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martedì 14 gennaio 2014

Ninotchka e il fascino del cinema senza tempo


 
Credo di averne già parlato da qualche parte. Se l'ho fatto, beh, scusatemi (siete così pochi a seguirmi che se ne ho parlato, ve ne sarete sicuramente accorti).
In tutti i modi, ieri ho visto per la prima volta sul grande schermo Ninotchka, uno dei miei film maggiormente amati. Non so in effetti scegliere tra la pellicola passata alla storia per "la Garbo che ride" o l'altra, altrettanto perfetta, di Ernst Lubitsch che cito spesso senza quasi accorgermene. Sto parlando di "Scrivimi fermo posta", in inglese, più appropriatamente, The shop around the corner (il negozio dietro l'angolo, per i pochi non anglofoni rimasti).
 
Non ho quasi mai letto i sottotitoli in italiano, ma devo precisare che la perizia linguistica appena rivendicata in verità è stata di gran lunga sostenuta dal fatto che conosco il film a memoria, praticamente.
Anzi: lo conosco talmente bene che mi sono accorta persino degli errori nei sottotitoli che ogni tanto ho sbirciato (quando parlava la "granduchess Swana", per dire, non capivo quasi una mazza. Perdonatemi l'italianismo non troppo educato).
 
Capisco che la lingua si evolva e che debba adattarsi ai mutamenti dei costumi, però, per farvi un solo esempio, era proprio necessario sostituire la più musicale e francese parola "verve" con finezza, che non è proprio la stessa cosa?  
 
Mi riferisco a quando la granduchessa Swana incontra Ninotchka e Leon insieme e attacca a parlare a macchinetta (ed è lì che non ho capito assai) del cagnolino che lui le ha regalato.
A un certo punto si rivolge alla bella bolscevica scusandosi falsamente di fare discorsi che lei non può sicuramente capire. Ninotchka, invece, ricambiandola di altrettanto falsa cortesia, la rassicura: ha capito proprio tutto.
Allora Swana, teatralmente, sospira: "Oh mio dio, sto perdendo la mia verve". Così nel doppiaggio degli anni Quaranta (o Cinquanta, non più tardi, comunque), che mi ha da sempre conquistato.
 
La voce della Garbo era infatti affidata ad Andreina Pagnani, che ho imparato a conoscere puntata dopo puntata nei Maigret con Gino Cervi, per aver interpretato la fedele moglie Louise.
Una voce bellissima, dolce e profonda insieme. Il mio ideale di voce femminile.
 
E insomma. Le voci autentiche di Greta e Melvin (Douglas) sono altrettanto affascinanti e mi hanno fatto letteralmente impazzire nelle scene successive al teso incontro con la granduchessa, quando, ubriachi, fanno ritorno in hotel.
Che recitazione, accidenti.
 
Prima del film, che ho visto (a proposito) alla Sala degli Artisti di Fermo, che ha organizzato un cineforum lungo un anno intero con le pellicole presentate all'ultima Rassegna di Bologna nota come "Il Cinema Ritrovato", ho scoperto, ascoltando l'introduzione, che l'attrice di origine svedese smise di recitare due anni dopo Ninotchka per via del flop subito dal film successivo. 
 
Chissà se non c'erano anche altre ragioni, considerato tra l'altro che in molti Paesi la pellicola, uscita nel 1939, venne vista solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, come è stato specificato sempre prima della proiezione.
 
Magari era stanca, magari una diva abituata a stare sulla ribalta per molti anni finisce per non sopportare neanche il più piccolo stop. In fondo, succede anche oggi. Soltanto che di stelle così non ce ne sono poi molte.
Non voglio fare la passatista, eh, però capolavori così moderni e insieme senza tempo non nascono tutti i giorni.
 
