giovedì 7 marzo 2013
Piccole soddisfazioni da secchioncella tardiva
Una volta tanto, posso sentirmi contenta. Anzi, super contenta.
Anche se ho un vocabolario limitatissimo e mi prende l'ansia ogni volta che devo parlare in inglese, sono riuscita a superare il primo livello intermedio senza neanche doverlo finire interamente!
Vi assicuro: dà grande soddisfazione accorgersi di fare progressi nello studio, visto che erano secoli che non mi impegnavo così a fondo in una materia.
A dirla tutta, però, dovevo immaginarlo. Due anni fa, dal nulla, mi sono messa a studiare Statistica per un concorso pubblico, e benché non sia servito in termini pratici, già all'epoca mi ero resa conto che studiare mi piace ancora e sì, mi riesce. Il che non era affatto scontato, nonostante il mio buon curriculum scolastico.
Ma le soddisfazioni da secchioncella tardiva della giornata odierna non sono finite.
Poco prima della lezione con un simpatico videomaker sudafricano (pensate un po' come lavora la mia scuola d'inglese a distanza: raccatta insegnanti madrelingua da tutto il globo anglofonizzato), ho ricevuto una telefonata dalla biblioteca Mozzi Borgetti di Macerata, di cui ho parlato diversi mesi fa, in occasione della mia partecipazione a Storie da biblioteca, un'appassionante iniziativa ideata dalla sezione Marche dell'Associazione italiana delle biblioteche per diffondere tra i cittadini la conoscenza delle proprie sedi più belle. In particolare, si trattava di partecipare a un concorso in una o più biblioteche che avevano dato la loro adesione, cimentandosi nella scrittura di un racconto riguardante la sala ospitante e/o immortandola fotograficamente.
Ebbene, sono risultata la vincitrice per la sezione scrittura nella meravigliosa biblioteca maceratese! Non contenta, ho ottenuto anche il secondo premio ex aequo per la fotografia!
Lo dico apertamente: mi ha fatto molto piacere e me ne ricorderò a lungo. Pur essendo, infatti, una piccolissima vittoria, è arrivata del tutto inaspettata in un momento abbastanza oscuro della mia vita professionale.
E poi, lo riconosco, mi sono talmente divertita a scrivere il racconto che potrete trovare nell'ebook pubblicato dagli organizzatori qui linkato, e ho messo anche così tanta enfasi nell'usare decentemente il cavalletto, che un piccolo riconoscimento, un bravo + come quello che la maestra scriveva nei miei quaderni, male non ci stava.
La vita è fatta di inezie, è proprio vero.
Complimenti a me, quindi.
Cin cin!
mercoledì 6 marzo 2013
I giorni dell'anormalità normale
Il vento scuote le piante fuori dalla mia finestra, lieto megafono del cinguettìo di qualche passerotto coraggioso, impaziente come me per questa primavera che non ancora arriva. L'immagine fiaccamente poetica fa da altrettanto debole cappello alle parole che sto per scrivere.
Oggi vorrei parlare di horror vacui e dell'allenamento a questo punto non più solo personale a vivere come color che sono sospesi. Perché, se è vero che il grosso di noi crede di non saper gestire il vuoto, riflettiamo un attimo sul periodo storico che stiamo vivendo: senza governo, senza Papa, senza futuro. Almeno all'apparenza. Il futuro, infatti, c'è per forza, comunque vada a finire.
Sapete anzi che cosa penso? Molti di noi (io di sicuro) ci stiamo bene in questo stato di sospensione. Dire bene, forse, è esagerato, però la strizza per quel che deve venire ci rende più sopportabile anche l'incertezza. E l'horror vacui di cui sopra passa decisamente in secondo piano.
Faccio un esempio più personale.
L'altro giorno ero in cucina con gli zii e mia madre. Sulla tavola due diversi numeri della Settimana enigmistica. Non so come, ma ci siamo messi a risolvere un cruciverba collettivamente, passandocelo democraticamente alla prima o seconda definizione insolubile. Nello specifico, al gioco ho partecipato io con gli zii, mentre mia madre, con gli occhi bassi, commentava ironica: "Ma guarda un po' tu: li avevo presi per me...". Abbiamo riso tutti.
