuzza dal ripiano, e non di poco, da entrambi i lati.
E dire che altre buste (mamma mia quante) stanno appena dopo una credenzina cui, appena presa, avevo spezzato un piedino, prontamente risistemato in maniera provvisoria. Ciò vuol dire che non esiste la possibilità di spostarla, causa rischio crollo della struttura tutta, piena di piatti e bicchieri.
Se analizzo, di seguito, gli oggetti che albergano (nell'ottica dell'accrocchista, tutto alberga, non dimora stabilmente) sul comò all'ingresso, che una volta usavo nella mia camera da letto da ragazza, e tutti gli inutili gingilli che affollano la mia scrivania, capisco che non potrò cambiare mai.
Meglio rassegnarsi e mostrare con orgoglio il sacchetto di stoffa appeso alla cyclette dall'estate scorsa, contenente le zanzariere che ho opportunamente lavato (e addirittura stirato!) alle prime piogge d'autunno.
Perché l'accrocchista rispetta i cicli stagionali, l'incedere del tempo e la decadenza.
Anche gli accrocchi, infatti, prima o poi, muoiono. L'importante è sostituirli con altri nuovi, fiammanti, ripromettendosi (falsamente) di scioglierli e assegnarli ad habitat loro più consoni, un giorno o l'altro.
In fondo, ogni illusione è così dolce. Perché privarsene?
Buon anno, amici, e buoni accrocchi creativi, dovunque vi portino.
giovedì 29 dicembre 2011
sabato 24 dicembre 2011
La dignità non va in ferie
Lavorare stanca, diceva Cesare Pavese. Eppure, al lavoro dei campi e alla bellezza dello stare a contatto con l'aria, il vento, la pioggia e il fuoco aveva dedicato uno dei suoi libri più belli.
Oggi, probabilmente, sarebbe costretto a rivedere il suo pensiero. Non lavorare stanca molto di più.
Per questo, poi, si finisce per inventarsi dei simil-lavori o per buttarsi anima e corpo nel sostegno ai familiari anziani o malati.
Niente di male, intendiamoci. L'una e l'altra strada seguite dai senza paga sono forme di resistenza alla fine del lavoro salariato e dipendente.
L'estate scorsa ho letto ben due libri in proposito, ma qui non mi va di fare sfoggio di finta erudizione.
Piuttosto, volevo parlare delle ferie che ha preso la mia edicolante scontrosa, quella che quando mi vede comprarle un giornale, vorrebbe che sparissi in una frazione di secondo.
No, non ce l'ho fatta a cambiare edicola, come mi ero ripromessa qualche post fa. Semplicemente, ho lasciato passare qualche giorno prima di ritornare da lei che, incredibilmente, mi ha accolto con un sorriso.Forse, non vedermi troppe volte di seguito le fa bene: magari capisce che sono una delle poche persone che legge (stupidamente) ancora i quotidiani e che, tutto sommato, guadagnare qualche spicciolo non è così malaccio.
Fatto sta che dopo quel sorriso è tornata al suo standard rugnoso. Fino all'altro ieri, quando l'ho incrociata mentre attraversava la piazza.
Questa volta, non solo mi ha sorriso, ma addirittura mi ha chiamato per nome!
Io, invece, andavo di fretta, infreddolita e incupita da un fastidioso contrattempo. La sua cordialità ritrovata mi ha disorientato. Com'era possibile? Qualche ora più tardi s'è svelato l'arcano.
L'edicolante è andata in ferie. Ebbene sì: ha chiuso i battenti fino all'1 gennaio dell'anno incipiente e chi s'è visto s'è visto.
Evidentemente, a lei, di stare ore e ore in quel bugigattolo freddo, con i pochi clienti che ancora si ostinano ad acquistare carta scritta, proprio non gliene va. Peggio ancora adesso, sotto le feste, con le "orde" di turisti e cittadini a spasso, tutti lì a costringerla a darle incalcolabili resti di monetine. Per carità, troppa fatica.
Idem ha fatto la gelateria (e del resto, chi è che compra il gelato d'inverno?) che ha preferito sprangare le serrande.
Poco fa ha citofonato una giovane rilevatrice del censimento per farci la ramanzina. Ebbene sì, non abbiamo ancora compilato il modulo: i disoccupati et similia hanno un sacco di impegni, mica possono perdere tempo con la burocrazia?
Tra i due episodi c'è un nesso. Eccome se c'è.
Se ci fosse un mercato del lavoro serio e una politica (nel senso proprio del termine) altrettanto accorta, non sarebbe possibile chiudere i battenti in tempo di ferie o, viceversa, non si potrebbero costringere malcapitati ragazzini a lavorare giusto alla vigilia di Natale. Perché, ne sono sicura, nei giorni scorsi non ci ha cercato proprio nessuno.
Edicolante carissima, se qualcuno ti avesse tenuto aperta la rivendita in questo periodo, ti avrebbe fatto schifo? E tu, gelateria, che ne dici?
Ugualmente, Comune e simili, perché assumere, a ridosso della festa più importante dell'anno, dei poveri cristi in cerca di reddito, spedendoli all'uscio di gente impegnata a fare cappelletti e pacchetti?
Intanto, lo spread sale e i risparmi vacillano, mettendo a rischio anche le speranze di quelli che non vogliono arrendersi. Lavorare stanca, non lavorare stressa e abbatte, ma ancora di più logora sentirsi senza prospettive.
In questa condizione oggi quanti saremo? Molti di più di quanto potessi immaginare, almeno dal piccolo sondaggio che ho potuto fare in questi giorni di numerosi scambi e incontri.
Al contempo, però, c'è ancora molta ricchezza e, diciamolo, diversi privilegi. Perciò, le voci di chi vorrebbe fare, con competenza, serietà e umiltà, restano flebili.
Ho appena dato l'ok a un mio amico che ha intenzione di documentare come vivono i professionisti sciolti da contratto. Leggendo la sua richiesta, ho sentito come una scossa: diavolo, sono proprio come mi descrive lui, appartengo anch'io al gruppo di quelli "in perenne stato di precarietà e con scarse tutele sociali", una categoria che annovera "i lavoratori autonomi che operano nel campo della conoscenza come fotografi, architetti, grafici, sceneggiatori, programmatori, traduttori, copywriter, blogger, videomaker, musicisti", come scrive nella sua mail.