Vi lascio con la scena dell'incontro tra il sergente Yacushova e il borghese Leon sul marciapiede parigino: ho ritrovato il suono dei clacson in un brano di Jelly Roll Morton chiamato Sidewalk Blues. Quest'ultimo, a sua volta, mi ha fatto troppo pensare al kazoo di Paolo Conte, che ama moltissimo il Jazz degli anni Venti e Trenta (e si sente tanto nella sua musica). Non potete immaginare che soddisfazione mi dia fare questo tipo di collegamenti: per trovarne altri, probabilmente, mi ci vorrà tutta la vita.
 
E meno male.
Prima di lasciarvi al video, aggiungo un'ultima preghiera: se potete, andate a vedere Ninotchka e altri film così grandi al cinema.
Avrete anche dei tv iper-ultra tecnogici, ma le luci che si smorzano in sala e persino i colpi di tosse dei vicini (e qualche dannatissimo cellulare che ogni tanto squilla ancora: ma li mortacci...), vi regaleranno tutt'un'altra profondità. Buona visione!
 
 
 

 
 

domenica 27 ottobre 2013

I Rem e la camicia dei miei vent'anni



Vent'anni fa, più o meno, in primavera, giravo con una bici con i freni a bacchetta, di un improbabile colore rosa, con la mia camicia fantasia. Il fondo era rossastro, ma i disegni, un po' geometrici, un po' tondi, dovevano dare sul celeste, verdino e forse giallino.
Dovrei avere da qualche parte anche una fotografia che mi ritrae con quella camicia, di una marca molto di moda negli anni Ottanta-Novanta, quella dei maglioni di lana a treccia, oggi tornati in voga. Sono sicura che chi è nato a inizio Settanta come me ha capito benissimo a quale brand (bleah) mi riferisco.
Molti anni dopo me ne sono ricomprata una molto simile al mercato di Porto San Giorgio del giovedì, o molto più probabilmente alla grande fiera di primavera, dedicata al santo patrono del borgo marino che ho imparato ad amare nel tempo. Oggi che non ci vivo più, tra l'altro, mi manca ancora di più, forse anche perché ho capito che con il denaro che posseggo non potrò mai comprarvi una casa. Ma non volevo scrivere questo post per lamentarmi del destino crudele.
Torno subito alla camicia. Quella nuova (più o meno, come sopra) è di tonalità marrone, con disegni, un po' geometrici, un po' tondi, sul rossastro, il blu, il verde e il giallo.
Come la prima, è lunga (su di me non è difficile immaginare che qualcosa mi stia grande, almeno in senso longitudinale) e va portata, preferibilmente, aperta su una t-shirt in tinta unita, per non accentuare ancora di più l'effetto coperta patchwork. La marca, stavolta, non è italiana, bensì spagnola, il che la dice lunga sull'evoluzione (?) dell'economia nazionale, assediata e fagocitata da una globalizzazione troppo aggressiva.
Inconsciamente volevo riprodurre l'atmosfera di vent'anni fa, almeno credo, favorita dalla pianura, il sole caldo e la possibilità di cavalcare una bicicletta con le ruote grandi e il telaio squadrato di un improbabile rosa, come l'altra. Della Ceriz di mia suocera, però, mi pare di aver già parlato.
Non avevo invece mai fatto cenno, almeno non su questo spazio, all'altra, i freni pericolosissimi e un'altezza troppo grande per le mie gambe corte. Una volta, per dire, ho quasi rischiato di finire contro un camioncino, impossibilitata com'ero nella frenata dal fatto che guidavo con una sola mano perché con l'altra reggevo l'ombrello. Non mi separavo mai dalla bici, neanche la pioggia mi avrebbe costretta a prendere l'autobus, da me detestato dai tempi del liceo, quando dovevo fare a botte pur di salirvi su, pigiata malamente tra altri (nonché più alti) studenti che, come me, erano condannati alla forzosa traghettata dantesca dal colle alla pianura, per tornare a casa a ora di pranzo.