Domenica mattina, poi, ero in auto con mio padre e casualmente ci siamo messi a parlare dei ricordi dei primi anni di vita. Io dicevo che è difficile avere memoria di noi stessi dai due ai cinque-sei anni, ma mio padre non era del tutto d'accordo. Lui, per esempio, non aveva scordato alcune cose, anche se, certamente, a ripensarci oggi erano come sogni, ma di quelli molto vivi che ci portiamo dietro tutta la vita.
E me ne ha raccontato uno, con quella leggera pausa che precede l'atto del narrare a voce alta, che tanto piace da bambini. In quei secondi ho avvertito una specie di sottilissima nostalgia, consapevole di stare vivendo un momento unico, del quale avrei voluto conservare tutto.
E invece. Il racconto mi è giunto a metà, troppo presa com'ero dall'ascolto delle mie emozioni.
C'era la guerra e i bombardamenti. Mio padre era all'epoca l'unico figlio cresciuto in solitudine da mia nonna, nei lunghi anni in cui il marito, mio nonno, rimase lontano, come soldato e poi prigioniero di guerra.
Non si poteva restare in casa, troppo pericoloso. Così mio padre, chissà se impegnato in qualche gioco infantile, venne trascinato via dalla mamma per un braccio, perché potessero rifugiarsi il più velocemente possibile in una delle cavità aperte su un muro di una strada poco distante. E' riuscito proprio a farmi vedere il braccino tirato dalla mamma e tutta la sua ansia, riflessa in quella di lei. Altre volte mi aveva raccontato di quando non aveva le scarpe e dei pantaloncini corti con cui erano soliti girare anche d'inverno. Quel periodo, però, è testimoniato anche dalle foto della famiglia di mia madre, quindi è un ricordo mediato dalle immagini.
Stavolta, invece, la sospensione prodotta era più intima, più segreta.
Certo, adesso che ne ho parlato sul blog, non lo è più, ma sentivo il bisogno di fissarlo qui, a testimonianza di questi inediti giorni di "anormalità normale", per citare un'espressione usata spesso da mia mamma nell'ultimo periodo.
Sento di star vivendo un momento della mia vita molto speciale, di cui un giorno, forse, potrei avere nostalgia.
D'altra parte, la mia natura tende naturalmente alla saudade, ma cerco di tenerla sotto controllo, per paura di risultare pesante.
Non si tratta, tuttavia, tanto del rimpianto del passato (a volte c'è anche quello) quanto della malinconia di non poter trattenere nulla per sempre, neanche certe tristezze obiettivamente dannose.
Tornando al presente e al destino dell'Italia (e della Chiesa!), sarebbe bello se un domani potessimo ripensare a questi giorni con un pizzico di saudade. Come eravamo incasinati, ci pensate? Potremmo dire così ai nostri nipoti.
Già solo sognare di poterlo raccontare è una prospettiva ottimistica, vero?
Sì che lo è. E del resto, tenderò anche alla saudade, ma al contempo sono un'inguaribile illusa.
Vi lascio con una barzelletta stupida stupida, di quelle che piacciono tanto a mio nipote settenne, che me le scrive su Skype tutto gongolante.
Sapete qual è il colmo per la Befana? Non saper giocare a scopa.
Magari, in questi giorni, anche i cardinali se ne racconteranno probabilmente anche di più scollacciate, e forse pure i parlamentari grillini, mettendo alla porta l'horror vacui e la storia che incombe.
Oggi vorrei parlare di horror vacui e dell'allenamento a questo punto non più solo personale a vivere come color che sono sospesi. Perché, se è vero che il grosso di noi crede di non saper gestire il vuoto, riflettiamo un attimo sul periodo storico che stiamo vivendo: senza governo, senza Papa, senza futuro. Almeno all'apparenza. Il futuro, infatti, c'è per forza, comunque vada a finire.
Sapete anzi che cosa penso? Molti di noi (io di sicuro) ci stiamo bene in questo stato di sospensione. Dire bene, forse, è esagerato, però la strizza per quel che deve venire ci rende più sopportabile anche l'incertezza. E l'horror vacui di cui sopra passa decisamente in secondo piano.