Quando ci sei dentro, finisci per dimenticartelo, fingendo, con te stesso, prima ancora che con gli altri, che tutto vada bene, che tutto sia sotto controllo.
Del resto, i dolori più forti, persino il travaglio, li dimentichiamo. Se non fosse così, cadremmo in un'angoscia, questa sì perenne, altro che reddito precario.
Perciò, ok, ci sto a fare la professionista senza (o quasi) tutele, ci sto a fare lavori non troppo qualificati; potendolo fare (ma sono troppo vecchia: dubito che mi avrebbero selezionata), sarei andata anch'io a bussare alle porte degli italiani alle prese con il capitone, però sogno un giorno in cui saremo chiamati a dare il nostro contributo con la dignità che meritiamo. E con la competenza che abbiamo accumulato anno per anno, giorno per giorno, con amore e dedizione per ogni passo in più realizzato. E non mi riferisco solo ai freelance come me, ma parlo anche a nome del tecnico delle bombole, della rilevatrice del censimento, dell'operaio tuttofare, e, sì, anche dell'edicolante a corto di motivazione.
Dignità vuol dire anche equo compenso, giuste condizioni di lavoro e adeguati ammortizzatori nei momenti di crisi.
Dignità vuol dire rispetto vero per la vita di ciascuno.
Da quest'ultima non si dovrebbe mai andare in ferie.
Buon Natale, amici.
lunedì 19 dicembre 2011
Che musica, la vita
Che musica, la vita. Accidenti, com'è facile cambiare umore quando si è coinvolti in esperienze intense, collettive e condivise.
Negli ultimi anni non mi era più successo. Associo queste giornate ai miei ultimi dell'anno ad Assisi, alla Cittadella, giorni indelebili per la formazione del mio carattere da adulta.
Conosco i miei (molti) limiti, ma ho qualche certezza in più sulle mie qualità e sui miei bisogni. Senza l'incontro con gli altri non so stare. Perciò ho sofferto così tanto nei miei anni solitari e casalinghi.
Il caso mi ha fatto incontrare un persona di molti anni più di me che con me ha in comune la stessa necessità di stare con gli altri a fare qualcosa che possa, eventualmente, arricchire (moralmente) tutti.
Sono davvero fortunata. Ne sono più che certa: comunque vada a finire, non dimenticherò mai questi giorni.
Oggi pomeriggio sono a casa, ma sto soffrendo di non essere lì.
Al contempo, sganciandomi, so di aver fatto la scelta giusta. Chissà come se la sta cavando la simpatica signora cui ho dovuto spiegare come si accendevano luci e proiettore.
E dire che l'avevo appreso giusto qualche ora prima di lei. Mentre eravamo sedute al pc, ho incrociato lo sguardo del mio "benefattore" che mi ha strizzato l'occhio in segno di approvazione.
Ci siamo conquistati a vicenda ed è ancora più straordinario, per me, sapere che è nato tutto così, per caso.
Ma esisterà il caso? Comincio a pensare che siamo davvero destinati a qualcosa e che conviene farsene una ragione. Perché, tanto, prima o poi, il destino ci raggiunge.
Non so ancora come farò a trasformare tutta questa energia vitale in reddito, ma mi sembra davvero un dono miracoloso sentirmi di nuovo in piedi e pronta a lottare. Spero solo di riuscire a coinvolgere anche l'uomo che mi vive accanto. "Intanto" (dico questa parola non a caso) sono partita io. Vedremo come fare in seguito.
Passo e chiudo dalla torre ormai non più tale. Per sempre non più tale.
Negli ultimi anni non mi era più successo. Associo queste giornate ai miei ultimi dell'anno ad Assisi, alla Cittadella, giorni indelebili per la formazione del mio carattere da adulta.
Conosco i miei (molti) limiti, ma ho qualche certezza in più sulle mie qualità e sui miei bisogni. Senza l'incontro con gli altri non so stare. Perciò ho sofferto così tanto nei miei anni solitari e casalinghi.
Il caso mi ha fatto incontrare un persona di molti anni più di me che con me ha in comune la stessa necessità di stare con gli altri a fare qualcosa che possa, eventualmente, arricchire (moralmente) tutti.
Sono davvero fortunata. Ne sono più che certa: comunque vada a finire, non dimenticherò mai questi giorni.
Oggi pomeriggio sono a casa, ma sto soffrendo di non essere lì.
Al contempo, sganciandomi, so di aver fatto la scelta giusta. Chissà come se la sta cavando la simpatica signora cui ho dovuto spiegare come si accendevano luci e proiettore.
E dire che l'avevo appreso giusto qualche ora prima di lei. Mentre eravamo sedute al pc, ho incrociato lo sguardo del mio "benefattore" che mi ha strizzato l'occhio in segno di approvazione.
Ci siamo conquistati a vicenda ed è ancora più straordinario, per me, sapere che è nato tutto così, per caso.
Ma esisterà il caso? Comincio a pensare che siamo davvero destinati a qualcosa e che conviene farsene una ragione. Perché, tanto, prima o poi, il destino ci raggiunge.
Non so ancora come farò a trasformare tutta questa energia vitale in reddito, ma mi sembra davvero un dono miracoloso sentirmi di nuovo in piedi e pronta a lottare. Spero solo di riuscire a coinvolgere anche l'uomo che mi vive accanto. "Intanto" (dico questa parola non a caso) sono partita io. Vedremo come fare in seguito.
Passo e chiudo dalla torre ormai non più tale. Per sempre non più tale.
martedì 13 dicembre 2011
Tutta colpa di un cavo
Mi piace lo stile di Yasmina Reza: ho trovato molto interessante il suo punto di vista sui rapporti umani, scoprendola al cinema con "Carnage". Così ho deciso di andarla a vedere anche in teatro, con ART, la piéce che l'ha resa famosa, nella versione italiana allestita da Giampiero Solari e l'interpretazione di Gigio Alberti, Alessio Boni e Alessandro Haber.
