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lunedì 11 gennaio 2016

Reinventarsi senza eroi, ma con lo sguardo fisso lassù




Ok, d'accordo: bisogna attaccarsi al presente. Peccato, però, che il presente faccia obiettivamente piuttosto schifo. Non voglio unirmi al coro generale di cordoglio per la scomparsa di David Bowie, semplicemente perché conosco troppo poco la sua musica per poterne parlare in modo sensato.

Di certo, non lo nascondo, il video di Lazarus, il pezzo dell'ultimo disco Blackstar uscito solo l'8 gennaio, giusto il giorno del suo compleanno, poco prima di dire addio alla Terra (e ai suoi cari), mi ha fatto un certo effetto.
Doveva essere, resterà per sempre, un'icona di fascino e di sensualità difficilmente replicabile.

Vi dirò, peraltro, che l'ho trovato particolarmente irresistibile nel concerto di Berlino (sopra Heroes da quel concerto) di cui oggi molti parlano, quello del 2002, in cui il Duca Bianco, come lo chiamavano, era poco meno che sessantenne. Non so se capita solo a me, resta il fatto che trovo assai più interessanti gli uomini (e le donne) con qualche segno del tempo sul corpo piuttosto che gli sbarbatelli muscolati.

Certo: ho appena visto due pezzi cantati da Bowie nel 1973 e beh, era uno spettacolo per gli occhi e non solo, pure allora.
Sarà forse che per molti come me che si approssimano alla mezza età a grandi falcate è ancora urgente avere qualche modello di riferimento, qualche eroe in cui credere. Qualcosa o qualcuno, se possibile, che parli anche del futuro, del nostro e di chi verrà dopo di noi, e non di un passato che - come quello di Bowie e di quelli che avevano vent'anni o poco più come lui negli anni Settanta - comunque non ci appartiene.

E' dura invecchiare senza eroi, ve lo garantisco. E lo è tanto più se non si accettano quelli precotti (direi decotti) musicali, letterari e politici che la stragrande maggioranza del mondo social (banalmente, semplice evoluzione tecnologica delle piazze e dei bar della stra-provincia nazionale) continua ad accreditare come tali per pavidità e/o opportunismo.

Ma va bene così: meglio essersi accorti per tempo del grave rischio che si stava correndo.
Tolti di mezzo preconcetti e pensieri artefatti, però, che si fa? Come si vive? E chi lo sa.

Di certo, mi ci vorrà un po' di tempo per rimettermi in una qualche carreggiata.
Perché se dovessi basarmi sulle offerte di lavoro che quotidianamente mi segnala Infojobs (verso l'1 di notte, giusto per farmi venire l'ansia, casomai a quell'ora sbirciassi il cellulare: fortuna che non lo faccio mai), adesso dovrei stare già giocando i numeri che mi vengono spesso in sogno.

Ho provato - giuro, l'ho fatto proprio ieri in vista di questo post - a restringere il "campo dei miei interessi", come mi suggerisce uno dei portali per la ricerca del lavoro più gettonati in Italia, ma niente, i risultati restano più o meno gli stessi.
Ve ne faccio qualche luminoso esempio.

L'incipit della mail è sempre lo stesso: "Ciao, Alessandra. Ecco le offerte di lavoro selezionate per te, sulla base delle tue preferenze". Bene: oggi da Fermo mi segnalano una posizione come "carrellista settore cartotecnica". Lo preferisco, secondo voi? La domanda, ovviamente, è retorica. Ma andiamo avanti.

Nella provincia di Ancona, mi si prospetta un attraente futuro come carrozziere, oppure, in alternativa, come aggiustatore meccanico di stampi (basta cambiare la i con la a finale, ed ecco spiegata la ragione di questa segnalazione). Se proprio non dovessero bastarmi, potrei sempre propormi per fare il cuoco, il lavapiatti o, udite udite, l'addetto alla fonderia. Eh, ma quante ne vorrò ancora? Ah, ecco: cercano anche un addetto alle pulizie. Ok, quelle, tutto sommato, le faccio sempre a casa mia, magari mi prendono.

Apro l'offerta. E no, non mi prendono: cercano gente iscritta alle categorie protette, che però sappia usare macchinari per la pulizia di tipo industriale. E vabbè, meglio non commentare sennò faccio adirare qualche seguace del politicamente corretto.

Tra i miei mestieri preferiti, c'è quello del fresatore: me lo propongono molto spesso. Dovrò pensarci su. Se fossi stata un po' più grossa (sono muscolata, vero, ma pur sempre femmina e pure tappa), potevo candidarmi come vigilante: mi ci vedevo con la divisa.

E insomma: Infojobs (ormai è sicuro) non mi trasformerà di certo in qualcosa che non sono. Mi piacerebbe tuttavia sapere se a qualcuno è servito. Davvero: c'è qualcuno tra voi che ha trovato lavoro grazie a questo portale o altri? O vale la solita storia del passaparola? In fondo, anche per trovare casa, alla fine, sono serviti innanzitutto i miei occhi cecatelli, grazie ai quali ho visto il cartello vendesi su quello che sarebbe diventato il mio balcone.
Non mi vorrete forse dire che tutta sta' tecnologia è solo un grande specchietto per le allodole e che il lavoro si continua a cercare col solito sudore e consumo delle scarpe? Ma allora di che parliamo quando ci dicono che dobbiamo smetterla di girare e invece di telelavorare? O pure questa faccenda qua è già passata di moda, come credo?

Tolta l'ovvia considerazione sulla fine già giunta non da mo' del mestiere del cronista con taccuino, lapis e cappello sulle ventitré, come lo si vedeva nei film in bianco e nero che tanto mi piacciono, si avrà pure il diritto di ricominciare in qualche altro modo, utilizzando, sperabilmente, le competenze e le esperienze comunque accumulate anno dopo anno?

Sono davvero curiosa (ma mica vero) di leggere il resoconto dell'incontro organizzato domani a Roma dal gruppo parzialmente aderente alla Federazione nazionale della stampa italiana, tale Lsdi, acronimo, piuttosto emblematico, che sta per Libertà di stampa, diritto all'informazione, sulla sfiga generalizzata della maggioranza dei giornalisti freelance.
Secondo i dati raccolti dal gruppo, infatti, pare che ben il 64% e passa dei giornalisti italiani eserciti (per così dire) la professione da freelance, ossia senza un contratto o, se vogliamo essere più eleganti, come autonomo. Bene. Anzi, malissimo: perché di questi ben 4 giornalisti su 10 sono come me, ossia a reddito zero.

Giuro: non voglio lamentarmi. Ho scelto da sola di allontanarmi dalla grande città etc etc, ma resta il fatto che così non si può andare avanti. Chi può, davvero, impari a fare il fresatore. Tutti gli altri, ciccia, imparino, se già non l'hanno fatto, a mutare prospettiva.
Io ci sto provando, giorno dopo giorno, e non da adesso.

Tanto per fare un esempio: sto continuando a studiare tedesco e a leggere/ascoltare l'inglese. Soprattutto, leggo libri (pochi giornali) e cerco di concentrarmi. Su cosa? Su tutto ciò che mi regala la giornata, dall'ora di palestra al telefilm della sera. Sui riflessi del mare e del cielo, sul vento improvvisamente caldo e pure sulle mie mani sempre un po' martoriate. Se posso, condivido le stronzate che scrivo e che fotografo. Cerco, al contempo, di non essere troppo dipendente dalle tecnologie, perché dopo un po' che sto qui a digitare o, peggio, con il collo piegato stolidamente sul dannato smartphone, mi prende un certo mal di vivere.

Vorrei più cultura, più bellezza, più arte, più poesia in queste giornate di "reinvenzione". Per questo, poi, se se ne va uno come Bowie, di cui, ripeto, so pochissimo, mi intristisco pure io.
Fortunato lui e quelli come lui che sono passati alla storia. Che grande privilegio (e spesso dannazione) hanno avuto.

A noi umani normali tendenti allo squallido anonimato non restano che poche tracce di quelle stelle eterne. Cerchiamo solo di tenere lo sguardo fisso lassù. Così, almeno, ci sentiremo più leggeri.
Ciao pure a te, bellissimo Duca.

lunedì 14 dicembre 2015

Dedicato a Mario Dondero

Edoardo Sanguineti, visto da Mario Dondero

Non se ne doveva andare. Non è giusto, anche se dannatamente umano, come lui, tra i grandi della terra. Uno di quelli dotati della straordinaria capacità di valorizzare tutti, ma proprio tutti.

Fortuna che ho fatto in tempo a incrociarlo e a intervistarlo nell'ottobre del 2010.

Non ho mai rilanciato nulla in modo così esplicito: lo faccio a titolo di pura testimonianza.

E perché a Mario ho voluto bene davvero (come è successo, lo so, a tutti quelli che l'hanno incontrato).

Salutaci l'Eden. Rendilo verde e giovane, come te.