Faccio un esempio più personale.
L'altro giorno ero in cucina con gli zii e mia madre. Sulla tavola due diversi numeri della Settimana enigmistica. Non so come, ma ci siamo messi a risolvere un cruciverba collettivamente, passandocelo democraticamente alla prima o seconda definizione insolubile. Nello specifico, al gioco ho partecipato io con gli zii, mentre mia madre, con gli occhi bassi, commentava ironica: "Ma guarda un po' tu: li avevo presi per me...". Abbiamo riso tutti.
Domenica mattina, poi, ero in auto con mio padre e casualmente ci siamo messi a parlare dei ricordi dei primi anni di vita. Io dicevo che è difficile avere memoria di noi stessi dai due ai cinque-sei anni, ma mio padre non era del tutto d'accordo. Lui, per esempio, non aveva scordato alcune cose, anche se, certamente, a ripensarci oggi erano come sogni, ma di quelli molto vivi che ci portiamo dietro tutta la vita.
E me ne ha raccontato uno, con quella leggera pausa che precede l'atto del narrare a voce alta, che tanto piace da bambini. In quei secondi ho avvertito una specie di sottilissima nostalgia, consapevole di stare vivendo un momento unico, del quale avrei voluto conservare tutto.
E invece. Il racconto mi è giunto a metà, troppo presa com'ero dall'ascolto delle mie emozioni.
C'era la guerra e i bombardamenti. Mio padre era all'epoca l'unico figlio cresciuto in solitudine da mia nonna, nei lunghi anni in cui il marito, mio nonno, rimase lontano, come soldato e poi prigioniero di guerra.
Non si poteva restare in casa, troppo pericoloso. Così mio padre, chissà se impegnato in qualche gioco infantile, venne trascinato via dalla mamma per un braccio, perché potessero rifugiarsi il più velocemente possibile in una delle cavità aperte su un muro di una strada poco distante. E' riuscito proprio a farmi vedere il braccino tirato dalla mamma e tutta la sua ansia, riflessa in quella di lei. Altre volte mi aveva raccontato di quando non aveva le scarpe e dei pantaloncini corti con cui erano soliti girare anche d'inverno. Quel periodo, però, è testimoniato anche dalle foto della famiglia di mia madre, quindi è un ricordo mediato dalle immagini.
Stavolta, invece, la sospensione prodotta era più intima, più segreta.
Certo, adesso che ne ho parlato sul blog, non lo è più, ma sentivo il bisogno di fissarlo qui, a testimonianza di questi inediti giorni di "anormalità normale", per citare un'espressione usata spesso da mia mamma nell'ultimo periodo.
Sento di star vivendo un momento della mia vita molto speciale, di cui un giorno, forse, potrei avere nostalgia.
D'altra parte, la mia natura tende naturalmente alla saudade, ma cerco di tenerla sotto controllo, per paura di risultare pesante.
Non si tratta, tuttavia, tanto del rimpianto del passato (a volte c'è anche quello) quanto della malinconia di non poter trattenere nulla per sempre, neanche certe tristezze obiettivamente dannose.
Tornando al presente e al destino dell'Italia (e della Chiesa!), sarebbe bello se un domani potessimo ripensare a questi giorni con un pizzico di saudade. Come eravamo incasinati, ci pensate? Potremmo dire così ai nostri nipoti.
Già solo sognare di poterlo raccontare è una prospettiva ottimistica, vero?
Sì che lo è. E del resto, tenderò anche alla saudade, ma al contempo sono un'inguaribile illusa.
Vi lascio con una barzelletta stupida stupida, di quelle che piacciono tanto a mio nipote settenne, che me le scrive su Skype tutto gongolante.
Sapete qual è il colmo per la Befana? Non saper giocare a scopa.
Magari, in questi giorni, anche i cardinali se ne racconteranno probabilmente anche di più scollacciate, e forse pure i parlamentari grillini, mettendo alla porta l'horror vacui e la storia che incombe.