Tralasciando l'eccessiva milanesità del Gigio, lo spettacolo regge e, a tratti, strappa anche qualche risata. Soprattutto, è possibile ritrovarvi le tematiche care a quest'affascinante signora francese, che riesce, con sottile godimento, a smascherare le finzioni cui ci costringe la buona educazione.
Eppure, come si potrebbe agire diversamente? Dirsi tutto è necessario? Ho l'impressione che la Reza la veda come me, e cioè: no che non lo è. Il problema è che, in certe situazioni, magari quando siamo sotto stress (il che capita spesso, almeno a chi ha ritmi intensi di vita o non è capace di gestire le pressioni della quotidianità), non ce la facciamo a mantenerci ragionevoli e amabili. E sbottiamo.
Nei miei due giorni a Roma, ad esempio, ho assistito a una piccola tragicommedia familiare scoppiata per via di un cavo del computer diventato introvabile. Non scendo nei dettagli, ma nell'assistervi, mi sono sentita come davanti a uno specchio.
Ieri sera, ancora distrutta dal mio breve ritorno nella mia terra natale, mi sono impermalosita non poco nel vedermi rifiutare i biscotti dei miei nipoti. Possibile che sia così difficile venirsi davvero incontro? E soprattutto: possibile che basta una chiusura stupida come questa o una banale distrazione per farci saltare i nervi? Da dove arriva il nostro bisogno di litigare? E, dall'altro lato, come facciamo a controllarlo nella maggior parte delle occasioni?
I saggi direbbero che, mantendendosi aperti all'altro, dovremmo imparare l'arte dell'ascolto. So di avere questa dote, ma, evidentemente, non basta. Certe volte non si ha voglia di ascoltare proprio nessuno. E si urla e ci si accapiglia, come l'altra sera sul palcoscenico e come (in parte) nella cucina di quella casa da me molto amata.
Ieri sera, però, non ho litigato, ma mi sono limitata ad andarmene a letto tutta seccata.
Però mi è rimasta una tristezza addosso che non mi piace e un desiderio di sbattere le porte come facevo da ragazzina quando qualcuno di famiglia osava contraddirmi.
Me la farò passare, sono una donna piena di buon senso. Da bambina dicevano che ero giudiziosa, ma l'ho già scritto su Splinder e non mi va di ripetermi.
Di certo conviene farsi una ragione anche del sentimento di estraneità che continuano a ingenerarmi i luoghi in cui via via ho vissuto (e vivo) subito dopo aver rivisto quelli in cui sono cresciuta. Mio nipote maggiore pare che abbia esclamato, rivedendo casa sua, dopo le vacanze dai nonni: "Che bella che è questa casa, mamma!".
Ecco, a me succede ancora qualcosa di simile, almeno nei primi momenti. Ricordo i pianti in cui scoppiavo quando ritornavo a Pisa, con la valigia ancora carica dei cibi materni, del maglione o delle calze nuove.
Poi mi riabituavo e mi riabituo. Anzi, come ho scritto di recente, almeno in questa casa ci sono molti oggetti provenienti proprio da lì.
Però ci si sente molto soli. E la consapevolezza che sia il destino comune a tutti gli esseri umani non mi consola.
Finito di scrivere, mi alzerò, metterò in ordine la stanza, forse uscirò. E pian piano anestetizzerò la malinconia.
Va sempre così. Anche le ferite più profonde si rimarginano. Basta solo darsi tempo. E non intercettare, nell'attesa, nessuno capace di farcele sanguinare ancora.
Tralasciando l'eccessiva milanesità del Gigio, lo spettacolo regge e, a tratti, strappa anche qualche risata. Soprattutto, è possibile ritrovarvi le tematiche care a quest'affascinante signora francese, che riesce, con sottile godimento, a smascherare le finzioni cui ci costringe la buona educazione.
Eppure, come si potrebbe agire diversamente? Dirsi tutto è necessario? Ho l'impressione che la Reza la veda come me, e cioè: no che non lo è. Il problema è che, in certe situazioni, magari quando siamo sotto stress (il che capita spesso, almeno a chi ha ritmi intensi di vita o non è capace di gestire le pressioni della quotidianità), non ce la facciamo a mantenerci ragionevoli e amabili. E sbottiamo.
Nei miei due giorni a Roma, ad esempio, ho assistito a una piccola tragicommedia familiare scoppiata per via di un cavo del computer diventato introvabile. Non scendo nei dettagli, ma nell'assistervi, mi sono sentita come davanti a uno specchio.
Ieri sera, ancora distrutta dal mio breve ritorno nella mia terra natale, mi sono impermalosita non poco nel vedermi rifiutare i biscotti dei miei nipoti. Possibile che sia così difficile venirsi davvero incontro? E soprattutto: possibile che basta una chiusura stupida come questa o una banale distrazione per farci saltare i nervi? Da dove arriva il nostro bisogno di litigare? E, dall'altro lato, come facciamo a controllarlo nella maggior parte delle occasioni?
I saggi direbbero che, mantendendosi aperti all'altro, dovremmo imparare l'arte dell'ascolto. So di avere questa dote, ma, evidentemente, non basta. Certe volte non si ha voglia di ascoltare proprio nessuno. E si urla e ci si accapiglia, come l'altra sera sul palcoscenico e come (in parte) nella cucina di quella casa da me molto amata.
Ieri sera, però, non ho litigato, ma mi sono limitata ad andarmene a letto tutta seccata.
Però mi è rimasta una tristezza addosso che non mi piace e un desiderio di sbattere le porte come facevo da ragazzina quando qualcuno di famiglia osava contraddirmi.
Me la farò passare, sono una donna piena di buon senso. Da bambina dicevano che ero giudiziosa, ma l'ho già scritto su Splinder e non mi va di ripetermi.