Mario Dondero, il fotografo innamorato dell’umanità


Mario Dondero, visto da Danilo De Marco

“Le piace questa cravatta?”. All’appuntamento Mario Dondero, il fotogiornalista più blasé d’Italia, arriva con un leggero ritardo. Ma arriva e “il ciak si gira” scatta in un lampo. Voleva essere elegante per l’appuntamento, dice, perciò si è messo quella cravatta, che sì, è di un bel verde oliva. Mario dice che l’ha pagata pochi euro, ma chissà se è vero, considerato quel che scrivono di lui i numerosi amici di questo signore della fotografia in bianco e nero, assolutamente (anche se non per pregiudizio ideologico, come poi preciserà) analogica, nato a Milano (ma genovese nell’essenza, com’era suo padre) il 6 maggio del 1928. Molti di loro fanno i giornalisti e gli scrittori, di qui i ritratti sempre molto letterari apparsi sui media. Due anni fa, per esempio, gli è stato dedicato un libro intitolato Dondero 4 20, per i suoi ottant’anni o anzi, per meglio dire, per i suoi vent’anni ripetuti quattro volte. Perché Mario non si sente proprio vecchio, anche se ha accettato di buon grado di incontrare Muoversi Insieme, forse per uno scopo più alto. Al fotografo interessato principalmente all’umanità dei soggetti immortalati nella sua lunghissima carriera piuttosto che alla qualità estetica dell’inquadratura adottata, preme parlare di generazioni, di memoria e di speranza, legati da fili fragilissimi che rischiano di spezzarsi, come racconta nell’intervista che segue. Buona lettura.
Che idea ha del tempo, suo personale?
Non so bene se sono nella seconda, terza o quarta età. In tutti i modi, direi che la vita mi ha abbastanza risparmiato sul piano fisico.
Tra poco presiederà la giuria del Premio Chatwin-camminando per il mondo: è vero che va sempre a piedi?
Sì, non ho la macchina e trovo che camminare e prendere i mezzi pubblici renda più allegri: si fanno degli incontri, si parla, ci si sente dentro la comunità, il che è un tonico dello spirito molto importante. E poi sa perché non mi sento vecchio?
Perché?
Perché amo le donne (ha appena scherzato simpaticamente con una giovane cameriera, scegliendo il thè “Lingua di fuoco”)… la verità è che io ho sempre amato l’amore e trovo che non sia affatto vero che sparisce con gli anni. L’unica cosa che cambia è che si può essere affetti da difetti fisici che non si aveva da giovani, ma l’immaginario legato all’amore è sempre permanente. Quando si è perso questo, si è davvero passati nella quarta età.
Che poi può succedere anche da giovani di smarrirlo, non crede?
In effetti trovo che ci sia una crisi delle relazioni umane piuttosto preoccupante: per me il simbolo di questo è l’ipermercato. Prima c’erano i caffeucci, l’ortolano, le botteghe, se invece trasferisci la vita nel centro commerciale, quando si sono spente le luci è finito tutto. Ma sei sicuro che non ti piace la mia cravatta? (Al nostro tavolino si è unito anche Carlo Madesani, il responsabile di Camera 16, una galleria fotografica di Milano che ha organizzato una mostra sulle foto di Mario che aprirà il prossimo 11 novembre: la cravatta cambia collo).
Come vede il nostro tempo, quindi?
Sento un declino nazionale molto forte: mi sembra che si stiano smarrendo la simpatia, l’allegria e addirittura la speranza. Forse quest’ultima è solo occultata, in ogni caso bisogna farla rinascere.
Come?
Bisogna che chi ha vissuto intensamente passi il testimone parlando con i giovani. Spesso vado nei licei e nelle università e scopro che molti studenti ignorano pagine importanti della storia, non per colpa loro. Invece la memoria della storia va conservata come lezione per il futuro perciò uso la mia piccola tribuna di giornalista come via d’uscita dalla solitudine.
Anche la sua personale? La spaventa la solitudine?
Direi di no. Invece sono un cultore della “reverie”, alla francese: per esempio mi piace guardare il mare in tempesta, particolarmente il Tirreno, il mare della mia infanzia a Camogli, oppure quello del Nord Europa: ad Aberdeen, in Scozia, i pescherecci stanno in verticale rispetto all’onda…
Ha buona memoria?
Medicalmente mi pare di averne una forte del passato remoto e più debole del prossimo. Mi pare che sia un classico dell’invecchiamento, no?
Dicono…  Da poco è stato insignito del premio “Città del diario” a Pieve Santo Stefano, dedicato ai linguaggi della memoria: in generale che cos’è la memoria, per lei?
Ricordarsi dei momenti significativi del passato. Per esempio, andare sulla tomba di Robert Capa: se ho fatto il fotografo lo devo a lui (Mario e Carlo, molto probabilmente, partiranno a dicembre per un viaggio in Usa coast to coast, però a bordo dei pullman Greyhound, per un reportage sulle foto inedite da poco ritrovate di uno dei fondatori dell’agenzia fotografica Magnum e della sua fidanzata Gerda Taro).
Che cosa le piace di Robert Capa?
Non tanto il suo coraggio nell’affrontare il rischio bellico, ma il suo sguardo umano, la sua capacità di narrare la storia con un occhio semplice senza elemento estetico sovrapposto. Per me è un modello di umanità.
Su internet gira un video molto bello realizzato dagli studenti dell’università di Teramo in cui lei dice di non aver mai badato troppo all’aspetto artigianale della fotografia: non le piaceva stare in camera oscura, preferiva stare all’aperto…
Ho detto così? In effetti è vero, l’aspetto artigianale m’interessa nella misura in cui mi serve.
Allora perché usa solo la fotografia analogica? Il digitale, in fondo, può essere più comodo…
Ma io non ho una preclusione ideologica al digitale, che tra l’altro ti permette di fare foto in tutte le condizioni, per esempio anche quando la luce è scarsa. Diciamo che a esserne rovinati sono i fotografi, mentre nel campo della narrazione il digitale funziona bene. E poi ho paura che si possano perdere nel computer (nel frattempo Mario ha salutato Giovanni Marrozzini, un giovane fotografo, interessandosi dei suoi progetti futuri: gli stringe la mano quando sente che anche lui usa la pellicola).
Si considera un uomo di talento, un artista o che cos’altro?
Sono un sostenitore delle attività plurime, anche se nella vita ho fatto in prevalenza foto. Per esempio, mi piace molto la radio (è appena tornato dalla festa per i sessant’anni di Radiotre). In generale, non voglio essere incastonato in un cassetto, anche se in Francia sono stato classificato come fotografo letterario per un solo scatto (la celebre foto che ha segnato la nascita del gruppo del Nouveau roman). Devo dire però che quando do consigli ai giovani dico sempre di trovarsi una loro nicchia, cioè di specializzarsi in qualcosa che nessun altro sa fare.
Che cosa l’appassiona particolarmente?
Senz’altro la politica, anche se i romanzi spesso attraversano le epoche meglio di quanto facciano i libri storici (poco prima si è accorto che ha dimenticato da qualche parte un libro in francese di Vasilij Grossman e manda Carlo a cercarlo che per fortuna lo ritrova. Quindi lo mostra al giovane fotografo e ai suoi amici). Due anni fa sono stato annoverato, chissà perché, in un lotto di intellettuali (c’era anche Edoardo Sanguineti che Mario ha fotograto negli anni Sessanta) per parlare durante un programma radiofonico di cinque libri per me significativi.
Posso saperne i titoli?
Certo, sono tutti da consigliare ai lettori: Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, La luna e i falò di Cesare Pavese, Il deserto della Libia di Mario Tobino, Autoritratto di un reporter di Ryszard Kapuściński e Pappagalli Verdi di Gino Strada.
Ha realizzato un reportage dall’Afghanistan visitando l’ospedale di Emergency: perché consiglia il libro di Strada?
Sa che cosa sono i pappagalli verdi? Sono mine anti-uomo di fabbricazione sovietica, ma in Afghanistan se ne trovano anche di italiane: si tratta delle pericolosissime Valmara (in una sua foto si vede un bambino afghano che ne tiene una in grembo come fosse un giocattolo).
Ha fatto il partigiano quand’era molto giovane. Che ricordo ha di quella esperienza?
Avevo diciassette anni, sono stato in Val d’Ossola per quattro mesi fino al grande rastrellamento del ’44: mentre la vivevo non mi rendevo conto di quel che rischiavo. L’ho capito dopo. Una volta ero a Mathausen e guardando nel sacrario degli italiani, ho visto la piccola foto di un ragazzo nato il 6 maggio del ’28 come me: lui era morto, io no. È stato un colpo molto forte.
Il telefonino di Mario squilla più volte finché decide che sia meglio spegnerlo. Non riesce a schiacciare il tasto giusto, così fa in tempo a organizzare una serata a casa sua rinnovata in “stile Rive Gauche Cinquanta” forse in ricordo dei suoi quasi quarant’anni vissuti a Parigi, con il suo amico scrittore Angelo Ferracuti. Soprattutto, comunica alla sua compagna e a una giovane amica dove si trova il bar in cui sta bevendo il suo thè “infuocato”. Mentre sta dicendo che tra le sue “attività plurime” gli piace cantare, ballare e conclude lanciando un’appassionata dichiarazione d’amore al Genoa, la sua squadra del cuore “filosofica” (chissà poi perché), arrivano le due donne e Mario chiede, non si sa bene a chi: “Non trovate che ci sia un’atmosfera erotica?”.
La risposta esatta è certo che sì: c’è tutto l’eros di una vita speciale, passata a illuminare volti di povera gente o di personaggi famosi senza neanche bisogno del flash.

venerdì 11 dicembre 2015

Stoner, post bis sul concetto di eroismo

Sono costretta a dedicare un secondo post a Stoner, il romanzo di John Williams che ho finito di leggere ieri pomeriggio.
Sono un tipo impulsivo (non so se si era capito) e in più sono - ancora per poco - una giornalista: le due cose messe insieme - ahimè - producono pressappochismo.

Sì: è vero che John Mc Gahern attribuisce al protagonista del bellissimo libro la patente di eroe. Prima di lui, però, l'aveva fatto colui che l'aveva inventato.
Per rendere onore e giustizia a questo scrittore così enorme, vi traduco qui il brano dell'intervista uscita pochi anni prima della sua scomparsa (avvenuta nel 1994), nella quale Williams spiega meglio di come potrebbe fare chiunque altro chi sia per lui Stoner.

Vado. E scusatemi per la traduzione imperfetta (meglio, spero, di quella di Google).