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martedì 26 febbraio 2013
Speranza per i giovani, nonostante Grillo
Hamaguchi è il giovanissimo fattorino di un'azienda tessile giapponese. Vive in provincia con la famiglia, è povero, ma dalla sua possiede, oltre a un talento fortissimo per il disegno, anche la buona sorte.
Nel giro di poco tempo, infatti, riesce a trasferirsi a Tokyo e a sfondare in una di quelle carriere che un genitore non consiglierebbe mai al proprio figlio. A condurlo sulla strada che ha sempre sognato, una serie di coincidenze e soprattutto l'amore per una ragazza, malata e lontana.
Uscito in Giappone nel 2008 e stampato in italiano da Lyzard due anni dopo, Uno zoo di inverno, il commovente fumetto (detesto la dicitura graphic novel, anche se condivido con gli estimatori di questo genere la volontà di elevarli al rango che si meritano. Quando se lo meritano, naturalmente) di Jiro Taniguchi racconta in forma romanzata l'esordio di uno dei più importanti autori di storie disegnate del mondo.
Oltre all'evidente qualità del segno di questo maestro oggi sessantaseienne, quel che più mi ha colpito del libro è la naturalezza con cui Taniguchi ha saputo parlare di giovinezza, sogno, amore e sì, passione per il proprio lavoro.
In un mondo ideale, tutti dovremmo avere la stessa fortuna di Hamaguchi-Jiro, ma so benissimo che non è così. Ritengo però che sia importante attaccarsi a esempi del genere, romanzati o meno, non tanto per noi adulti, imprigionati in un momento storico davvero incerto, quanto per le giovani generazioni con le quali ci dovesse capitare di interagire.
Scrivo queste parole all'indomani del risultato elettorale, consapevole della spallata che gli italiani hanno voluto dare alla classe politica nazionale, in particolare al centro-sinistra che non è stato, per l'appunto, capace di parlare di speranza nel modo giusto. Qual è quest'ultimo, vi chiederete.
Per quanto mi riguarda, ci sarebbe stato bisogno di instillare fiducia con parole insieme forti e delicate, realistiche e infuocate, tenendo bene a mente il contesto socio-economico internazionale, spread compreso, ebbene sì.
Purtroppo, non credo proprio che i grillini incarnino i miei desiderata e l'angoscia che ho provato prima di andare a segnare quelle inutili crocette era piena di fondamento.
Ma, al di là del mio personale fallimento, di cui, obiettivamente, non frega nulla a nessuno, temo proprio che Grillo & co non siano in grado di alimentare il sogno di nessuno dei loro giovani elettori.
Ieri sera ho sentito la giovane Marta Grande, inebetita, letteralmente, per una vittoria uguale forse solo al suo cognome. E' questo il ricambio generazionale che aspettavamo? Con tutto il rispetto e la solidarietà per le comprensibili incertezze da novellini, ho avuto un'impressione totalmente opposta a quella che mi ha suscitato la storia di Hamaguchi-Taniguchi.
L'autore giapponese (e il suo personaggio principale) non dorme per notti intere pur di finire i disegni che gli sono stati richiesti; quando decide di lavorare alla sua prima vera storia, se ne fa talmente assorbire da tralasciare tutto il resto. Mi verrebbe perciò da chiedere a Marta e agli altri giovani finalmente entrati nelle stanze dei bottoni: voi che cosa vi aspettate dal vostro inedito e delicato ruolo istituzionale? Era proprio quello che sognavate? Volevate così tanto accedere agli scranni del potere da aver tralasciato tutto il resto? O non sarà che non avevate altre prospettive viste le condizioni più che agonizzanti del mercato del lavoro nazionale?
Non ho la presunzione di rispondere: non conosco a uno a uno i neo-parlamentari grillini e di sicuro tra loro ce ne sarà più di qualcuno con la politica (alla greca) nel dna.
Mi resta tuttavia un po' di amarezza per tutti gli ex giovani come me che forse non hanno saputo (per motivi personali) credere fino in fondo nei propri talenti, ma ai quali è stata comunque negata una seconda chance, essendo invecchiati di pari passo con la distruzione progressiva della speranza di cambiamento.
Adesso tocca a voi farci vedere di che cosa siete capaci.