Di certo conviene farsi una ragione anche del sentimento di estraneità che continuano a ingenerarmi i luoghi in cui via via ho vissuto (e vivo) subito dopo aver rivisto quelli in cui sono cresciuta. Mio nipote maggiore pare che abbia esclamato, rivedendo casa sua, dopo le vacanze dai nonni: "Che bella che è questa casa, mamma!".
Ecco, a me succede ancora qualcosa di simile, almeno nei primi momenti. Ricordo i pianti in cui scoppiavo quando ritornavo a Pisa, con la valigia ancora carica dei cibi materni, del maglione o delle calze nuove.
Poi mi riabituavo e mi riabituo. Anzi, come ho scritto di recente, almeno in questa casa ci sono molti oggetti provenienti proprio da lì.
Però ci si sente molto soli. E la consapevolezza che sia il destino comune a tutti gli esseri umani non mi consola.
Finito di scrivere, mi alzerò, metterò in ordine la stanza, forse uscirò. E pian piano anestetizzerò la malinconia.
Va sempre così. Anche le ferite più profonde si rimarginano. Basta solo darsi tempo. E non intercettare, nell'attesa, nessuno capace di farcele sanguinare ancora.
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venerdì 2 dicembre 2011
Passato e presente
Mi pareva che fosse di un altro colore, tipo fucsia; ma probabilmente è la mia memoria a perdere colpi.
Ricordo però perfettamente il gusto che mi dava succhiare il gelato, tautologicamente gelido e ghiacciato, dal cannello.
La prima fotografia mi è stata gentilmente inviata da FairyRain, mentre la seconda, com'è intuibile, è opera mia.
Non credo che servano ulteriori parole, ma mi piaceva assai l'accostamento tra quel residuato delle mie estati adriatiche, a pochi chilometri da dove vivo adesso, e il mio presente, trascorso (con una certa frequenza) accanto a un incallito fumatore di pipa.
Per scherzo, ho detto a quest'ultimo che avrei usato la sua fotografia in un altro contesto.
Se lo faccio, ha precisato, mi denuncia. Accidenti.
So benissimo che can che abbaia non morde. E infatti eccolo qui.
Vediamo come la prende.
In fondo, dovrebbe sentirsene lusingato.
E' lui il mio presente, mica quel gelato zuccheroso e finto?
Certo, la sua pipa, ogni tanto, m'impesta.
Ma, sinceramente, non farei a cambio.
(bella come sviolinata, eh?).
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domenica 27 novembre 2011
La ragazza con gli occhiali
Lo ammetto: questa foto è un furto. Però chi me l'ha ispirata si è soffermato su un unico paio di occhiali, privo di ombre (ma come si farà a non farle vedere? Dilettante che non sono altro...).
Facendo i complimenti all'autore sulla sua piccola e originalissima mostra, mi sono accorta che nel suo immaginario io porto gli occhiali.
In effetti, è vero: sono miope (abbastanza) e pure leggermente astigmatica. Però, per esempio, nel disegno ormai risalente a tre anni fa non ho aggiunto l'indispensabile accessorio, solitamente sul mio naso soprattutto se resto in casa o lavoro al computer.
All'esterno, invece, preferisco rimuoverlo e mostrare occhi e relative occhiaie, quando ci sono (spesso), e, ahimè, il leggero segno lasciatomi dai fanali nel punto in cui poggiano con una certa pesantezza.
E' anche vero che il bravo e simpaticissimo fotografo che ha immortalato i suoi occhiali rossi mi associa ai tempi in cui lavoravo in un piccolo giornale locale ed è assai probabile che in quelle lunghe (indimenticabili) giornate passate al pc portassi più spesso gli occhiali, peraltro rossi, come i suoi.
Ho messo il primo paio a 15 anni. La colpa, dicevano, era del vocabolario di greco, scritto fitto fitto e piccolissimo. Molti anni dopo ho scoperto che la sindrome del secchione non c'entra proprio un fico secco. L'ambliopìa (nome medico del difetto degli orbi) è presente già alla nascita: per accorgersi di averla, bisogna crescere.
Anche se in termini di centimetri non è che mi sia trasformata proprio in un vatusso, è facile che verso quell'età io sia diventata a tutti gli effetti una donna, capace, volendo, di generare (di sicuro più di quanto posso fare ora. Ma questa è un'altra storia).
I primi giorni, mi piaceva mettere gli occhiali e toglierli per notare le diverse capacità di messa a fuoco, mentre mia madre ne era dispiaciuta. Sì, perché una femmina con gli occhiali era considerata poco seducente dalla sua generazione e da quelle che l'hanno preceduta, come ha scritto Natalia Aspesi, giusto questa settimana in un divertente articolo sulle signorine per bene di una volta.
Di sicuro, io facevo parte di questa categoria, con tutte le differenze cronologiche del caso.
Rammento i miei gonnelloni neri lunghi fino alle caviglie per nascondere le gambe forti. Occhiali e gonnelloni, dovevo essere orribile.
A dirla tutta, non è affatto vero. Nella parte di questo spazio ancora su Splinder ho pubblicato un po' di foto di quegli anni. Ero graziosa, molto graziosa, però non lo sapevo, non mi sembrava possibile.
Da allora, ho cambiato diverse montature, tornando per un breve periodo al tondo gramsciano giusto una decina di anni fa, prima di acquistare il modello in rosso riprodotto nella foto "copiata", che ho stra-portato fino al giorno in cui, ahimè, ho dovuto prendere atto che non mi bastavano più.
Attualmente, indosso il terzo paio immortalato nella foto, di forma leggermente allungata, in memoria di uno bellissimo posseduto negli anni Novanta, perso inopinatamente alla fine di una mattinata che avevo trascorso in un bosco, vestita da folletto per far divertire dei ragazzini (e già, ho fatto anche questo). Occhiali così belli non li ho avuti mai più. Peraltro, non era neanche la prima volta che mi capitava. Verso i 23 anni ho smarrito quelli tartarugati chiari a una festa di Rifondazione comunista (ci sono tornata il giorno dopo invano: avidi questi mangiatori di bambini, eh?).
Insomma, potrei scandire il tempo vissuto finora in base alle montature che si sono avvicendate sulla mia faccia.