Io penso che sia un eroe vero. Molte persone che hanno letto il romanzo credono che Stoner abbia avuto una vita così triste e brutta. Io penso invece che ne abbia avuta una davvero ottima. Di sicuro, molto migliore di quanto capiti alla maggior parte della gente. Ha potuto fare quel che voleva fare, ha provato anche qualche sentimento verso quello che faceva, ha esperito in qualche maniera il senso dell'importanza del lavoro che svolgeva. E' stato un testimone dei valori che contano... Il punto centrale nel romanzo per me è proprio il senso di Stoner per il lavoro. Insegnare per lui è un lavoro - un lavoro inteso nel senso più buono e onorevole della parola. Il suo lavoro gli ha dato un particolare tipo di identità e lo ha reso ciò che è stato... E' l'amore inteso in questo modo che è essenziale. E se si ama qualcosa, lo si capirà. E se lo si capisce, s'imparerà molto. La mancanza di quell'amore si traduce in un cattivo insegnante... Nessuno può mai conoscere tutte le conseguenze di ciò che si fa. Io penso che tutto si riassuma in ciò che ho cercato di fare in "Stoner". Non si può che seguire la propria fede. Ciò che conta è permettere alla tradizione di andare avanti, perché la tradizione è civilizzazione".

Immagino - ma correggetemi se sbaglio - che la parola "tradition" significhi qualcosa come obbligatorietà dell'istruzione (education all'inglese, che è ben di più), come unico baluardo contro la barbarie e l'ignoranza (all'italiana maniera).
Insomma: Stoner, con il suo lavoro, ha permesso ad altre persone di dotarsi di qualche strumento per conoscere se stessi e il mondo senza paraocchi.

Credo che chi fa bene il suo lavoro, fosse pure il calzolaio, compia un'analoga operazione.
Perciò la vita del protagonista di questo malinconico, a tratti straziante libro, è stata bella ed eroica.
E anche se quasi nessuno dei colleghi e pochi dei suoi studenti sembrano sapere chi fosse davvero, è ben curioso il destino che, al di là delle pagine, questo personaggio letterario ha avuto realmente.

John Williams, probabilmente, ci sta ridendo su.

Rileggendo l'introduzione di John MCGahern, ho poi fatto una seconda scoperta: gli altri romanzi di Williams sono completamente diversi da Stoner.
Aspetterò giusto un attimo, ma credo che me li procurerò.

A voi buon lavoro.

giovedì 10 dicembre 2015

Stoner, il senso di una vita


Sto per compiere uno sforzo quasi sovrumano: offrirvi una recensione a caldo di Stoner, il romanzo di John Williams scritto nel 1965, diventato un caso letterario solo un paio di anni fa.
Personalmente, ne sono venuta a conoscenza solo il mese scorso, quindi ben dopo il periodo in cui, persino sui giornali italiani, notoriamente in ritardo sull'attualità che conta davvero, ne era giunta l'eco.

Ho appena riletto l'intervista a Ian Mc Ewan a La Repubblica, in cui lo scrittore inglese spiega come mai ne sia rimasto completamente conquistato. Leggetela pure voi, se vi pare.

Qui invece vi dico perché, se ne avete il coraggio, dovreste farvene conquistare anche voi.

In 288 pagine - quante sono nella versione inglese che orgogliosamente sono riuscita a finire quasi senza aprire il vocabolario - scorre una vita minima solo all'apparenza.
William Stoner è un professore di letteratura all'università del Missouri, proveniente da una famiglia contadina. Alla materia che poi insegnerà si appassiona durante gli studi di agraria da un giorno all'altro, quasi senza rendersene conto.

Ed è proprio nella parola passione la chiave di tutta la sua storia. E nel suo opposto: l'indifferenza, forse si potrebbe usare meglio la parola inglese "ignorance", di cui Williams e il suo Stoner parlano verso la fine in modo preciso.

In tempi di condivisioni all'eccesso delle proprie superficiali emozioni, leggere di uno che a un certo punto della vita si accorge di non essere affatto diverso dai genitori e dai genitori dei genitori e via andando ancora più indietro nelle generazioni, nella capacità, attitudine del sangue direi meglio, di mostrarsi al mondo con una specie di maschera neutra, mi ha fatto pressoché sobbalzare.

Conosco persone che fanno la stessa cosa, educate a un riserbo di sapore contadino che ha tutta la mia ammirazione. Un pochino così è anche mio padre. E forse pure il solito Maestro astigiano, che pure di estrazione contadina non è.

Stoner, alla fine, è un eroe, e sono assolutamente d'accordo con lo scrittore che ne ha curato l'introduzione nella versione che ho io del romanzo (John McGahern) sul fatto che se tristezza c'è un questa storia, è la tristezza di ogni vita. Di quella di ciascuno di noi.

Per apprezzarlo, però, dovete essere disposti a guardarvi dentro e a riconoscere il senso di "failure" (c'è scritto proprio così) che ci afferra più o meno tutti nei rapidi bilanci che facciamo tra un anno e l'altro.

Il protagonista si interroga se non si possa giudicare così la sua vita verso la fine (non vi dico in quale circostanza, potreste desistere dall'aprire il libro), ma ancora più sorprendente e, direi quasi rasserenante nella sua segreta ironia, è la conclusione alla quale arriva.

Nella vita è riuscito a ottenere proprio tutto. Esattamente tutto quello che ha desiderato: insegnamento, matrimonio, casa, figlia, amante, letteratura, scrittura. Pure sul suo nemico collega di università riesce a ottenere una specie di vittoria morale.

In Stoner domina dunque una certezza: niente ha senso se non la vita in sé. Basta solo esserne consapevoli, semmai sta tutto lì il problema. Il protagonista di questa commovente storia è uno di quei fortunati che l'hanno capito per tempo.
Chissà che cosa ne pensava veramente il suo autore, che è stato un professore di letteratura come il suo personaggio, ma ha precisato non esservi alcun elemento autobiografico in quel che ha lasciato in eredità a noi posteri.

Sinceramente, io ci credo poco. Certo, uno scrittore degno di questo nome è sempre in grado di mescolare la realtà con la finzione facendo affidamento sulla propria abilità con le parole.
Ritengo tuttavia che si riesca a essere credibili solo quando si racconta qualcosa che si conosce molto bene. Intimamente bene.

Intimità. Ecco: Stoner è una di quelle storie da assaporare in solitudine, facendosi anzi vanto di essere capaci di starsene lì minuti, ore, a dialogare in silenzio con frasi e periodi così ben allineati.

Non ho idea di come siano gli altri romanzi di Williams.
Sono in ogni caso davvero grata al gruppo di lettura creato da Romina Coccia nel piccolo negozio Mingus di Porto San Giorgio per aver scelto questo suo romanzo come libro del mese.
Non so se agli altri abbia fatto lo stesso effetto che ha fatto a me.

Ne parleremo martedì prossimo, giorno previsto per l'incontro-resoconto.
Spero di poterci essere.

lunedì 30 novembre 2015

Nuova vita, nuovo lavoro: give me a chance, please



Se non fosse venuta mia cugina, dubito che sarei riuscita a tornare in quel posto con la leggerezza che, tutto sommato, ho provato.
Cioè, intendiamoci: sono piombata in una delle stanze che ben conoscevo un tempo con un fortissimo scetticismo, alimentato, peraltro, anche da quel che ho sentito lì dentro.
Mi pare di capire, detto in soldoni, che la politica europea e italiana delle quote accettabili sul suolo patrio di migranti non funzioni proprio benissimo e anche se comprendo con tutta l'umanità di cui sono capace che quelli che ci lavorano a stretto contatto abbiano l'urgenza di far sapere quanto male stiano le cose, dubito assai che qualcuno dei presenti all'incontro (me compresa, ovvio) potrebbe fare qualcosa per "squarciare il velo dell'indifferenza", usando una delle noiosissime frasi fatte, circolanti in ambienti sociable.

Insomma: come ho già scritto un po' di tempo fa, non credo (non più, comunque) nel giornalismo sociale. Mi spiego meglio: credo che il giornalismo, se fatto bene, abbia una natura sociale, socializzante e solidale di per sé, senza bisogno di ulteriori aggettivi.
Come farlo bene? Lo dico apertamente: dietro sonante denaro. Per scrivere pezzi seri, fare reportage dal basso o dall'alto, come volete voi, bisogna avere (ma guarda un po') compensi adeguati ed editori veri. Diversamente, si scriveranno, filmeranno, condivideranno chiacchiere o punti di vista limitati al mondo al quale si appartiene e dal quale non si ha il coraggio (comprensibile, abbiamo tutti famiglia) di uscire.
Ma andiamo avanti.

Per fortuna, qualche perla rara si trova pure in mezzo alla monnezza.
Alcuni incontri e alcune informazioni raccolte resteranno nella mia memoria e anche il fatto di aver usato l'auto, di essermi vestita e armata di una corazza immaginaria contro uno dei vari mondi che mi ha rifiutato (o che io non ho accettato), male non mi ha fatto.

Ammetto, comunque, che essere stata platealmente ignorata da gente che ho conosciuto e rivisto negli anni e da uno che appena un mese e mezzo fa mi diceva di seguire con attenzione il mio avvicinamento alla Rai, mi ha lasciato lì per lì esterrefatta. Sono tuttavia ben fiera di non aver ceduto nemmeno per un secondo alla tentazione mortificante di ri-presentarmi.
E, tutto sommato, quel che ho sentito dalla voce e il bel viso di Stefano Dionisi, mentre parlava del suo libro La barca dei folli , sulla malattia mentale mi è stato utile.

L'attore lascia trasparire la sua fragilità: sinceramente non mi è sembrata costruita. Temo tuttavia che il circo delle presentazioni che si scatena quasi in automatico per i vip dell'editoria potrebbe danneggiarne l'autenticità. E trasformarlo in una macchietta.
In bocca al lupo di cuore: il dolore va rispettato. Sempre.