E insomma, una volta a Pisa, mi adeguai in pochi mesi alle abitudini dei locali. Anche se quella bici, chiaramente rubata, era davvero un'arma micidiale nelle mie mani. Non ho mai perso l'abitudine di correre come una lippa e se non sono mai andata a schiantarmi contro qualcosa o qualcuno, è solo perché, in genere, resto una tipa prudente. Certo, dopo l'incidente di Paolo, comincio a dubitare dell'utilità del mio modo di essere: non c'è persona più attenta di mio marito alla guida, il che, tra l'altro, non vuol dire andare come lumache anche quando si potrebbe evitarlo, eppure la sfiga ci vede meglio del nostro giudizio. E pazienza. Sto divagando.
Dicevo delle mie camicie per estensione hawaiane, alla maniera di quella che Paolo Conte avrebbe voluto indossare davanti alla bella signora dal parlare difficile.
Giorni addietro, al Ruggito del Coniglio, un programma di Radio Due che mi fa compagnia quasi dallo stesso numero di anni dell'aneddoto che sto per riportare, hanno messo la canzone dei Rem che apre questo post. E dire che i Rem non sono mai stati un gruppo da me chissà quanto amato. Semplicemente, al ritornello, mi sono rivista in sella alla bici falsamente rosa (dovevano averla tinteggiata giusto qualche giorno prima di rifilarmela: sono stata fortunata che nessuno ne abbia rivendicato la proprietà accusandomi del furto. Io, comunque, la pagai, chissà se trentamila lire o forse più).
Ero appena tornata a casa, in una calda giornata di fine primavera, le scarpe di pezza ai piedi, le cuffiette nelle orecchie. Non sto parlando degli auricolari, che spesso uso quando viaggio. Sto parlando proprio del walkman, probabilmente quello di plastica arancio nel quale infilavo le mie cassette. I nastri, come li chiama ancora adesso mio zio Gigi.
Quel giorno ero contenta, forse gli esami erano lontani, o forse ne avevo dato uno da poco. So solo che ero serena, svagata e immersa in chissà quale sogno.
Non che adesso non mi capiti più, ma è proprio vero che a vent'anni si è diversi. Sono convinta che lo siano anche le giovani madri, costrette, magari, a crescere un po' più in fretta di quanto non sia capitato a me, ma in possesso di un'energia naturale, che ti fa respirare, correre, studiare quasi in uno stato di incoscienza. A quell'età, se stai bene e non hai particolari guai di altro genere (guerre in corso, povertà, situazioni familiari tragiche), sei più o meno come un bambino, giusto un po' più grande, il futuro indefinito e la personalità ancora in potenza.
Almeno, io ero così. Ed ero felice.
Non dovevo esserne consapevole, credo, anche se, ai tempi, non mi lamentavo delle ingiustizie subite né mi attaccavo ad alcun stravagante capro espiatorio. Quando ero triste (e figuriamoci se non capitava), scrivevo qualche frasetta sui miei diari, che di solito mi pareva idiota a distanza di pochi giorni, e andavo avanti. Anno dopo anno, esame dopo esame, sogno dopo sogno.
Un giorno ho subito lo stop che mi ha trasformato in adulta. E anche se, ormai, l'ho metabolizzato bene, se mi sono fatta una ragione della mia inestirpabile emotività, so che prima, ai tempi della camicia colorata che portai con me anche a Vienna, durante il corso di tedesco (la foto cui accennavo prima venne scattata nell'alloggio universitario in cui abitammo, mia sorella, una compagna di università ed io. Almeno credo che fossimo tutte e tre nella stessa stanza), ero felice.
Ero una bambina felice. Ascoltavo Beethoven, guardavo il Reno (questo l'anno prima, durante l'Interrail con mia sorella), scrivevo noterelle di viaggio, ripetevo Ich bin, du bist etc etc, ed ero contenta. Sognante e contenta.
Quella bambina non c'è più, sono stati proprio i Rem, con quella canzoncina allegra, a darmi l'esatta misura del tempo trascorso.
Vi giuro: non sono triste, giusto un pizzico malinconica. Non avendo figli, però, non posso che intenerirmi per la me stessa di ieri e per i miei adorati quattrozampe.
Quando vedo i nipoti, certo, mi capita di provare qualcosa di simile per loro: confido ardentemente nelle loro capacità e nei loro talenti e spero che anche loro, un domani, possano ricordarsi di quanto sono stati amati, negli anni più belli della vita.
Io lo sono stata. Ed è amaramente dolce rendersene conto.