Rimane sempre il fatto che dalla paura di sembrare - diciamolo - un'intellettualina un po' cozza per via (non solo...) degli occhialini appiccicati sul naso non mi sono del tutto liberata.
Eppure, mi assicurano (lo scrive pure la Aspesi, occhialona d'antan) che molte fighette di oggi si comprano gli occhiali anche se ci vedono benissimo per darsi un'aria misteriosa.
Sarà.
Ho pensato anche all'operazione, ma non ne ho fatto nulla, per varie ragioni (compresa una certa qual ipocondria).
Invecchiando, devo dire, mi sono accorta che le borse si nascondono meglio dietro ai vetri.
Ma a questo scopo, ci sono anche gli occhiali da sole, da me amatissimi...
Ecco, la prossima volta che voglio buttarmi nella foto "still life" (o qualcosa del genere) mi concentro sui miei rayban. Dovrei fare la creativa per i produttori di occhiali, ecco l'idea che mi farà uscire dal limbo.
Nell'attesa di metterla in pratica, spengo.
E mi spalmo un buon contorno occhi effetto lifting, già.
Mortacci alla "maturità".
Facendo i complimenti all'autore sulla sua piccola e originalissima mostra, mi sono accorta che nel suo immaginario io porto gli occhiali.
In effetti, è vero: sono miope (abbastanza) e pure leggermente astigmatica. Però, per esempio, nel disegno ormai risalente a tre anni fa non ho aggiunto l'indispensabile accessorio, solitamente sul mio naso soprattutto se resto in casa o lavoro al computer.
All'esterno, invece, preferisco rimuoverlo e mostrare occhi e relative occhiaie, quando ci sono (spesso), e, ahimè, il leggero segno lasciatomi dai fanali nel punto in cui poggiano con una certa pesantezza.
E' anche vero che il bravo e simpaticissimo fotografo che ha immortalato i suoi occhiali rossi mi associa ai tempi in cui lavoravo in un piccolo giornale locale ed è assai probabile che in quelle lunghe (indimenticabili) giornate passate al pc portassi più spesso gli occhiali, peraltro rossi, come i suoi.
Ho messo il primo paio a 15 anni. La colpa, dicevano, era del vocabolario di greco, scritto fitto fitto e piccolissimo. Molti anni dopo ho scoperto che la sindrome del secchione non c'entra proprio un fico secco. L'ambliopìa (nome medico del difetto degli orbi) è presente già alla nascita: per accorgersi di averla, bisogna crescere.
Anche se in termini di centimetri non è che mi sia trasformata proprio in un vatusso, è facile che verso quell'età io sia diventata a tutti gli effetti una donna, capace, volendo, di generare (di sicuro più di quanto posso fare ora. Ma questa è un'altra storia).
I primi giorni, mi piaceva mettere gli occhiali e toglierli per notare le diverse capacità di messa a fuoco, mentre mia madre ne era dispiaciuta. Sì, perché una femmina con gli occhiali era considerata poco seducente dalla sua generazione e da quelle che l'hanno preceduta, come ha scritto Natalia Aspesi, giusto questa settimana in un divertente articolo sulle signorine per bene di una volta.
Di sicuro, io facevo parte di questa categoria, con tutte le differenze cronologiche del caso.
Rammento i miei gonnelloni neri lunghi fino alle caviglie per nascondere le gambe forti. Occhiali e gonnelloni, dovevo essere orribile.
A dirla tutta, non è affatto vero. Nella parte di questo spazio ancora su Splinder ho pubblicato un po' di foto di quegli anni. Ero graziosa, molto graziosa, però non lo sapevo, non mi sembrava possibile.
Da allora, ho cambiato diverse montature, tornando per un breve periodo al tondo gramsciano giusto una decina di anni fa, prima di acquistare il modello in rosso riprodotto nella foto "copiata", che ho stra-portato fino al giorno in cui, ahimè, ho dovuto prendere atto che non mi bastavano più.
Attualmente, indosso il terzo paio immortalato nella foto, di forma leggermente allungata, in memoria di uno bellissimo posseduto negli anni Novanta, perso inopinatamente alla fine di una mattinata che avevo trascorso in un bosco, vestita da folletto per far divertire dei ragazzini (e già, ho fatto anche questo). Occhiali così belli non li ho avuti mai più. Peraltro, non era neanche la prima volta che mi capitava. Verso i 23 anni ho smarrito quelli tartarugati chiari a una festa di Rifondazione comunista (ci sono tornata il giorno dopo invano: avidi questi mangiatori di bambini, eh?).
Insomma, potrei scandire il tempo vissuto finora in base alle montature che si sono avvicendate sulla mia faccia.
Rimane sempre il fatto che dalla paura di sembrare - diciamolo - un'intellettualina un po' cozza per via (non solo...) degli occhialini appiccicati sul naso non mi sono del tutto liberata.
Eppure, mi assicurano (lo scrive pure la Aspesi, occhialona d'antan) che molte fighette di oggi si comprano gli occhiali anche se ci vedono benissimo per darsi un'aria misteriosa.
Sarà.
Ho pensato anche all'operazione, ma non ne ho fatto nulla, per varie ragioni (compresa una certa qual ipocondria).
Invecchiando, devo dire, mi sono accorta che le borse si nascondono meglio dietro ai vetri.
Ma a questo scopo, ci sono anche gli occhiali da sole, da me amatissimi...
Ecco, la prossima volta che voglio buttarmi nella foto "still life" (o qualcosa del genere) mi concentro sui miei rayban. Dovrei fare la creativa per i produttori di occhiali, ecco l'idea che mi farà uscire dal limbo.
Nell'attesa di metterla in pratica, spengo.
E mi spalmo un buon contorno occhi effetto lifting, già.
Mortacci alla "maturità".
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giovedì 24 novembre 2011
Sentirsi a casa
Il maltempo persiste, impedendomi di proseguire con il mio lavoro fotografico. Del resto, siamo quasi in inverno: era piuttosto probabile che si moltiplicassero le brutte giornate.