Avrei voluto scrivere anche cose più crudeli e sarcastiche, ma preferisco andare oltre.
Sto cercando di cambiare lavoro, come qualcuno sa già e come vado ripetendo quasi per convincermene del tutto. Specifico meglio (è una nota che sto aggiungendo solo ora): cambiare lavoro significa per me trovarne uno che niente abbia a che fare con il giornalismo (così il mio amico di liceo, che non aveva capito, e come dargli torto, le mie parole, è più contento).

Una cosa del genere mi è successa molti anni fa, quando ho deciso di andare via da Milano. Anche in quel caso, prima l'ho deciso e poi ho cominciato a dirlo, con una certa ingenuità, nei corridoi del giornale che molto generosamente mi aveva elargito un contratto serio (il solo della mia vita, in pratica), scavandomi da sola la fossa.
In questo caso è diverso, perché sono davvero finita giù in fondo a un burrone ed è come se stessi gridando, da molti metri sotto terra, "ehilà, sono quaggiù, mi sentite?".
Quindi, non ho, in fondo, molto altro da perdere.

Semmai, ho da guadagnare. Una nuova vita.
Blogger sfigata (e culturista) chiama Terra. Please, give me a chance.
Sinceramente, me la merito.

mercoledì 25 novembre 2015

Paolo Conte e il mio post di riserva sul suo dolce mondo



Fatemi scrivere un post di riserva
.
Davvero, non è cosa semplice, per me che sono contiana da quasi trent'anni, raccontarvi, nemmeno recensirvi, Fammi una domanda di riserva, il libro Mondadori curato da Massimo Cotto (bellissima la sua introduzione), nel quale sono raccolte frasi pronunciate dall'avvocato Maestro astigiano dal 1985 in avanti.

Potrei, come ama ripetere spesso il nostro Baffone nazionale, dirvi solo dell'atmosfera, della malinconia più che nostalgia che pervade, a questo punto, non solo le sue musiche, ma anche il suo dire, non solo in formato canzone.

Conoscevo diverse delle frasi qui raccolte, ma messe così tutte insieme fanno decisamente un altro effetto.
Sarà la stagione e le temperature colate a picco, sarà l'età che avanza, saranno questi giorni di vuoto e di pensieri, ma lo ammetto: mi sono quasi commossa.

Ho ritrovato, un capitolo dopo l'altro, molti dei motivi che mi hanno fatto, ebbene sì, innamorare della musica del sempre giovane Canadese (come lo chiamava il suo amico e mentore Mingo Chiodo). E delle sue parole, naturalmente.

Perché se è vero, e lo è, che quasi nessuno gli fa delle domande competenti sulla sua musica, è altrettanto vero il fatto che dalle sue parole non si può prescindere.

E' tutto un complesso di cose che lo rende così unico. E così simpatico. Assai.
Mi piace che dica che non sia colto. Che mangi il minestrone e il bollito nella sua camera d'albergo, pur essendo in tournée all'estero.
Ed è troppo, troppo nostalgico (alla sua maniera) quando racconta dei suoi inizi, della povertà e del dilettantismo con cui lui e i suoi amici si buttavano a fare jazz.

Mi verrebbe da abbracciarlo per quanto scrive sull'essere snob (non lui) e l'essere dandy (avere il culto della bellezza profonda, lui).
E per Maigret, per Camilleri e pure per il giallo svedese di Mankell (quest'ultimo in verità da me scoperto solo per via dei telefilm che gli sono stati tributati in patria con un fantastico attore, perfetta incarnazione dell'anti-eroe).

Dovrò rileggerlo, questo libro: perché, pur essendo godibilissimo, contiene talmente tanto (che fa pure assonanza enigmistica, cosa che l'avvocato capirebbe e perdonerebbe, spero) l'universo contiano da meritare di essere mandato a memoria da noi adepti grati e piccini.

C'è tanto di Parigi e di Asti, nel suo universo. E dell'esotismo non salgariano ma quasi, delle palme e bambù delle origini.
Adesso, alla vigilia dei suoi primi magnifici 79 anni, il Conte nazionale conosce abbastanza il mondo, ma a volte a me sembra, e le sue parole raccolte me lo confermano, che non abbia mai lasciato la sua cittadina di provincia.

Solo un provinciale poteva mettere a fuoco (cinematograficamente parlando) così bene quella nutrita schiera di persone senza importanza che caratterizza molte delle sue canzoni.
Solo un uomo cresciuto con la campagna a due passi poteva imparare, crescendo, a nutrire un così attento amore per i particolari.

Peccato che io non sia una musicista, perché se avessi basi in quel mondo, nel suo mondo, potrei capire ancora meglio come mai dice di amare Franck, da Conte considerato un anticipatore del Novecento, il suo secolo di riferimento, quello che gli ha indotto una tale "confusione mentale" (pronunciato alla francese) da spingerlo poi sulla via del jazz e dello swing, che in verità è un qualcosa che non si spiega, e che anzi, pare, gli scorra direttamente nelle vene.

Il libro ha peraltro confermato alcune delle mie scoperte recenti, ossia i legami tra la sua musica e quella di Ellington e anche di Armstrong, da Conte amatissimo.

Non sapendo, tuttavia, nulla o quasi del jazz degli anni Venti, posso solo credergli sulla parola quando si sofferma sulle differenze tra quel periodo e i decenni successivi.
Cita però Jelly Roll Morton, che ho ascoltato e apprezzato, o un tale (per me!) Tricky Sam, asso del trombone, al quale il Maestro si sarebbe ispirato.

Sapevo del suo desiderio di essere interpretato da Charles Aznavour, ma non che sarebbe stato contento se avesse scritto lui Ma l'amore no, di Giovanni D'Anzi.

Che l'habanera e il fandango fossero pasta per le sue note si capiva, ma non immaginavo che la mamma gli facesse ascoltare i tanghi tedeschi (esistono tanghi tedeschi?).

Della mamma parla anche in un'altra occasione, verso la fine, quando racconta di averle fatto ascoltare Celentano che interpretava Azzurro. Lei pianse e io con il suo ricordo.

Che cos'altro posso aggiungere, a parte il consiglio, accaloratissimo, di leggerlo se siete contiani come me  (i neofiti potrebbero aver bisogno di qualche ripetizione, a mio personalissimo avviso)?

Solo questo.
Per me, Paolo Conte è un uomo dolce, di una dolcezza che solo i veri uomini non nascondono di avere. Tanto più andando avanti con gli anni, quando si acquisisce il senso, come lui stesso dice, del durante.

Da giovane, spiega, non vedeva l'ora di farsi una bella doccia calda dopo una partita, di cenare con i suoi musicisti, dopo un concerto. Adesso gli importa solo di essere lì, a pestare di note il piano (o il vibrafono e il kazoo), felice se qualcuno lo segue o lo applaude con la foga che si destina agli acrobati e ai clown.

Pur essendo molto più giovane di lui, mi riconosco alla perfezione nelle sue parole.
Non le ho assolutamente fatte mie, nella quotidianità, ma, davvero, vorrei arrivare a un tale grado di riconoscenza nei confronti della vita da non nutrire più nient'altro che la gioia di essere, di esserci, su questa dannata terra.

Peccato che il Conte preferisca le brune, dimenticavo.
Ma, del resto, per me lui è un Maestro dell'anima, mica un immaginario amante.

E poi, se devo proprio dirlo, preferisco i bruni pure io.

Grazie a Massimo Cotto per il suo libro.
Rosico un cicinin per non essere entrata tra quelli da cui ha attinto per i suoi testi (il mio pezzo è uscito negli stessi giorni in cui c'era su Io Donna l'intervista della mia conoscente, bravissima, Giulia Calligaro, riportata nella bibliografia).

Ma cosa importa?
La fama non dura.

La musica del Maestro, sì.

giovedì 19 novembre 2015

Billy Elliot e i sogni (si spera) contagiosi dei ragazzi


Prima di tutto, una piccola confessione: non sono un'esperta di musical. Sarà per questo che ieri sera, a un certo punto, diciamo intorno alle 23, ho cominciato ad agitarmi vieppiù sul seggiolino alto del palchetto dell'affollatissimo Teatro dell'Aquila di Fermo, dal quale ho assistito alla messa in scena di Billy Elliot, tappa esclusiva regionale dell'allestimento curato da Massimo Romeo Piparo, con le musiche di Elton John tradotte in italiano.

A essere bravi, erano tutti bravi e in parte: in particolare ho apprezzato Mrs Wilkinson, l'insegnante di danza di Billy, interpretata da Sabrina Marciano. Mi ha poi molto divertito il personaggio di Michael, l'amico del cuore del protagonista, per il cui ruolo di sicuro è stato rubacchiato qualcosa a Elton.

Credibilissimo il fratello maggiore di Billy, il sanguigno minatore difensore dei diritti della classe operaia, che non riesce a capire, insieme con il grosso degli uomini-machi della piéce, per quale motivo un ragazzino preferisca la danza al pugilato.

Forte anche la nonna, anche se un po' troppo caricaturale, per i miei gusti.

Che cosa non mi è piaciuto?
A mio personalissimo avviso, a parte l'eccessiva lunghezza, i balletti non erano eccezionali, a parte quelli a base di tip tap e i volteggi del Billy grande con quello giovane.
La musica, mi spiego meglio, molte volte era troppo potente e troppo energica, mentre lì, sulla scena, il leggiadrissimo protagonista Alessandro Frola, continuava a roteare su se stesso, anche quando, sempre secondo me, avrebbe dovuto tirare fuori più fervore.