A noi continuare a leggere, scrivere di passioni vere, di sogni autentici, di destini migliori di quello che, probabilmente, è toccato a noi in sorte.
In bocca al lupo, Italia.
giovedì 21 febbraio 2013
Montaigne e la soggettività: una lezione imperdibile. Di vita
Dall'introduzione ai Saggi di Michel Eyquem Montaigne |
Scrivere un diario, scriverlo male, significa normalmente scrivere le cose più importanti, non i dettagli.
Lo dice una delle partecipanti alla conversazione su Montaigne (adesso che lo scrivo mi rendo conto di sapere di chi si tratta... che emozione) che mi ha mandato il mio carissimo amico Paolo Ferrario sotto forma di link su Facebook.
Le stupidate si scrivono identiche anche oggi, qui su questi spazi virtuali, e forse ancora sui diari scolastici.
In ogni caso, l'attenzione ai dettagli richiede tempo, impegno e sì, coraggio.
Consiglio caldamente ai miei pochi lettori di ascoltare la lezione-conversazione su questa grande figura vissuta nel '500, di una modernità sconvolgente.
Mi piace moltissimo l'alternanza tra "l'alto e il basso" (vi sfido a trovare qual è l'uno e l'altro) e lo spirito di condivisione che caratterizza il mio amico (collerico, ma molto molto intersoggettivo) Paolo.
Mi stanno facendo tornare in mente i miei diari cartacei, per i quali provo una qualche nostalgia, semplicemente perché, come Montaigne anch'io m'interrogo su quello che so. E che soprattutto NON so. Tutti i giorni. E se sono passata al diario online è perché la ricerca non è finita (tutt'altro) e spararlo in questo spazio cibernetico mi aiuta a non dimenticarmelo mai.
Grazie della lezione e delle belle voci che la animano.
Buon ascolto a voi.
venerdì 15 febbraio 2013
Nikka Costa e il senso della vita
Di recente ho fatto una permanente leggera per contrastare l'effetto capello-spiaccicato che inevitabilmente si ripropone ogni volta che la poco folta chioma si allunga un po'.
Il risultato? Stamattina, guardandomi allo specchio, tolte - naturalmente - le rughe e l'abbigliamento da casalinga di Voghera (niente a che vedere con le desperate housewives Usa, tanto per capirci), sembravo Nikka Costa. E non la Nikka di oggi, classe 1972, bensì quella che ho conosciuto ai tempi del suo album con il papà Don Costa che, a pensarci oggi, deve essere stato un bel mostro.
Ieri pomeriggio ho visto un pezzetto del concerto che la povera bambina di un tempo fece con il padre all'arena di Verona. Aveva lo sguardo terrorizzato, da bambolesca creatura costretta a un gioco troppo più grande di lei. Non so nulla di come Nikka sia cresciuta né se poi sia riuscita a cavarsela "on her own". Però lo sguardo triste che esibiva al programma di Carlo Conti, quello in cui ripescano i relitti del passato con una crudeltà e un cinismo per me insopportabile, non mi pareva finto.
Sia come sia, la sua (si fa per dire) sosia chietina è cresciuta anche (non solo, per fortuna) con le canzoni di Nikka. In particolare, ho cominciato ad apprezzarle particolarmente quando sono stata anche in grado di comprenderne i testi che, ovviamente, avevo già imparato a memoria anni prima. E sì, perché essendo una ultraquarantenne, basta farsi un po' di conti: ho cominciato a studiare Inglese in quarta ginnasio, quindi diversi anni dopo aver ascoltato per la prima volta l'LP di Nikka, di cui ricordavo alla perfezione tutte le foto e le espressioni del volto. A pensarci bene, oltre alle sue canzoni, sapevo perfettamente anche Eye of the tiger dei Survivor. E vabbè.
Veniamo al punto.