Sperimento, così, di nuovo, il vuoto, amplificato dalla mia difficoltà di mutare abitudini. A questo proposito, però, proprio ieri sera ho letto delle righe davvero illuminanti.
Il libro che le conteneva è di John Berger, il tema affrontato in quel punto l'emigrazione e il bisogno per chi si è lasciato alle spalle il proprio paese lontano di trovare comunque una casa. Prima di trascriverle, faccio comunque una precisazione: il senso di estraneità provocato da un posto che non ci ha visti nascere, a mio avviso, non dipende necessariamente da quest'ultimo. Capita infatti di provarlo anche a casa propria, tra volti notissimi. Temo che sia, in definitiva, una condizione esistenziale di quasi tutta la razza umana, benché non tutti la mettano a fuoco durante la vita.
Dicevo, quindi, di John Berger, che scrive:
"Chi è costretto ad abbandonare il proprio paese mantiene la propria identità e si improvvisa un tetto. Fatto di cosa? Di abitudini, credo, della materia prima della ripetizione, trasformata in rifugio".
Ma che cosa intende con abitudini? Lo spiega subito dopo: "Le abitudini vogliono dire parole, battute, opinioni, gesti, azioni, persino il modo di portare il cappello".
E poi aggiunge: "Gli oggetti fisici e i luoghi - un mobile, un letto, l'angolo di una stanza, un certo bar, un angolo di strada - forniscono la scena, il sito dell'abitudine, eppure non sono essi a proteggerci, bensì l'abitudine. La malta che tiene insieme la 'casa' improvvisata è - persino per il bambino - la memoria. Al suo interno si organizzano ricordi visibili, tangibili - foto, trofei, souvenir - ma il tetto e le quattro pareti che salvaguardano le vite sono invisibili, intangibili e biografiche".
Perché mi hanno colpito queste parole?
Innanzitutto, perché anch'io sono un'emigrata, benché, ancora per poco (!), "di lusso". Mi trovo in questa condizione da anni, ormai, e, come scrive Berger in un altro punto, ormai mi sento tale anche quando faccio ritorno a casa. Per fortuna, vi abitano ancora i genitori e diverse persone care che ritrovo, molto piacevolmente, ogni volta; ma i visi estranei o diventati tali di chi incontro e persino alcuni angoli della mia città natale mi restituiscono con una potenza che fa male tutta la distanza emotiva e cronologica accumulata.
L'emigrazione, in sintesi, mi ha cambiata, e non da adesso e indietro, indubbiamente, non si può tornare.
Però che cosa è successo nel frattempo?
La casa in cui abito ora è piena di oggetti che mi sono familiari: a volte, addirittura, quando entro nella camera da letto in cui ho piazzato la sedia a dondolo sotto la finestra, nello stesso punto in cui si trovava prima nell'appartamento della mia infanzia e adolescenza, mi sorprendo a pensare di trovarmi lì e non qui.
Non so dire se provo, almeno non ogni volta, nostalgia per quei giorni sicuramente più spensierati, però mi fa effetto accorgermi che avevo bisogno di circondarmi di questi oggetti per sentirmi, seppur debolmente, a casa.
Su quella sedia, lasciavo i vestiti prima di addormentarmi, sulla base sbattevo i malleoli, esattamente come mi capita adesso. Recuperando quegli oggetti di famiglia, ho potuto riprodurre alcune abitudini e, quindi, sentirmi a casa. Un po' di più, almeno, di quanto non mi sia successo nelle mie precedenti dimore di emigrata.
Però, lo confesso, non mi basta.
Sarà perché il lavoro scarseggia, scavando da sotto le instabili fondamenta della mia quotidianità, e perché in questo posto è più facile non essere distratti dal rumore di fondo delle metropoli, ma negli anni ho cominciato ad avvertire sempre più forte il bisogno di radici. Di andare oltre, insomma, le abitudini cui mi aggrappo ogni giorno per tenermi ancorata a terra e che mi hanno permesso (almeno finora) di mostrare all'esterno quel sorriso bonario e rassicurante di cui ho parlato nel precedente post.
Dall'estate scorsa ho un progetto in testa che va proprio in questa direzione. Non è facile metterlo in pratica: occorre, oltre al denaro, una buona dose di determinazione. E di incoscienza.
Non è detto che, realizzarlo, mi farà sentire davvero "a casa": Berger conclude il suo ragionamento sottolineando il fatto che, "nella più brutale delle circostanze, la tua sola casa è il nome che porti - mentre per i più ne sei privo".
Già, per i più non abbiamo neanche un nome, sarà anche per questo che ci dà fastidio quando qualcuno si sbaglia nel chiamarci.
Però quanto vorrei poterlo mettere sulla porta di quelli che avranno voglia di suonare.
Oltre alle abitudini, concludo, la materia prima di cui siamo fatti sono i sogni. Almeno, io sono così. E voi?
Sperimento, così, di nuovo, il vuoto, amplificato dalla mia difficoltà di mutare abitudini. A questo proposito, però, proprio ieri sera ho letto delle righe davvero illuminanti.
Il libro che le conteneva è di John Berger, il tema affrontato in quel punto l'emigrazione e il bisogno per chi si è lasciato alle spalle il proprio paese lontano di trovare comunque una casa. Prima di trascriverle, faccio comunque una precisazione: il senso di estraneità provocato da un posto che non ci ha visti nascere, a mio avviso, non dipende necessariamente da quest'ultimo. Capita infatti di provarlo anche a casa propria, tra volti notissimi. Temo che sia, in definitiva, una condizione esistenziale di quasi tutta la razza umana, benché non tutti la mettano a fuoco durante la vita.
Dicevo, quindi, di John Berger, che scrive:
"Chi è costretto ad abbandonare il proprio paese mantiene la propria identità e si improvvisa un tetto. Fatto di cosa? Di abitudini, credo, della materia prima della ripetizione, trasformata in rifugio".
Ma che cosa intende con abitudini? Lo spiega subito dopo: "Le abitudini vogliono dire parole, battute, opinioni, gesti, azioni, persino il modo di portare il cappello".