A ben guardare, per buona parte dello spettacolo è giusto che Billy non sveli a noi del pubblico tutto il suo talento, ma a me è sembrato che non l'abbia fatto neanche nella canzone danzata davanti alla commissione del Royal Ballet, nella quale ci stava, per l'appunto, spiegando perché ama così tanto ballare. Ma può anche darsi che fossi semplicemente stanca morta e che a mancare d'energia fossi solo io.

Nel complesso, comunque, è stata un'esperienza interessante: davanti a me c'erano due ragazzi più o meno della stessa età dei due protagonisti e del grosso delle ballerine sul palcoscenico. Uno dei due teneva segretamente il tempo e canticchiava le canzoni dello spettacolo. Dall'accento ho dedotto che non fosse di Fermo, ma non ho capito bene se facesse parte anche lui della compagnia. Di certo lui e il suo amico (o il fratello?) con i capelli lunghetti avevano l'aspetto di ballerini. Solo nell'intervallo mi sono resa conto che il teatro era strapieno di adolescenti così ed è stato davvero straordinario osservarli tutti insieme. Quanti talenti, quanto entusiasmo, quanti sogni.

Nelle interviste della Rai che ho guardato ieri alle due piccole star del Billy Elliot nostrano, mi ha colpito proprio quello che entrambi dicono sul loro futuro: tutti e due vogliono diventare "artisti completi". Lo affermano con una sicurezza dalla quale ci si vorrebbe far contagiare, come capita alla già citata Mrs Wilkinson, la fascinosa e disillusa insegnante di danza che è la prima ad accorgersi di quale etoile in potenza abbia davanti a sé.

Il vero spettacolo, in definitiva, erano proprio i giovanissimi attori in scena e quelli intorno a me, immersi nei loro progetti a tutto tondo, bisognosi, però, di tutto il sostegno dei grandi.
Ed è poetico, e si vorrebbe credere anche vero, che il maschilista papà di Billy (l'attore Luca Biagini) addirittura metta da parte la sua aspra battaglia sindacale pur di stare accanto al figlio "diverso".

Il potere delle storie più amate dai noi esseri umani è, concludendo, proprio questo: trasmettere sentimenti di speranza e spiragli di vita nuova. Quindi, onore a voi, artisti e ragazzi innamorati di Billy Elliot.
E soprattutto, buon futuro.

Ps guarderò presto il film che ha dato vita a tutto ciò e, nel caso, ne parlerò. Vi toccherà tornare a trovarmi :)

mercoledì 18 novembre 2015

Umorismo sotto assedio: strategie di resistenza


Sono giorni che rimugino sull'umorismo e sulla sua importanza. Lo stavo facendo, a dire il vero, da prima dell'ennesima barbarie parigina (che viene dopo quella libanese, quella giornaliera della Siria, quella degli studenti keniani di qualche mese fa, quelle periodiche di Boko Haram, etc etc. Così siete tutti contenti, ok?).

Ci rifletto, a dirla tutta, da sempre.
Subito dopo il terremoto dell' '87, mia sorella ed io, guardandoci in faccia nel cortile del palazzo, tra gli altri condomini atterriti, abbiamo fatto qualche battuta idiota su come eravamo conciate. Magliacce da casa, ciabatte schiantate e, conoscendomi, pure un vago unto nei capelli.

Non so più, per amor di verità, se era quello l'argomento che ci aveva aiutato ad allontanarci almeno per un attimo dal dramma collettivo del momento, ma in generale ho sempre pensato, quella volta e in molte altre, che chi non ride mai è piuttosto inquietante.
E di gente che vorrebbe eliminare una delle poche facoltà che ci distinguono dal grosso degli altri animali (ma pare che ridano pure loro), ahimè, ce n'è fin troppa, non solo tra i bastardi del terrore mondiale.

Illuminante è, in questo senso, un articolo dello scrittore Jonathan Coe comparso sul Guardian, che il settimanale Internazionale ha tradotto nel numero di questa settimana, cambiandogli il titolo in La morte dell'umorismo, ben più diretto per il pubblico non britannico dell'originale Is Martin Amis right?.
Nel pezzo, Coe commentava la recente uscita del suo collega Amis, il quale giudica Jeremy Corbyn, il nuovo leader labourista, "un ignorante privo di senso dell'umorismo", una colpa, per lo scrittore, gravissima, quasi più del fatto che si esprima per frasi fatte.

Coe sospende il giudizio su Corbyn (e io, che non so nulla né di Corbyn né di Amis, mi unisco a lui), ma utilizza la storia per parlare della sempre più diffusa abitudine mutuata dai social network di avere sui fatti del mondo due sole opinioni, una positiva una no, su modello dei mi piace/non mi piace di Facebook.

Per suffragare la sua tesi, parla di Charlie Hebdo e delle vignette "anti" Islam all'origine della strage d'inizio gennaio (e del mancato premio americano per la libertà d'espressione per via delle medesime) e poi di un'altra, su Aylan, il povero bambino ritrovato senza vita sulla spiaggia turca, di certo di difficile digestione, forse ancora di più di quella che vedete sopra. 

Sinceramente: in molte di queste vignette io non mi riconosco, ma voglio poterle vedere e semmai giudicarle apertamente oppure, semplicemente, ignorarle. Non accetto, né mai lo farò, però, la censura da parte di chi saprebbe (forse) ridere solo davanti all'idiota che fa che le boccacce su Youtube (che, comunque, per me, ha diritto di starci. Basta non me l'impongano un giorno o l'altro pure sulla pubblicità come hanno fatto con il facciotto di Pif).

Temo tuttavia che Coe abbia ragione. Temo che, davvero, ci sia sempre meno gente in grado di riconoscere i meccanismi dell'umorismo, ossia, riassumendo quanto scrive lo scrittore inglese, quell'evidente contrasto tra due diversi piani di realtà per cui, per esempio, smetti di piangere e cominci invece a ridere perché qualcuno ti ha fatto notare che ti sta calando il muco sul collo, oppure, come con Crozza quando fa De Luca, perché l'imitazione diventa talmente iper-reale che non puoi non ridere anche se ci sarebbe da piangere.

E dire che Crozza non è neanche uno dei più raffinati o, per meglio dire, ha un umorismo abbastanza diretto e popolare. E' proprio il De Luca reale, invece, a dimostrare quel che Coe vorrebbe facesse Corbyn,  ossia l'essere dotato di notevole presenza di spirito: dalla Gruber, quando se n'è uscito con una battutaccia sulla Bindi, che ha scatenato l'ufficiale sdegno governativo, poco prima aveva detto che ogni tanto si trattiene per non essere troppo crozziano. Ci ride su, in definitiva, come Coe spera per il leader labourista che, certo, ha problemi ben più importanti da risolvere che quelli di rispondere agli attacchi di Martin Amis.

Tornando a noi: come fare per non perdere il gusto di ridere? Come resistere al clima di conformismo e di censura/demonizzazione in salsa social? 
Coe cita un libro: The philosophy of humor di un tale Paul Mc Donald. Chi volesse tentare, lo legga e poi lo diffonda.
Mi pare che c'era qualcosa di analogo pure di Pirandello: ma io, mo' ve lo dico, Pirandello non riesco più a leggerlo.

Che altro fare? Innanzitutto, secondo me, usare quella cosa che sta sulla sommità del corpo, appena sotto la pelle della testa (per i pelati) e dei capelli (pochini ma biondini, per quanto mi riguarda).
E poi, lavoro duro, amici miei, cioè training quotidiano, né più né meno che se stessimo esercitando i bicipiti femorali (ahiai...) e il lato B, troppo, davvero troppo, preso di mira da varie, diciamo così, fonti indesiderate (Crozza e il suo InCool8 lo spiega piuttosto bene).

La nuova resistenza passa da cosette così, insomma.
Amanti della risata, unitevi.

lunedì 16 novembre 2015

Valeria Solesin, mia sorella. Grazie, mamma



Valeria Solesin mi somiglia. Soprattutto, somiglia a molte donne tra la sua e la mia generazione che continuano tutti i giorni a lottare per affermare e mantenere il proprio ruolo sociale nel mondo.
Da pochissimo mia sorella maggiore ha cominciato un dottorato di ricerca. Ebbene sì: alla sua veneranda età (48 anni) ha fortemente voluto sfruttare l'opportunità che le offre il suo datore di lavoro pubblico (ah, questi statali) di darsi alla ricerca.
Per riuscire in questo intento, ha studiato tutta l'estate, fino a tarda notte, dopo essersi occupata dei figli, della casa e anche del padre in difficoltà.

Si è sentita pure fare delle battute sciocche (non dico da parte di chi, non vorrei metterla nei guai) sul fatto che, ma come, ti rimetti a studiare tu, che c'hai una famiglia e vari anni sulle spalle? Alla faccia dei cretini di ogni religione e (sub) cultura, lei è riuscita a superare uno scritto e un orale e ora avrà a che fare, forse, anche con giovani come Valeria, una sua possibile sorellina minore, quasi figlia volendo, una di quelle che doveva vivere e continuare a studiare come mai in Italia le donne con figli (ma purtroppo non solo loro) spesso stanno a spasso o sono (troppe volte) semplicemente sotto pagate e in generale sotto valutate solo perché portano tacchi e smalti colorati.

Giusto qualche ora prima che questa splendida mia sorellina minore (volendo mia figlia, se fossi stata una di quelle spose bambine di cui tanto si chiacchiera spesso a sproposito) venisse barbaramente cancellata dalla Terra, mia sorella vera mi stava appunto esponendo le sue indecisioni in merito all'argomento che dovrà trattare nella ricerca: l'istinto la stava conducendo verso la sociologia politica, ma, molto appropriatamente, si domandava se non sarebbe meglio proseguire nei suoi studi condotti quando Valeria andava ancora alle elementari, anno più anno meno, ossia il diritto amministrativo e le sue procedure.