Da poco (come ho già scritto) ho ripreso a studiare Inglese con molto entusiasmo: giusto ieri, influenzata inconsciamente dal clima sanremese, mi sono messa a pensare alle canzoni che conosco a memoria per esercitarmi sulla pronuncia. Ed è così che mi si è riproposta la più famosa interpretazione di Nikka, cioè On my own. Il testo riflette tutta la retorica a stelle e strisce del sapersela cavare da soli, del self-made man (woman) e tutto il resto, però la musica stra-pop e la voce infantile della ex bambina americana mi danno ancora adesso i brividi. E mi fanno pensare che sì, l'unico modo per scuotersi da dolori e altre ambasce è uscire "da qui" e occuparsi di se stessi in piena autonomia.
C'è però un secondo brano che sento - ancora più fortemente - mio.
Si tratta di It's your dream, che avevo trascritto sul mio diario, azzardandone anche una traduzione personale.
Adesso non sto qui a riproporvela, ma voglio sottolinearne (forse per archiviarla per sempre nel mio cuore) la frase finale: "Cause you're never gonna pass this way again. No, you're never gonna pass this way again".
Non posso farci nulla: l'ho risentita e... indovinate un po'? Ho pianto. E certo. Come potevo esimermi?
A riascoltarla tutta, ne capisco oggi più che mai le ragioni.
Anche in questo caso, il testo incarna alla perfezione la retorica americana del farsi-tutti-da soli. Ma la canzone dice qualcosa in più, e cioè: se hai un sogno, cerca di realizzarlo. Non lasciare che le paure ti blocchino e anche se cadi rialzati e vai avanti. Perché se non lo fai adesso che ne hai l'occasione, non potrai farlo mai più. In breve, il buon vecchio adagio "ogni lasciata è persa", nato sul più dotto stra-citato, "carpe diem".
A quattordici-quindici anni la pensavo così, esattamente come oggi. Mi domando, certo, se l'essere già così tanto consapevole dell'esistenza dei fallimenti e della sofferenza non mi abbiano condizionato anche in negativo. Chissà che non abbia avuto troppa paura di riuscire in qualcosa al punto da non avvicinarmi mai troppo al "successo". Non so rispondere, perché forse una risposta univoca non c'è.
In ogni caso, nel complesso non mi dispiaccio (oh, Nikka Costa era una bambina molto carina....), ma mi stupisce sempre quando realizzo di non essere per nulla cambiata negli anni. Sto parlando del carattere, delle illusioni e dei sogni (per l'appunto), sempre quelli nonostante il tempo volato via davvero in un soffio.
La mia nonna materna me lo diceva spesso, guardando il paesaggio montano oltre le finestre della sua grande casa: "Dopo una certa età gli anni cominciano a scorrere più in fretta". Non riusciva a credere di aver superato i settant'anni (ai tempi dormivo spesso da lei, spedita da mia mamma che non voleva che restasse sola la notte). E, considerato il suo animo poetico e sognatore, oggi lo capisco più che mai.
Se ho scelto di presentarmi con la fotografia di me piccolina e se di recente ho ritirato fuori quel bellissimo primo piano di una me treenne al mare, è perché, evidentemente, anch'io non vivo molto nel presente. O forse no. Forse ho solo bisogno di fare il punto, di ritrovarmi, di rivedermi per poter andare avanti lungo quella via che non potrò percorrere mai più una seconda volta.
Sì, penso sia questa la ragione del mio continuo, urgente, bisogno di amarcord.
In tutti i casi, dedico questa canzone a tutte le cercatrici di sogno, le Nikka Costa della mia generazione, sperando che ne abbiate realizzato almeno qualcuno. Buona vita a tutte.
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lunedì 11 febbraio 2013
Buon San Valentino a tutti con Betty la Fea!
Lo ammetto: sto diventando una casalinga di Voghera, anche se con il nord non ho niente (ma proprio niente) a che fare.
Lo dimostra anche la mia passione tardiva per Betty la Fea, scoperta una sera a casa dei miei qualche mese fa.
Il video sopra riportato è tratto da una delle ultime puntate della telenovela colombiana, a trasformazione della "cozza" avvenuta. Giusto ieri sera è andato in onda il matrimonio tra la medesima e Armando Mendoza, il personaggio interpretato da Jorge Enrique Abello (ne ho imparato il nome solo ieri sera!), nella vita attore e regista.