E poi aggiunge: "Gli oggetti fisici e i luoghi - un mobile, un letto, l'angolo di una stanza, un certo bar, un angolo di strada - forniscono la scena, il sito dell'abitudine, eppure non sono essi a proteggerci, bensì l'abitudine. La malta che tiene insieme la 'casa' improvvisata è - persino per il bambino - la memoria. Al suo interno si organizzano ricordi visibili, tangibili - foto, trofei, souvenir - ma il tetto e le quattro pareti che salvaguardano le vite sono invisibili, intangibili e biografiche".
Perché mi hanno colpito queste parole?
Innanzitutto, perché anch'io sono un'emigrata, benché, ancora per poco (!), "di lusso". Mi trovo in questa condizione da anni, ormai, e, come scrive Berger in un altro punto, ormai mi sento tale anche quando faccio ritorno a casa. Per fortuna, vi abitano ancora i genitori e diverse persone care che ritrovo, molto piacevolmente, ogni volta; ma i visi estranei o diventati tali di chi incontro e persino alcuni angoli della mia città natale mi restituiscono con una potenza che fa male tutta la distanza emotiva e cronologica accumulata.
L'emigrazione, in sintesi, mi ha cambiata, e non da adesso e indietro, indubbiamente, non si può tornare.
Però che cosa è successo nel frattempo?
La casa in cui abito ora è piena di oggetti che mi sono familiari: a volte, addirittura, quando entro nella camera da letto in cui ho piazzato la sedia a dondolo sotto la finestra, nello stesso punto in cui si trovava prima nell'appartamento della mia infanzia e adolescenza, mi sorprendo a pensare di trovarmi lì e non qui.
Non so dire se provo, almeno non ogni volta, nostalgia per quei giorni sicuramente più spensierati, però mi fa effetto accorgermi che avevo bisogno di circondarmi di questi oggetti per sentirmi, seppur debolmente, a casa.
Su quella sedia, lasciavo i vestiti prima di addormentarmi, sulla base sbattevo i malleoli, esattamente come mi capita adesso. Recuperando quegli oggetti di famiglia, ho potuto riprodurre alcune abitudini e, quindi, sentirmi a casa. Un po' di più, almeno, di quanto non mi sia successo nelle mie precedenti dimore di emigrata.
Però, lo confesso, non mi basta.
Sarà perché il lavoro scarseggia, scavando da sotto le instabili fondamenta della mia quotidianità, e perché in questo posto è più facile non essere distratti dal rumore di fondo delle metropoli, ma negli anni ho cominciato ad avvertire sempre più forte il bisogno di radici. Di andare oltre, insomma, le abitudini cui mi aggrappo ogni giorno per tenermi ancorata a terra e che mi hanno permesso (almeno finora) di mostrare all'esterno quel sorriso bonario e rassicurante di cui ho parlato nel precedente post.
Dall'estate scorsa ho un progetto in testa che va proprio in questa direzione. Non è facile metterlo in pratica: occorre, oltre al denaro, una buona dose di determinazione. E di incoscienza.
Non è detto che, realizzarlo, mi farà sentire davvero "a casa": Berger conclude il suo ragionamento sottolineando il fatto che, "nella più brutale delle circostanze, la tua sola casa è il nome che porti - mentre per i più ne sei privo".
Già, per i più non abbiamo neanche un nome, sarà anche per questo che ci dà fastidio quando qualcuno si sbaglia nel chiamarci.
Però quanto vorrei poterlo mettere sulla porta di quelli che avranno voglia di suonare.
Oltre alle abitudini, concludo, la materia prima di cui siamo fatti sono i sogni. Almeno, io sono così. E voi?
martedì 22 novembre 2011
A scuola di cattiveria
Giornata più cupa, meteorologicamente parlando, non poteva esserci. Eppure non mi sento per niente giù, giusto un filo addormentata.
Ogni tanto mi piacerebbe vivere nella casa del grande fratello ed esserne l'unica protagonista e fruitrice.
No, non sto delirando: è che mi incuriosirebbe osservare dall'esterno le facce che faccio mentre scrivo, cucino, pulisco il fornello o parlo con qualcuno, dal vivo o al telefono.
Ho infatti la sensazione che gli altri mi vedano e mi sentano (se la conversazione non prevede il confronto vis a vis) sorridente.
Tra i miei vari hobby del passato, c'è stato anche il teatro: temo di aver capito solo ora perché sia naufragato. Essendo così forte in me la volontà inconscia di mostrarmi sempre amabile e cordiale, ho infatti come l'impressione che sulla scena non si capisse più di tanto quale sentimento volessi veramente esprimere.
Eppure. Eppure a qualcuno sto sulle palle, ebbene sì, forse proprio per quel vago inebetimento bonario che restituisce il mio sguardo.
Mi riferisco in particolare alla mia edicolante, un tempo abbastanza urbana nei miei confronti, da un po', invece, grugnosa e scostante. Come me ne sono accorta? Tanto per cominciare, non si comporta allo stesso modo con mio marito. Anzi, più di una volta gli ha sorriso e gli ha tenuto da parte le riviste (è lesbica dichiarata: una sua presunta gelosia femminile sarebbe perciò fuori luogo).
Con me, fino a un paio di anni fa, aveva un accordo: mi teneva da parte l'inserto Salute di Repubblica. Poi, quando il quotidiano l'ha fatto diventare sua parte integrante, l'accordo è ovviamente saltato. Però io, il più possibile, ho continuato a comprare da lei il giornale tutti i martedì (e non solo).
Ebbene, da oggi si cambia musica.
La mia faccia vagamente ridente e buonista si rivolgerà altrove. La sua patente ostilità mi ha stufato: perché mai devo continuare a rivolgerle la parola tentando pateticamente di intavolare anche uno straccio di conversazione?
Certe volte, ve l'assicuro, mi ha veramente indisposto: magari già io ero di cattivo umore, perché farmi trattare a pesci in faccia da un attrezzo del genere?