giovedì 18 luglio 2013

Riti propiziatori di vario genere contro la iella


Ci siamo: l'estate è esplosa, finalmente, ma come spesso è successo anche in passato in analogo periodo, l'afa è ancora molto limitata. Stamattina, per dire, al mare si stava da dio e confesso che non me ne sarei mai voluta andare via. E però, come ormai stra-noto per i pochi amici che mi seguono anche qui, il giovedì è il giorno del mercatino estivo qui a Fermo e siccome ho deciso di partecipare giusto nel mese che mi ha dato i natali, mi tocca andare ad allestire. Tra un'oretta circa, mi caricherò dunque di banchetto, sedioline e poche altre carabattole e andrò a rioccupare la mia molto contenuta postazione.
Solo a fine esperienza, ossia tra due giovedì, è probabile che tirerò un bilancio di un'esperienza che mai avrei pensato di vivere. Come già accennato non so più se qui, su Minime Storie o da qualche altra parte (parlo molto, scrivo un po' meno, ma comunque comunico!), sono soddisfatta di come sta andando, sia in termini pratici (c'è molta più gente di quanto pensavo incuriosita dal mio libro), sia da un punto di vista umano. Si fanno incontri interessanti (non tutti, ovvio) e si ascoltano storie minime (e quando mai!) che mentalmente mi vado appuntando.
C'è tuttavia un retro-pensiero dal quale non riesco a liberarmi completamente.
Tengo le dita incrociate e spero.
Stamattina, certo, la radio isolata da una pessima, diabolica interferenza locale m'ha fatto brutto. Detto in italiano corretto, mi è sembrato un presagio di malasorte. Siccome però sono una persona razionale, ho fatto debiti scongiuri interni e sono scesa in spiaggia... dove un poveraccio sembra che abbia perso la vita giusto a pochi metri da noi, abbastanza comunque perché non riuscissi a vederlo.
Mortacci a voi brutti gufi che insidiano la mia ricerca di tranquillità. Mia, peraltro, solo indirettamente.
Una volta scesa in strada, comunque, avrò il mio bel da fare e mi sarà più facile tenere a debita distanza uccellacci e presagi di malasorte.
Insomma: vado.
Come definitivo rito propiziatorio, linko qui una canzone del mio Paolo (Conte), molto in tema con la stagione:





Chips, chips...