Il tipo che canta è sicuramente famosissimo in Colombia, come anche il pianista dai tratti andini che suona al loro matrimonio. Ovviamente, non li avevo mai visti, ma lo ammetto: mi è scappata pure la lacrimuccia, come se stessi assistendo a una cerimonia nuziale vera!
Da stasera inizia il sequel, intitolato, com'era prevedibile, Ecomoda, il nome dell'azienda che alla fine dirigeranno insieme gli sposini felici. A dirla tutta, la presidenza resta a Betty, rivelatasi una manager di grande valore. E, considerando che la telenovela è di oltre dieci anni fa e che la Colombia è un Paese difficile, in crescita, certo, ma con gravi problemi socio-economici, resto ulteriormente colpita dalla scelta per così dire "femminista" degli sceneggiatori. Sarò anche diventata una casalinga di Voghera, infatti, ma il mio nuovo status non mi ha fatto dimenticare in che razza di presente e di Paese tocca vivere: una telenovela così da noi non sono capaci di farla, semplicemente perché sarebbe troppo irrealistica.
Stoppo subito la lamentatio.
E saluto Betty, Armando e la fantastica banda delle racchie con uno spezzone del finale, il punto in cui canta il pianista andino e la bella signorina con la voce da Fado: una scelta che più sdolcinata di così non si può!
Che altro dire?
Alla vigilia di San Valentino, auguro a tutti i coraggiosi che stanno mettendo su famiglia in questi strani anni di mantenere il sorriso anche nei giorni più bui. Non lasciate che vi rubino i sogni. Non permettetelo mai.
domenica 3 febbraio 2013
Minime vittorie per grandi conquiste
Non gioco spesso a carte e mai alle lotterie: sarà per questo, probabilmente, che non vinco molto spesso.
Sia come sia, le volte in cui è successo che abbia vinto qualcosa mi sono rimaste tutte impresse nella memoria e ancora adesso, quando mi tornano in mente, mi regalano un sorriso lieve lieve.
Comincio dalla epocale partita a tennis, nel torneo detto "doppio giallo", in cui si giocava suddivisi in squadre da sette persone, ciascuna nel proprio livello. Il più scarso corrispondeva al numero 7. Com'è facilmente intuibile, io ero la settima della mia squadra. Quel giorno dovevo incontrare una donna di età per me assolutamente indefinita, anche se, a ripensarci adesso, doveva avere meno anni di quelli che ho attualmente. Io invece ero un'adolescente piazzatella ed emotiva (più o meno come ora, forse leggermente più pingue), incapace di aggressività soprattutto al di fuori della cerchia familiare. Essendo però una cancerina finita e sputata (anche se all'apparenza molto ben celata dietro l'ascendente Leone, che per fortuna sembrerebbe essermi capitato in sorte), non è mai il caso di stuzzicarmi troppo. Se pizzicata nell'orgoglio, infatti, divento parecchio (si fa per dire) pericolosa. La tipa, invece, continuava a irridermi a voce alta, lasciando intendere che con una come me avrebbe avuto vita facile. Tutti i torti, in effetti, non li aveva, visto che stavo perdendo come al solito l'ennesima sfida tipo 6-1, 6-1. La vittoria del terzo set, insomma, pareva scontata a lei e agli astanti.
E invece. Arrivammo a un quinto set serratissimo, vinto per un soffio dalla sottoscritta, grazie alla perdita di lucidità della mia avversaria, incredula troppo incredula che quel topastro bassetto gliela stesse mettendo in quel posto. Ricordo ancora la sua rabbia e la mia gioia trattenuta. Anche dopo la vittoria, infatti, mi guardai bene dal mostrarmi troppo felice, facendole magari le linguacce. Sapete che c'è? Gliele faccio adesso da questo blog, augurandomi naturalmente che abbia imparato a controllare meglio i nervi, l'unica vera arma segreta di questo gioco così bello e così faticoso. A mia volta, spero di essere diventata più capace di tenere il punto nelle situazioni, dosando aggressività e remissività nei tempi giusti. A dirla tutta, di recente ho avuto una ricaduta all'indietro, ma immagino che ogni tanto possa succedere.