Prima di arrivare a questa conclusione, ci ho pensato e ripensato: detesto essere preda di paranoie, ma l'eccesso di razionalizzazione può essere ancora più dannoso.
Quindi basta.
Ce la farò?
Non lo so. Mi piacciono i mulini a vento e Gandhi è sempre stato tra i miei modelli.
Magari posso sempre passare davanti alla sua brutta faccia sventolando il giornale comprato da un'altra parte. Staremo a vedere se sarò capace di tanto. C'è chi sta tentando di instillarmi pillole di (sana) cattiveria, ma i risultati non mi sembrano brillanti...
GRRRRRRR.
Ogni tanto mi piacerebbe vivere nella casa del grande fratello ed esserne l'unica protagonista e fruitrice.
No, non sto delirando: è che mi incuriosirebbe osservare dall'esterno le facce che faccio mentre scrivo, cucino, pulisco il fornello o parlo con qualcuno, dal vivo o al telefono.
Ho infatti la sensazione che gli altri mi vedano e mi sentano (se la conversazione non prevede il confronto vis a vis) sorridente.
Tra i miei vari hobby del passato, c'è stato anche il teatro: temo di aver capito solo ora perché sia naufragato. Essendo così forte in me la volontà inconscia di mostrarmi sempre amabile e cordiale, ho infatti come l'impressione che sulla scena non si capisse più di tanto quale sentimento volessi veramente esprimere.
Eppure. Eppure a qualcuno sto sulle palle, ebbene sì, forse proprio per quel vago inebetimento bonario che restituisce il mio sguardo.
Mi riferisco in particolare alla mia edicolante, un tempo abbastanza urbana nei miei confronti, da un po', invece, grugnosa e scostante. Come me ne sono accorta? Tanto per cominciare, non si comporta allo stesso modo con mio marito. Anzi, più di una volta gli ha sorriso e gli ha tenuto da parte le riviste (è lesbica dichiarata: una sua presunta gelosia femminile sarebbe perciò fuori luogo).
Con me, fino a un paio di anni fa, aveva un accordo: mi teneva da parte l'inserto Salute di Repubblica. Poi, quando il quotidiano l'ha fatto diventare sua parte integrante, l'accordo è ovviamente saltato. Però io, il più possibile, ho continuato a comprare da lei il giornale tutti i martedì (e non solo).
Ebbene, da oggi si cambia musica.
La mia faccia vagamente ridente e buonista si rivolgerà altrove. La sua patente ostilità mi ha stufato: perché mai devo continuare a rivolgerle la parola tentando pateticamente di intavolare anche uno straccio di conversazione?
Certe volte, ve l'assicuro, mi ha veramente indisposto: magari già io ero di cattivo umore, perché farmi trattare a pesci in faccia da un attrezzo del genere?
Prima di arrivare a questa conclusione, ci ho pensato e ripensato: detesto essere preda di paranoie, ma l'eccesso di razionalizzazione può essere ancora più dannoso.
Quindi basta.
Ce la farò?
Non lo so. Mi piacciono i mulini a vento e Gandhi è sempre stato tra i miei modelli.
Magari posso sempre passare davanti alla sua brutta faccia sventolando il giornale comprato da un'altra parte. Staremo a vedere se sarò capace di tanto. C'è chi sta tentando di instillarmi pillole di (sana) cattiveria, ma i risultati non mi sembrano brillanti...
GRRRRRRR.
lunedì 21 novembre 2011
Tutto un giro
Non sarà davvero un fumetto, però è abbastanza sicuro che la vita sia un cerchio. Dal nulla al nulla, o dalla terra alla terra, se si preferisce. Lo dice anche la sigla iniziale del Re Leone, nella versione italiana cantata da Ivana Spagna (Ivana Spagna? Ebbene sì: l'ho scoperto solo qualche giorno fa cercandola su Youtube).
Il testo e soprattutto le immagini che raccontano della nascita di Simba e del benvenuto che gli tributano i sudditi del grande Mofasa mi hanno sempre commosso.
Si nasce senza sapere perché, poi un giorno ci si rende conto di esistere e si prova (a me è successo davvero) un misto di angoscia e di eccitazione per il sangue che ci pulsa nelle vene e per la nostra immagine riflessa negli specchi.
Si prende coscienza di essere mortali e di far parte, come le piante, le montagne, il sole e la luce, di un immenso e misterioso equilibrio millenario, messo, sì, a dura prova dal nostro intervento di uniche, presunte, creature dotate di intelletto, ma pur sempre remoto e incomprensibile nella sua essenza più profonda.
E quindi? Che significa tutta questa pseudo-filosofia?
Niente: solo che Madamatap "rinasce" su blogspot, spostandosi dal morente (ma spero ancora attivo: almeno per qualche giorno!) Splinder.
Non ho ancora capito se riuscirò a salvare i contenuti della precedente piattaforma, almeno a partire dall'ultima trasformazione.
Se fosse troppo complicato, beh, pazienza.
Come mi ha detto una recente conoscenza, nella vita si nasce e si muore più volte, fino all'ultima, chissà se davvero definitiva.
A questo proposito, c'è un altro passaggio del Re Leone che mi fa piangere come una poppante: è quando Simba, ormai adulto, rivede nelle acque di un laghetto suo padre. Lo scimpanzé-sacerdote glielo mostra agitando l'acqua con un bastone.
Tutto quello che siamo è frutto anche di quello che siamo stati, noi e le persone che ci hanno preceduto, dai genitori ai primi, lontanissimi, avi.
Madamatap su Splinder, insomma, vivrà per sempre, in me e in chi già la conosceva quando ancora si chiamava "Cassetta degli attrezzi".
Il bello, però, deve ancora cominciare. Ogni promessa è già una scoperta, non credete?
Spero di ritrovarvi anche qui, insomma.
Passo e chiudo (dalla torre-non più tale).
Ps Mio nonno paterno diceva, della vita, che era "tutte nu gire". Ai tempi, se ben ricordo, il Re Leone cinematografico non esisteva ancora. A distanza di così tanti anni mi sembra di capire sempre meglio perché mi commuova come il primo giorno. Anzi, più di prima.
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