Non so quale scelta farà alla fine, ma potete stare certi che a qualunque cosa si dedicherà, l'affronterà con la stessa serietà ed entusiasmo presenti nell'articolo che la giovane dottoranda italiana alla Sorbona aveva inviato due anni fa a una rivista francese, vedendoselo pubblicare pur essendo un'illustre sconosciuta.
Un fatto che in Italia capita molto, molto di rado.

Colpisce, non solo me, la dignità con cui la madre parla di sua figlia, la voce rotta, ma presente a se stessa. Mancherà, dice questa signora, alla società, Valeria, perché era una persona meravigliosa.
Una madre non dovrebbe mai piangere per la morte dei propri figli.
Se la mia fosse stata ancora qui, sarebbe stata così orgogliosa di mia sorella e se mia sorella ce l'ha fatta a dimostrare ancora una volta quanto sia meravigliosa, il merito è anche suo.

Non è una consolazione, non può esserlo, ma vorrei tanto che la mamma di Valeria lo sapesse: se sua figlia aveva quel gran talento, ma soprattutto se lo stava mettendo in pratica in modo così brillante, il merito è anche suo.

La mia tesina per diventare giornalista professionista riguardava il Libro Bianco di Marco Biagi, ucciso da vigliacchi bastardi non musulmani: i signori colleghi della commissione, nel 2002, mi fecero i complimenti per l'argomento e per lo stile.
Alla tesi di laurea, idem, applausi, per il mio stile di scrittura giornalistico.

Se ho ancora qualche chance di uscire dal guado, lo prometto solennemente in questo momento, lo farò anche in nome di Valeria.
E in nome di mia madre, che per fortuna non ha assistito alle tragedie di questi ultimi tempi.

Aggiungo solo un piccolo, patetico, grazie.

E ora, forza, sotto a lavorare, donne.

domenica 15 novembre 2015

Dedicato a Parigi e alla civiltà



Ci risiamo: bastardi terroristi uccidono nel cuore dell'Europa e sui social si scatenano dibbbbattiti sul fatto che siano o meno da condannare tutti i musulmani del mondo e se quella in corso è una guerra di civiltà.
Sulla seconda parte, lo dico apertamente, io la penso così: quella che si combatte - una guerra, senza se e senza ma - ha a che fare con la cultura e la convivenza democratica e civile tra gli umani, ma la religione, almeno per me, è un elemento di sfondo.

Aggiungo, a scanso di equivoci, che io non sono credente e che ogni volta che vedo il pur degno papa Francesco nei tiggì, penso che sarebbe l'ora di finirla con il confessionalismo da bar che ormai ha catturato tutti i media. Se proprio mi dovete fare vedere l'Angelus, allora informatemi pure su che cosa hanno predicato il Rabbino, l'Imam e il Dalai Lama. O anche no: lasciate che le prediche vengano ai fedeli nelle rispettive chiese.
Detto ciò, veniamo a Parigi e alla bandiera tricolore bianca, blu e rossa che pure io ho scelto, temporaneamente, di piazzare sulla foto del mio profilo.

Qualche mio contatto la pensa diversamente e sostiene che allora dovremmo mettere la bandiera di Beirut (Libano), ma, a questo punto chioso io, pure curda e pure armena, tanto per citare alcune delle tanti stragi passate e presenti che la storia ci dispensa copiosamente.

So benissimo che si tratta di emozioni del momento e che, ahimè, di tragedie di come quella di venerdì sera ce ne potrebbero essere ancora molte.
Però, amici, Parigi è Parigi e per la maggior parte dei cittadini europei sopra i quarant'anni almeno, ma pure di vari giovani italiani che a Parigi continuano ad andare a vivere, è un luogo unico, forse uno dei pochi nel mondo nel quale, forse con un po' di ingenuità provinciale, molti di noi pensano che ci siano ancora spiragli di crescita culturale e professionale.

Aggiungo un'altra nota, piuttosto triste.
La sera di venerdì, con mia sorella, dopo anni che non passavamo insieme un po' di tempo sole lei ed io (e nostro padre), avevamo appena finito di vedere Crozza. Dovete sapere che io fino allo scorso anno non mi ero mai filata "Nel paese delle meraviglie": da quando ho scoperto che piace ai miei nipoti, cuore di zia, ho cominciato a seguirlo. Lo aspetto, anzi, con piacere, sperando di alleggerirmi un po' l'animo (ma come mi sono ridotta).

Avevamo appena spento la tv, ma Linda (mia sorella) mi ha chiesto di riaccendere: "Dai, vediamo se c'è qualcos'altro". Crozza aveva invitato a guardare Mentana, quello vero, e, in effetti, Mentana era lì, abbastanza crozziano, ma, ahimè, con cose da comunicare nient'affatto divertenti.

Siamo rimaste attonite, letteralmente, davanti alle immagini dello stadio pieno di gente immobile. 
Da lì, almeno io, ho cominciato a compulsare freneticamente Twitter, mentre cambiavo canale alla ricerca anche di altre voci. Le prime cronache erano, ovviamente, imprecise e, direi, tutte molto caute e serie.

Perché, come ha scritto qualcuno dopo, stavolta siamo stati colpiti noi cittadini comuni.
Scusate se mi permetto di parlare di nuovo della mia povera vita: la tristezza personale è stata amplificata ancora di più dal fatto di non poter esserci anche io, in uno qualunque di quei tg o di qualche giornale, a seguire e a scrivere con gli altri. Perché l'unico contributo che può dare un giornalista, in momenti come questi, è lavorare a un prodotto collettivo che aiuti chi non fa questo di mestiere a capire che diavolo ci sta succedendo.

Perciò oggi scrivo giusto queste righe. Voglio darvi il mio modestissimo contributo da qui, da blogger quasi ex giornalista, che spera, ancora nella civiltà e nel bene pubblico.

La canzone che linko sopra era in una colonna sonora di Mark Knopfler: ho appena letto di che cosa parla il testo. Parla di ragazzi e ragazze alle soglie della maturità. L'ho scelta perché è affiorata spontaneamente alla mia memoria insieme con una delle sigle di Maigret (Le mal de Paris) interpretato da Gino Cervi, che immagino sarebbe stato assai affranto se fosse vissuto oggi.

La dedico alle vittime del Bataclan, in massima parte ragazze e ragazzi che volevano solo passare una serata insieme a sentire musica che io presumo orribile.
La dedico pure alle ragazze e ai ragazzi che scelgano, alla fine, di non farsi esplodere, pur sentendosi fragili e disperati.

La dedico, infine, alle vittime più adulte di ogni colore e ogni nazionalità, scusandomi se non metto le bandiere delle loro terre ogni volta che qualche bastardo (e purtroppo bastarda) tecnologizzato, ma per me con l'anello al naso, infila una cintura esplosiva o usa un kalashnikov ammazzandoci tutti ogni giorno di più.

Finisco con la cronaca da Parigi da Facebook di un mio conoscente, un fotografo di Fermo che si chiama Marco Illuminati, che sembra quasi che si sia sentito in colpa per essere riuscito a mettersi in salvo.
Non credo che il suo racconto abbia bisogno di ulteriori parole: giudicatelo voi che sapete tutto su islamici e non islamici. Però, per cortesia, non fatemelo sapere.

Non riesco e non voglio uscire dal letto. Ci sono entrato alle 3h17, intero, cosciente, e scosso. Cerco di rompere questo surreale isolamento domestico nel quale siamo chiusi.
Stavo mangiando una pizza ad Acqua e Farina a pochi metri da La Belle Equipe. Eravamo dentro, ho sentito dei botti molto forti, tutti li hanno sentiti. Qualcuno si è affacciato, continuavano i botti. Vedevo qualcuno sulla strada, ci domandavamo se fossero petardi, tutti se lo domandavano. Tra la paura e lo stupore, nessuno osava fare altro che porsi delle domande. Dopo diverse raffiche e colpi singoli, un odore di polvere da sparo. Abbiamo pensato fosse la conferma che si trattasse di fuochi artificiali, non sapevo che le armi da fuoco potessero avere questo fortissimo odore. Poi di seguito, un auto nera si ferma di fronte alla brasserie colpita con le quattro frecce e riparte, gli asiatici dell’emporio di fronte capiscono per primi cosa è accaduto (forse la guerra l’hanno vista) e chiudono per primi la serranda, esco, mi avvicino, con la certezza crescente che non si trattava di una festa a sorpresa. Vedo altri ragazzi nascosti dietro una campana del vetro, due tornano, gridando « sono tutti morti ». Da questo momento, la vista si fa opaca. Mi ricordo solo dei dettagli, mi ricordo una sedia spaccata dai colpi, il legno era spaccato, non forato, credo le armi pesanti facciano questo. Poi il sangue, e poi la terrazza, a fianco del giapponese. La terrazza come un contenitore di corpi, ammucchiati, tra i tavoli e i vetri. La carne macellata era ancora fumante, c’era quel silenzio di morte che si immagina tra il trauma e la reazione, come quel tempo sospeso tra la caduta di un bambino e il suo pianto. Poi una ragazza con i pantaloni neri e la scarpa con il tacco, con la gamba forata sul tavolo, forse con qualcuno che la stringeva, comincia a gridare, e si rompe il silenzio, o forse comincio a sentire. Mi ricordo un uomo a petto nudo che urlava, mi ricordo un ragazzo che filmava e un altro che lo attaccava gridando. Mi ricordo un lavoratore del locale, forse un cuoco sulla porta, immobile, sotto shock. Mi ricordo un ragazzo con la testa sull’unico tavolo in piedi, con un occhio di fuori e lo spot luminoso ancora puntato sul tavolo come in un teatrino dell’orrido. Mi ricordo le luci spente, i vetri rotti, mucchi di ragazzi ben vestiti. Cercavo di ripetermi che erano persone vere. Poi improvvisamente non mi sono più sentito al sicuro, sono scappato, senza aiutare nessuno e senza pensare. Ho corso, sono rientrato all’ Acqua e Farina e ho avuto una fitta allo stomaco. Siamo scappati nella casa di un’amica, fino a quando non siamo riusciti a rientrare. 
A questo aggiungo solo poche considerazioni a caldo. La scena di quella carneficina era uguale a quella che ci capita spesso di vedere nei media quasi quotidianamente dopo un attentato: stessa architettura dei corpi, stesso odore, stesso ambiente di morte. Però questa volta sono vestiti come me. Questo cambia tutto. Il nostro immaginario non si riconosce in queste scene, e il décalage è forte. Non hanno tuniche, non hanno barbe, non gridano in arabo. Sono vestiti come te, hanno la tua età, ti somigliano. Era quello che volevano i terroristi, colpire l’intimità di ognuno, creare immedesimazione. 
Non ho aiutato nessuno, e mi domando perché. Come si fa ad aiutare un cumulo di persone? Puoi aiutarne uno, una persona ferita, mi è capitato più volte. Ma come si fa quando sono tanti? Non sapevo dove mettere le mani, e me ne sono andato, come quando spegni la televisione. 
Penso a chi vive quotidianamente questa situazione, penso alle innumerevoli persone che sono in Francia immigrate che hanno già vissuto queste situazioni. E penso a noi, figli della « belle époque » del « non ci riguarda » o ci riguarda ma in fondo…. 
Per la nostra generazione europea è la prima volta che la guerra entra nelle nostre case, nei nostri occhi, sulle nostre strade in maniera così eclatante e pesante. Non si tratta di una bomba, né della distruzione di un obiettivo sensibile. A fare questa strage sono ragazzi della tua età armati che si mettono di fronte a te per ucciderti, faccia a faccia a pochi metri, per ucciderti, per distruggere la tua illusione di benessere, per strapparti la convinzione che in fondo capita sempre ad altri. 
Lo straniamento è un processo di autodifesa, cerco di restare presente a me stesso.