domenica 20 gennaio 2013

Il mezzo compleanno



Da oggi comincia il conto alla rovescia fino al prossimo 20 luglio.
Esattamente sei mesi fa compivo 41 anni: dunque oggi è il mio mezzo compleanno, il che vuol dire che da domani di anni ne avrò quasi 42, non più strenuamente 41 fino alla vigilia del mio personale natale. Dichiarerò apertamente la mia età anche a chi, eventualmente, dovesse chiedermela (ma dopo gli anta vedo che accade meno di frequente: nonostante creme e fitness, per una donna, la mezza età continua a essere suggellata con il superamento della boa dei 39 e se chi ti guarda l'ha capito eviterà pietosamente di fare domande indiscrete).
Sarebbe il caso di fare bilanci? In realtà no, anche perché ne faccio di continuo tutti i giorni (e non di rado pure più volte al giorno) e semmai oggi vorrei soltanto rilassarmi.
Ci tenevo tuttavia a fissare sul mio lagnoso blog personale questa abitudine del mezzo compleanno, che esiste da ben prima che arrivassi a 40 anni.
Se non vado errata, ho cominciato a percepirmi con l'anno in più sulle spalle prima dei 30, altro step piuttosto sentito dalle donne, o almeno da quelle che conosco io.
Nella versione anonima di questo spazio, che ho conservato più o meno finché è durato Splinder, ho pubblicato varie foto della me più giovane, compresa una scattata nell'estate 2001, in un periodo molto importante della mia vita.
Avevo bisogno di buttar fuori chi ero forse per capire meglio chi sono.
Sotto questo aspetto (ma chissà) ho l'impressione di essere a buon punto, ma temo che sia difficile che lo si percepisca all'esterno. Non escludo, quindi, che scriverlo quassù, adesso che potenzialmente sarei come su una pubblica piazza, mi serva per lanciare qualche messaggio neanche tanto sottinteso.
A quasi 42 anni non è più il caso di perdere tempo, meno che mai con chi si ostina a vederci come quando ne avevamo molti meno.
I mutamenti sono lenti, certo, e spesso non sono chiari fino in fondo neanche a chi li vive, però con pazienza, rispetto e ascolto reale li si può vedere. Direi proprio che siano leggibili in tutto ciò che siamo, che facciamo, ed è così bello quando qualcuno, finalmente, te lo fa notare.
A me piace vedere i cambiamenti altrui, soprattutto quando rendono migliori.
E non credo sia solo una questione d'età, benché sia proprio grazie ai miei anni in più che ho capito quanto sia importante non nasconderli, per l'infantile paura di deludere chi continua a vederci come eravamo un tempo.
Ho capito anche un'altra cosa: non è solo la distanza geografica e cronologica a cristallizzare i rapporti ad anni passati. E' più quella mentale a fare la vera differenza: se c'era già prima, è difficile che dopo, con il rarefarsi degli incontri, si possa recuperare il tempo perso e imparare a conoscersi daccapo.
Sarà successo molte volte anche a me di inquadrare qualcuno in un modo e di non essere stata in grado di percepirne i mutamenti con lo scorrere del tempo.
Fa male quando capita con le persone che una volta ci sembravano tanto simili, tanto amiche, ma, per l'appunto, è sempre bene interrogarsi se non ci sia stata anche da parte nostra una certa quota di schematizzazione.
Ci sono persone, per dire, che mi mancano moltissimo, ma riparlandoci di recente, ho capito che ci siamo allontanate. Con altre, invece, non è successo, ed è davvero un miracolo ritrovarsi come se ci si fosse visti il giorno prima.
In ogni caso, come già ho considerato in post simili a questo, non ho più intenzione di fingere stati d'animo che non provo pur di risultare gradita alla collettività. La "Cica" non c'è più, la "Mussolini" men che meno, "Alina", forse, un po' è rimasta soprattutto perché come ai tempi in cui fu coniato quel soprannome, non ho smesso di tenere diari.
Chi sono adesso? Sempre la stessa scassapalle, con qualche ruga (accidenti quante!) in più e il solito sarcasmo a tratti greve.
Gli anni vissuti sono però molti di più e anche se penso tuttora di avere ancora una corazza solo all'apparenza dura e se mio marito prende sempre in giro il mio presunto autolesionismo, non ho davvero più voglia di farmi inutilmente del male, tentando di essere ciò che non sono.
Mi basta quel che sono e quel che voglio diventare. E farò di tutto per non perderlo di vista. Per non perdermi di vista.
E come ho già detto, chi mi ama mi seguirà. Pazienza per gli altri.
Auguri a me, quasi 42enne.