Un po' di tempo dopo, invece, ebbi un colpo di fortuna vero e proprio, grazie al costume di carnevale prestatomi da mia sorella. In quegli anni, ci tenevamo parecchio a travestirci e spesso ci rivolgevamo alla sarta di famiglia per farci cucire vestiti ad hoc. Ho l'impressione di aver già raccontato questo aneddoto (sto diventando come Zio Paperone con il Klondike), quindi la faccio breve. Vinsi un premio per il costume più originale della festa di carnevale che si teneva al palazzetto dello sport di Chieti. Io non volevo neanche andarci, tanto che, per l'appunto, avevo rimediato con il costume da formica fatto in gommapiuma di mia sorella. Non dimenticherò mai quando ci chiamarono sul palco per darci i premi e le 100 mila lire (ebbene sì) spiaccicatemi sulle mani da uno degli organizzatori.
L'ultimo episodio è assai più recente e riassume, in un certo senso, entrambi gli aneddoti sopra narrati.
Martedì scorso in palestra sono stata lasciata sola nel circuito a più stazioni che ci sottopone tutte le settimane la nostra insegnante. Nessuna, voglio dire, ha voluto fare gruppo con me. Lì per lì mi sono sentita un po' persa e anche un pochino rattristata: io non avrei mai lasciato una mia compagna da sola se, formatisi i gruppi, mi fossi accorta di disparità del genere. Con umiltà, però, mi sono messa alla mia solitaria postazione a fare gli addominali. Il secondo esercizio richiedeva, invece, la posizione prona e l'uso di un pesetto per le braccia. E qui arriva il punto: Rita, l'insegnante, è venuta da me e, dopo avermi schiacciato la fronte sul tappetino e avermi rispiegato nuovamente come muovere le braccia tenendo ben stretti i glutei, se n'è uscita con un bel : "Bravissima!", che io ho metaforicamente rigirato alle mie compagne che invece dopo ho visto schiattare (ovviamente non tutte) sotto il "peso del peso". Mi avete lasciato sole? Beccatevi questa. Il resto della lezione è stata (quasi) tutta un trionfo atletico, comunque senza più astio né impermalosimenti.
Di vittorie minime di questo genere è fatta la vita. Almeno la mia.
Certo, non sempre si è disposti ad ammetterlo, ma diciamo che ci sto lavorando.
Non so perché, per esempio, ma mi sento spesso chiamata in causa dai giudizi trancianti di un giovane conoscente sul comportamento altrui: so che non si rivolge a me (anche perché, in effetti, come potrebbe? Fuori da Facebook ci siamo visti tipo tre volte), però mi fa venire una coda di paglia lunga così.
Qualche giorno fa, dicevo, ha scritto una cosa del tipo: "come si riconosce un rinunciatario? Dal fatto che dice di non aver nulla da dimostrare".
Accidenti. Mi ha dato da pensare. In generale, secondo me, dovremmo proprio uscire dalla logica del voler o non voler dimostrare qualcosa agli altri, però a noi stessi qualcosa la dobbiamo dimostrare. Eccome.
Soprattutto, poi, se si avverte un certo senso di fallimento vero o presunto, se si sa di aver buttato via tempo e chance, se la vita ci scorre troppo velocemente tra le mani.
Io voglio dimostrare di essere. Qualcuno e qualcosa. Certo che lo voglio.
In questo senso, il giovane conoscente ha ragione: abbiamo tutti qualcosa da dimostrare e da mostrare, non facciamo finta che non ci importi.
Allo stesso tempo, però, bisogna anche perdonarsi le proprie debolezze e saperle perdonare agli altri.
Forse quel tipo è troppo giovane e gli ci vorrà del tempo prima di capirlo. In ogni caso, io so che se non fossi stata in adolescenza un topastro tondetto e timido e una giovane donna emotiva, difficilmente mi sarei trasformata in un'adulta che riesco ancora a guardare negli occhi. E ad avere, in fondo, ancora fiducia nel mondo.
E pazienza se, cambiando di nuovo pelle, non avremo nessuno (o quasi) affianco.
Può essere davvero esaltante sentirsi i muscoli che pompano sangue e la testa che si fa più leggera.
Sì, l'autonomia è la conquista più grande.
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