venerdì 13 novembre 2015

Kafka sulla spiaggia, metafora della nostalgia. Una furberia che ammalia



Mentre scrivo questo post, sto ascoltando il Trio dell'Arciduca di Beethoven, in un'esecuzione di Rostropovich and company che, sinceramente, non mi ricordo già più se è citata in Kafka sulla spiaggia, il libro di Murakami (Haruki, il nome di battesimo, poco nipponicamente parlando) che ho finito di leggere ieri sera.

L'ultima parte, ve lo confesso, mi ha lasciato un po' perplessa: troppo, troppo onirica e fumettistica per i miei gusti. E al contempo, anch'essa, come il grosso di questo affascinante libro, molto, molto attraente.

Perché più passano gli anni e più ne ho la certezza: la perfezione rompe le balle, le crepe nella narrazione e i passaggi inverosimili che mi hanno fatto sorridere in modo spontaneo sono tra i motivi principali per cui posso dire che sì, valeva davvero la pena trascorrere varie ore in compagnia del poco credibile quindicenne Tamura Kafka, dell'uomo-donna Oshima, di Nakata l'autistico che parla in terza persona e dello scombinato camionista Hoshino, tra tutti, il personaggio che meno ho capito.

C'è qualcosa che mi ricorda i cartoni di Miyazaki in questo libro, anche se, obiettivamente, so talmente poco di Giappone e di letteratura dell'estremo Oriente in generale che potrei pure star scrivendo una boiata.

Mi piace comunque assai l'animo pop di Murakami e pure quella che alcuni giudicano un'autentica furberia, ossia il suo continuo citare marchi di abbigliamento in particolare (e calzature: la Nike magari gli passa qualche dollaro per ogni volta che ce la infila, ma chissà), perché, come tutte le altre cose che scrive, lo fa con un'apparente naturalezza che me lo rende simpatico.

E poi la cucina: accidenti quanta attenzione dedica ai piatti della sua terra (pure ai surgelati: voi sapevate che in Giappone si trova il riso fritto surgelato? Io proprio no) e in generale alle funzioni corporali dei suoi personaggi. La cacca è citata almeno un paio di volte. Per non parlare delle eiaculazioni e del glande appena sbocciato di Tamura. Abbiamo capito che vuoi farci credere che parli di un quindicenne, ma, per quanti sforzi tu faccia, caro Haruki, non ci caschiamo. Quello sei tu, rassegnati.

Veniamo però alla storia. O meglio, alle sensazioni che mi ha lasciato leggerla.
Tutti quei dettagli di vita quotidiana e poi la primissima parte e l'ultima, in cui la facoltà di parlare con i gatti passa da Nakata lo scemo (per così dire) al suo improbabile amico camionista, mi hanno messo una malinconia che non so dire.

In certi momenti mi affioravano alla memoria le canzoncine giapponesi del Castello errante di Howl e della Città incantata, i primi due lavori di Miyazaki che ho conosciuto e che tanto hanno significato per me in altri tempi. Forse dovrei rivederli ora, forse mi direbbero cose ancora diverse. O forse rivederli mi darebbe ancora di più la misura del tempo passato.

Ho trovato davvero commovente la descrizione della signora Saeki, il personaggio femminile chiave della narrazione, la mamma con la quale, come Edipo, Tamura Kafka deve giacere.
In vari punti c'è lei quindicenne come il protagonista e lei cinquantenne, identica ma con un sorriso forzato e i tacchi e le perle a differenziarla da com'era un tempo.

Per puro caso (ma chissà), durante questi giorni di lettura, ho scorso velocemente il mio archivio fotografico. In una mezza mattina ho rivisto me e non solo me in questi ultimi dieci anni e pure di più.
Non ho avuto tempo né voglia di soffermarmi troppo a lungo su nessuna delle fotografie (ne stavo cercando una in particolare, volevo ritrovarla nel più breve tempo possibile).

Ebbene: ho avuto una prova materiale della nostalgia di cui è impastato tutto il romanzo. Se si può dare una definizione breve, da tweet, di Kafka sulla spiaggia, potrei solo dire che sia una metafora (una parola ripetuta spesso nel libro) della nostalgia.
Avrebbe potuto parlare anche d'altro, avrebbe potuto non infilarci i soldati dell'esercito imperiale e neppure il serpente vischioso e bianco che Noshino deve uccidere verso la fine: il sentimento principale non sarebbe cambiato.

Se lo si legge con la giusta predisposizione d'animo, insomma, alla fine si piange. O comunque si dovrebbe farlo se non si avesse un cuore pesante più della pietra dell'entrata che ossessiona il lettore da un certo momento in poi della storia.
Io, per dire, ho solo pensato di piangere; ma ho versato talmente tante lacrime in altri momenti (pure recenti) che stavolta, no, nemmeno un po' di sterili goccioline.

Chissà che diavolo stava succedendo nella testa di Murakami mentre scriveva Kafka sulla spiaggia.
Ho fatto un po' di conti: ci ha lavorato quando aveva più o meno cinquant'anni. Credo che questi passaggi decennali angoscino un po' tutti (alla vigilia dei quaranta io, per lo meno, sono andata in forte paranoia). Gli uomini, forse, temono di perdere vigore fisico, ma non saprei.
Sono certa, in ogni caso, che ci abbia infilato dentro un po' dei suoi sogni: si fa davvero fatica a distinguere il reale dal surreale, il che è sicuramente voluto, figuriamoci.

Giusto ieri, per caso, ho letto un pezzo sull'autore nipponico uscito sul Giornale la scorsa estate: era molto ironico (ben scritto, devo dire) e giudicava Murakami assolutamente sopravvalutato.
Non avendo letto che poche cose di lui, non posso concordare.
Però l'articolo ha avuto il grande merito di farmi scorgere le analogie tra lo scrittore e un'altra grande mia passione. Indovinate un po' di chi sto parlando? Ma ovviamente di Paolo Conte, che da poco ha pubblicato dei racconti sulla sua vita (titolo: Fammi una domanda di riserva. Ovviamente me lo procurerò quanto prima).

Invecchiando, il mio amore per il maestro astigiano non è passato, ma ammetto di aver imparato a smitizzarlo.
Sì, perché nel frattempo ho conosciuto vari dei suoi autori di riferimento, da Duke Ellington a Glenn Miller, ma pure autori meno famosi scoperti guardando un sacco di film in bianco e nero e ascoltando qui e là la musica del Bipede soprattutto.
Il buon gattone avvocato ha letteralmente saccheggiato dal jazz e dalla musica francese (e pure quella italiana alla Carosone) un sacco di elementi ritmici e di scrittura.

L'ha fatto, preciso, perché li ha interiorizzati talmente bene da essergli venuto naturale creare uno stile tutto suo, talmente suo da non essere ripetibile per nessun altro musicista che tenti di suonare/cantare alla sua maniera (chi ci prova, in genere, è patetico: ho in mente esempi precisi, ma non sto qui a scriverli).
Il "mio" Conte, insomma, è furbo e sornione, con quei baffoni indisponenti sotto gli occhi azzurro cerei, ma sono ben contenta che lo sia. Che ci sia.

Allo stesso modo, credo, Murakami deve aver fatto lo stesso con i suoi maestri: Checov, per esempio, dev'essere uno che gli piace assai, visto che ne parla espressamente, ma anche Dostoevskij e di certo la tragedia greca, sulla quale, tra l'altro scrive cose interessantissime.

Per me che non so assolutamente nulla, insomma, un po' di intelligente furberia altrui è un elemento positivo, non certo un demerito. Chi è capace di rubare con classe è un grande, per me, detto altrimenti.

Perché tanto, nessuno inventa nulla, la storia, la letteratura, l'arte sono percorse da temi che si ripetono all'infinito: tutto sta a saper trovare la propria voce per tramandarli ancora e ancora a chi verrà dopo di noi. E se questa voce si è formata copiando il timbro di qualcun altro, ma aggiungendovi anche solo un diesis che prima non c'era, beh, tanto di guadagnato per chi ascolta, legge e interiorizza.

So già che molte delle suggestioni che ancora aleggiano in me di Kafka sulla spiaggia sono destinate a sparire. Di Dance dance dance non ricordo nulla, se non qualche riferimento alla cucina (mi piacerebbe vedere Murakami preparare qualche piatto. Magari su You tube c'è pure), ma non importa.

Mi ha fatto ben più che compagnia in questa fase di vuoto e di trasformazione.
Già solo per questo motivo, se siete in analoga fase, leggetelo.
E poi continuate nella vostra vita. Come Tamura Kafka riprende la propria, dopo molto vagare, reale, forse, immaginario di sicuro.

lunedì 9 novembre 2015

Murakami e l'attrazione irresistibile per il micro



Non riesco a smettere di leggere Murakami.
La vita di una persona di una certa età è più amara per la maggior parte del tempo, ed è anche per questa ragione che quando si passano ore in appassionata letteraria compagnia, sembra davvero un miracolo.

Ammetto, comunque, che il clima mite di questo inizio novembre mi stia aiutando non poco a mantenermi lucida. A tratti persino incoscientemente positiva.

Ho spedito un po' di curricula. Nella maggior parte dei casi si tratta di candidature che niente hanno a che fare con il percorso seguito finora.
L'avevo detto e l'ho fatto (sto cominciando a farlo).
Secondo la logica buddista di mia sorella (le poche nozioni che ho in materia sono mediate dalla sua esperienza di neo-adepta), già desiderare fortemente il cambiamento, ti predispone su quella strada.

Sinceramente, visto quel che mi è successo con il concorsone Rai, non credo basti la forza di volontà.
A forza di sentirmi dire dagli amici più cari, anzi, che sarei stata adatta a fare tv, che era arrivato il mio momento etc etc, avevo quasi quasi cominciato a crederci pure io. Per cui potete immaginarvi che delusione ritornare alla realtà.
E tuttavia, nel segreto della mia psiche, ho sempre saputo che poteva benissimo non succedere nulla.

Prima dell'estate, anzi, già mettendomi a cercare con sempre maggiore determinazione la casa qui sul mare, mi ero detta che dovevo ricominciare daccapo. Magari il concorsone è stata solo un'utile distrazione.

Ho avuto infatti l'occasione di leggere molti giornali, di riprendere il tedesco, di ascoltare/guardare un sacco di video in inglese, di riflettere sul mondo dei media e poi, ma sì, di divertirmi a fare prove di improvvisazione in video. Alla fine non ho fatto altro che impiegare il tempo in un modo creativo, come, tutto sommato, faccio tutti i giorni. In privato e quasi in segreto, com'è mio uso.

In definitiva, questo del blog, così minuscolo, continua ad essere la mia dimensione ideale.
Poi, sì, ho bisogno di lavorare (come quasi tutti), ma dubito che se fossi uscita dall'anonimato piombando in kafkiani corridoi aziendali, questo mio istinto alla fuga verso il micro sarebbe passato.

L'unica, sostanziale, differenza rispetto a quando ero più giovane è che oggi ne sono consapevole.
Non ho nulla da dimostrare se non a me stessa.
Da me, sempre, cercherò di pretendere il massimo dell'attenzione. Del rigore e della forza.
Queste doti (sì, sono doti) mi hanno comunque permesso di raggiungere il principale obiettivo che mi ero prefissa negli ultimi anni: comprare la casa.

Non vedo perché adesso dovrei tornare indietro.
Quindi, rifacendomi al titolo della foto che vedete sopra, su il sipario.

(Non vedo l'ora di continuare nella lettura stregata).

mercoledì 21 ottobre 2015

#concorsonerai: riflessioni a margine e poi stop, si volta pagina

La sottoscritta nella foto del cv (e della carta d'identità), anno 2011


Riflessione a margine del #concorsonerai: dopo attento e ponderato ragionamento, sono giunta alla conclusione che l'elenco dei 100 eletti andasse reso pubblico. E pure quello dei non eletti, ma sì. Concordo cioè con quanti sostengono - Usigrai compresa - che la privacy di quei vincitori che vi hanno preso parte pur avendo un contratto a tempo indeterminato da qualche altra parte, in questa precisa circostanza, non c'entra proprio un accidente.

Se si fosse infatti trattato di una selezione privatistica o di autocandidature per altrui lidii (e scrivanie) assolutamente più che legittime (in un mondo normale tutti noi avremmo diritto di cambiare lavoro se e quando ci pare: in altri Paesi, pensate un po', succede ancora che ci si possa licenziare per farsi riassumere altrove), allora ok, la privacy aveva una sua ragion d'essere.

Essendo, invece, un concorso pubblico, allora no, diavolo, tutti noi, cittadini semplici compresi, abbiamo il diritto di sapere chi saranno i 100 nuovi eroi della tv di Stato.
Peraltro, la stessa logica della privacy era stata bellamente disattesa, almeno per qualche ora, con la diffusione sul web del gruppo dei 400 prodi (si fa per dire) di Bastia Umbra, la criticatissima sede della preselezione tenutasi l'1 luglio scorso.

Il mio nome (con relativa data di nascita e sesso, ci mancava solo lo stato civile. Lo aggiungo ora: sono femmina, coniugata, nata il 20 luglio del 1971) è circolato non so più per quanto tempo con gli altri 399 prima che qualcuno rimuovesse il file dalla Rete. 
Ho tra l'altro appena scoperto che la stessa cosa è successa a quello dei vincitori finali (cioè prima reso pubblico e linkabile, poi rimosso), quindi, in verità, chi voleva conoscere i nomi di tutti noi, promossi e bocciati, lo sa eccome. 
Pulcinella con i suoi segreti è proprio un dilettante.

Non voglio tuttavia che si pensi che stia solo rosicando (dopo due giorni e mezzo di lutto, ho capito che è l'ora di farla finita con l'auto-flagellazione). E ribadisco il mio sincero in bocca al lupo ai 100 eletti e a quelli che, eventualmente, dovessero essere via via inseriti).

Dico solo che i tempi in cui viviamo meriterebbero maggiore di trasparenza, a tutti i livelli.
E anche assunzioni di responsabilità.

Comincio io pubblicando i miei voti per esteso:
  • redazione e lettura di un testo giornalistico destinato alla TV: 20 punti (massimo 25 punti);
  • redazione e lettura di un testo giornalistico destinato alla radio: 21 punti (massimo 25 punti);
  • redazione di un “tweet” di 140 caratteri: 3 punti (massimo 5 punti);
  • improvvisazione in video su un tema di attualità: 6 punti (massimo 10 punti);
  • prova pratica volta alla verifica della capacità di utilizzo da parte dei candidati degli strumenti informatici utili all’elaborazione di contenuti audio e video: 3 punti (massimo 5 punti);
  • prova di valutazione della capacità di utilizzo del web: 3 punti (massimo 5 punti);
  • test e colloquio di valutazione della conoscenza della lingua inglese: 6.5 punti (massimo 10 punti);
  • test e colloquio conoscitivo e di orientamento, con valutazione anche del curriculum vitae presentato nel formato standard europeo: 3 punti (massimo 5 punti);
  • colloquio di valutazione della lingua diversa dalla lingua inglese, almeno ad un livello intermedio superiore: 0 punti (massimo 3 punti);
  • valutazione dei titoli: 7 punti (massimo 7 punti) così suddivisi:
    • Laurea Magistrale: 3 punti;
    • Voto di laurea superiore a 105: 1 punto;
    • Master e/o Scuole di specializzazione giornalistiche riconosciute dall’Ordine dei Giornalisti: 3 punti.
  • Punteggio totale: 72.5
Posizione in graduatoria: 210

Ho fatto schifo? Sicuramente sì rispetto ai cento in testa alla classifica.
Non è questo il punto, comunque (e in ogni caso il primo degli eletti ha circa 91, mentre il 100esimo circa 78. Insomma, è come se avessi presi 7- - in bella compagnia, tra l'altro).

Il punto è quello che sto cercando di mettere agli ultimi quindici anni di vita, consapevole (ve lo posso garantire) fino in fondo dei miei limiti, errori, responsabilità e sfighe. Ma anche dei miei meriti.
In cima a tutti, il fatto di essere una brava persona. Non dico onesta, perché sennò faccio la fine di quelli che, in nome dell'onestà, hanno fatto la peggiore delle fini (penso pure alla grottesca vicenda di Ignazio Marino).

Ogni tanto mi incazzo (e pure tanto), l'ho scritto pure nel mio profilo senza usare il francesismo, ma su di me si può sempre fare affidamento.
Quindi?
Quindi nulla.
La vita è breve e, ovviamente, andrò avanti.

Concludo con poche parole sulla scomparsa di Maria Grazia Capulli, un famosissimo volto del tg2, di origine marchigiana, bella di una bellezza che purtroppo non ha fatto in tempo a invecchiare (aveva 55 anni, pensavo fossimo coetanee, anzi, che fosse pure più giovane di me).
Se n'è andata stamattina: l'ho scoperto compulsando pigramente Facebook. Stavo stirando, il Ruggito del coniglio era finito e mi sentivo il morale a terra.
Paradossalmente, leggere della sua prematura morte, mi ha dato ancora di più la misura di quanto questa storia del concorso sia piccola cosa.

Spero per lei che abbia vissuto intensamente ogni singolo istante dei suoi anni.
Con tutta la mia confusione personale e professionale, è quello che cerco di fare ogni giorno.
La vita è più importante di tutto. Ed è - accidenti se lo è - irripetibile ben più di qualsiasi contrattino giornalistico.