martedì 14 agosto 2012

Pesce d'agosto per Sfaccendato, l'ultimo contestatore



Per caso notate qualche somiglianza?
Lo premetto: il presente è un post-scherzetto dedicato a Sfaccendato (che fa pure rima) alla vigilia di Ferragosto. Una specie di pesce d'estate, insomma.
Chi sarebbe il tipo sopra il volto a me (e alcuni di voi lettori) più noto? E' il protagonista di un telefilm tedesco rimasto fermo agli anni Ottanta a causa di un coma ventennale. Quando si risveglia, naturalmente, tutto intorno a lui è cambiato, a partire dalla figlia che lui ricordava bambina. Potrebbe sembrare l'incipit di una tragedia, invece no: il suo essere - e soprattutto sentirsi - fuori dal tempo lo costringe, questo sì, a bizzarre sedute dalla psicologa della polizia, ma lo rende ancora di più simpatico agli occhi di noi telespettatori, per via della sua totale mancanza di diplomazia e per quella sorta di goffaggine posseduta di solito da chi non si adatta facilmente ai gusti della maggioranza. Mick Brisgau (così si chiama il personaggio interpretato dall'attore protagonista del telefilm: Henning Baum) potrebbe ricordare il Moretti di Caro Diario, quello che ha capito che farà sempre parte di una minoranza di persone in qualsiasi contesto si verrà a trovare.
Sfaccendato è uguale e forse - se l'ho sposato - anch'io, benché lo mascheri meglio di lui o almeno lo credo. Perché, poi, quando devo dire la mia, in genere difficilmente mi trattengo e quasi sempre il mio pensiero non coincide con la vulgata maggioritaria. Ma torniamo a Sfaccendato e al telefilm tedesco. Anzi: ai telefilm tedeschi dal medesimo seguiti con assiduità via via crescente. Sì, perché da poco, quando ceniamo abbastanza presto (mai troppo per i suoi parametri. Ha sposato una terrona? Non gli resta che adattarsi), ha preso a seguire Siska, nato sulle ceneri di Derrik, suo pari quanto ad assenza di ritmo e ad ambientazioni da Germania dell'Est.
Di recente aveva introdotto, tra le nostre abitudini del dopo cena, anche Fast Forward, altra produzione crucca, protagonista il commissario Schnell, una piacente e procace mora, all'apparenza più italiana che teutonica se non fosse per l'altezza decisamente sopra la media (beh, non mi sto basando sulle mie misure, altrimenti non sarei obiettiva). Era forte, ma poi la serie è finita e non so se la riprenderanno.
Poco male: Sfaccendato si è illuminato quando ha scoperto che davano di nuovo Matula, altro serial stavolta ambientato a Monaco (mi pare), con un attore ormai ben oltre l'età della pensione di vecchiaia, che ha i capelli come me. Anche lì ritmo a profusione, ma Matula ama farsi un bicchierino di vino rosso ogni tanto e cucinarsi prelibatezze italiane, perciò, alla fine, mi sono affezionata pure a lui.
Ed eccoci arrivati alla scoperta più recente: il suddetto Last cop, con le sue manie e il suo caratteraccio. In questo caso, beh, il ritmo c'è, dato anche dalla colonna sonora tutta anni Ottanta, quella della nostra infanzia-adolescenza. A occhio, hanno cercato di invecchiare l'attore protagonista, classe '72: per quanto nel resto d'Europa si facciano figli prima, se il personaggio rispecchiasse la sua età reale, sarebbe stato un padre ben giovane al momento dell'incidente che l'ha mandato in coma.
Stasera, però, ci perdiamo la nuova puntata, perché Sfaccendato, che mi vuole tanto bene, mi asseconda nel mio "desiderio di gite", una frase che scrivo non casualmente tra virgolette avendola mutuata sempre da lui, poco amante di code e intruppamenti da vacanzieri della domenica.
Ed è proprio per farmi perdonare di averlo sottratto al telefilm che gli sto dedicando questo post, con tanto di galleria fotografica finale personalizzata:



Lì per lì non ci avevo fatto caso, ma sapete come si chiama il primo brano rubato (accidenti: speriamo che non se ne accorga la Siae...) a Paolo Conte? Berlino, naturalmente.
E benché Sfaccendato non sia mai stato nella terra dell'efficienza e l'ordine (mitologicamente parlando), inconsciamente devo avere cominciato a considerarlo un po' crucco anche lui.
Fino a quando, una volta trasferitici lassù, non individui un'altra teutonica maggioranza dalla quale dissociarsi.
Però la sua musica è proprio bella.
Accidenti se lo è.

lunedì 9 luglio 2012

Ridere e andare. Oltre la nostalgia

Fin dentro all'anima

Nel profilo di Blogger ho scritto, già tempo fa, di essere una "paolocontiana di ferro". A parte la cacofonia della definizione, resta però vero che lo sono. Altro che se lo sono. E mi stupisco anche di scoprire sempre nuovi dettagli sul percorso musicale del Maestro astigiano che me lo rendono ancora più simpatico.
Per la precisione: più mi accorgo delle analogie tra il suo modo di suonare e quello di Duke Ellington e più capisco quanta strada sia passata sotto i sandali della sua vita.
Pur essendo cresciuto a pane, latte e jazz, infatti, il Paolo per eccellenza  non si è mai considerato un purista del genere, al punto che agli esordi, anzi, tutto si sarebbe detto fuorché che jazzava.
O meglio: jazzava assai al liceo e nel tempo libero, ma al grande pubblico si è mostrato innanzitutto come cantautore. L'ennesimo, aggiungerei, com'era costume a cavallo tra i Sessanta e i Settanta.
Poi, però, la fama è arrivata e con essa la possibilità di fare sempre di più come gli pareva.
Se mai virata più decisa verso il Cane giallo della musica c'è stata, forse la si può ravvisare nell'album "Novecento", il secolo nato insieme con il jazz, per così dire.
E tuttavia, conoscendolo almeno un po', sono sicura che continua a non sentirsi affatto uno jazzman, bensì, forse, "uno che suona" e "che canta" alla maniera degli stralunati chansonnier di Francia, alla Gainsbourg più che alla Aznavour, direi, visto quanto il Maestro stesso ha dichiarato in più di un'intervista.
Ma com'è che m'è venuto in mente tutto questo?
Perché in questi giorni ho realizzato una piccola, artigianale, ma molto partecipata galleria fotografica sul saggio di Sfaccendato e i suoi compagni di Accademia musicale. Come colonna sonora, ho scelto vari brani del Paolo nazionale e uno di Tom Waits, che, guarda caso, può ricordare il primo (la Russian dance che ho usato come commento alle fotografie del sosia sangiorgese dell'artista americano non è troppo diversa da Ludmilla, a pensarci bene).
E poi, la notte della notte bianca, non potendo dormire, mi sono messa ad ascoltare in cuffia Gong-oh, l'ultima raccolta del Nostro, come spesso faccio quando voglio rilassarmi.
Ed ecco che si è compiuto l'ennesimo incanto: ho capito, più profondamente, "Una faccia in prestito", il brano dell'album omonimo degli anni Novanta, in cui il Maestro si approssimava all'età anziana.
"Ho nostalgia di un golf, di un dolcissimo golf di lana blu", dice a un certo punto.
Per la prima volta ho visto quel golf e ho sentito tutta la malinconia della vita che se ne va e del futuro in scadenza.
E tuttavia non ero triste né forse lo era, almeno non del tutto, il Maestro che infatti nel testo aggiunge "Non piangere coglione, ridi e vai".
Quel maglione non c'è più né mai ci sarà, ma starsene dietro le quinte "ingolfato di swing e di lacrime" a qualcosa gli è servito: da quel giorno niente è più stato lo stesso e Paolo lo sa.
Niente resta uguale, ma tutti i tasselli, prima o poi, tornano al loro posto.
Perciò niente lacrime, almeno non troppe.
Rido, sì, e vado.
A Francavilla al Mare, tra i cafonacci, ma per una buonissima (e dolcissima) causa.
Buoni giorni d'estate a voi e buon ascolto: