martedì 17 settembre 2013

Amazzone in tempo reale, una lezione di dignità in forma di libro

Foto di Loretta Emiri, autrice di Amazzone in tempo reale, Livi 2013

Non è facile recensire Amazzone in tempo reale di Loretta Emiri. Pur essendoci conosciute meno di due anni fa, Loretta è infatti diventata una delle mie amiche più importanti: l’ansia da prestazione è così divenuta davvero consistente, soprattutto perché i temi che affronta nel suo libro mi graffiano la pelle più delle unghie dei miei gatti. Per tentare di vincerla, comincio intanto col dire che è solo merito di Loretta se, capitolo dopo capitolo, ho imparato a distinguere i nomi e le abitudini di quel che resta delle popolazioni autoctone del Brasile (e non solo di quest’ultimo), cogliendo in più di un passaggio quanta nostalgia si sia sedimentata nell’anima, negli occhi e nella stessa postura della mia amica dal bell’accento umbro. Dopo circa vent’anni di condivisione sempre più intensa della cosiddetta causa indigenista, Loretta è tornata in Italia, che deve esserle davvero sembrata una prigione, umida (anzi fredda, non solo meteorologicamente) e angusta.
Non si tratta di farsi passare per amici degli ultimi della terra, per un frainteso senso di solidarietà con “chi sta peggio di noi”. Loretta non è tipo da sentimentalismi a buon mercato. La sua apparente durezza (anche nella lingua che adotta) è frutto di una sofferta crescita interiore, di una lucida (fin troppo impietosa) autoanalisi, tipica delle menti più vivaci. La mia amica stana l’ipocrisia come saprebbe fare solo un animale con la sua preda. Una volta che l’ha scovata, si può star certi che ce lo farà sapere. Ci lavorerà su per giorni, per anni, forse, ma prima o poi la sua riflessione si trasformerà in testo scritto, in un “brano”, come definisce lei stessa i capitoli che compongono il libro. Illuminante è, per esempio, la descrizione degli appunti-patchwork dai quali ha tratto l’ultimo brano, il più duro, probabilmente, comunque il più adatto a chiudere la sua originalissima rielaborazione dell’esperienza brasiliana, ricca di aneddoti tratti dalla sua vita di formatrice di insegnanti indios, un incarico che l’ha messa in contatto diretto con diverse realtà: innanzitutto con gli indios, ai quali Loretta dedica le parole più dolci, per via delle molte occasioni in cui le hanno mostrato amicizia, accoglienza semplice e profonda condivisione; poi con i missionari (e le suore), che non sempre descrive con parole accomodanti (tutt’altro, in certi passaggi), per via delle troppe occasioni di mancato incontro non tanto con lei, quanto con gli esponenti delle popolazioni native; infine con i politici brasiliani e in generale i discendenti dei conquistadores, non sempre in grado (per essere diplomatici) di offrire vero supporto alla causa indigenista.
Non sto mettendo le mani avanti, ve l’assicuro, è solo che, man mano che scrivo, capisco ancora di più perché mi fosse difficile stendere una recensione accurata e onesta del libro di Loretta, un’opera essenzialmente autobiografica, cui però si mescola, per forza di cose, la storia con la S maiuscola, riconosciuta tale solo in anni molto recenti, anche grazie all’azione di persone come lei e degli indios dall’autrice medesima resi immortali proprio con i suoi racconti.
Sì, era davvero arduo realizzare una sorta di diario ragionato degli anni presumo più belli della vita vissuti dall’autrice finora (ma essendole amica, ovviamente le auguro di passarne di mille altri di periodi così) e al contempo confrontarsi con la complessità della questione amazzonica, resa ancora più intricata dalla presenza di altri “povirazzi” (alla Montalbano) espulsi da una globalizzazione sempre più aggressiva, la stessa che anche in Europa sta facendo vittime di ogni genere.
Che dire, poi, delle delusioni che sento inevitabilmente anche mie, provocate in Loretta da un mercato editoriale pressoché asfittico, ostile, quasi, alle voci fuori dal coro, coriacee all’editing contemporaneo, capace di promuovere troppo spesso solo storie in serie?
E pensare che, all’apparenza, il libro di Loretta potrebbe attrarre un certo tipo di editoria impegnata, amica dei popoli, sinistrorsa, diciamo così. Come già accennato, però, l’autrice non è capace di fingere, non apparterrà mai ad alcuna parrocchia, né santa né laica. Lo si capisce bene già dal passaggio che riporta nella quarta di copertina, laddove sgombra il campo sul più macroscopico degli equivoci in cui noi occidentali cadiamo quando parliamo di Amazzonia (e anche di Africa, aggiungerei). Tutelarne la sussistenza non coincide affatto con la salvaguardia del “polmone verde del mondo”, una definizione che mai verrebbe in mente agli Indios. Se questi ultimi vogliono difendere l'Amazzonia, infatti, non lo fanno di certo per ragioni ecologiste. Semmai per ragioni ecologiche, nel senso primigenio del termine: se sparisce la foresta, ci dicono gli indios da anni, spariamo noi. Il che significa la fine di un modo diverso, non alternativo nel senso che l’aggettivo ha assunto durante l’era hippy, di vivere. Se cancellate l’Amazzonia, gridano come possono, cesserà per sempre un modo differente di stare al mondo, al quale stiamo già rinunciando, pezzo dopo pezzo, per via dell’ormai non più cancellabile contatto con voi bianchi.
Tra gli esempi di contaminazione già in atto, in particolare, Loretta si sofferma sul rimpicciolimento di alcuni oggetti di artigianato cosiddetto etnico per dare agli occidentali che li acquistano la possibilità di trasportarli più agevolmente.
Di per sé, a mio avviso, i contatti tra i popoli sono sempre arricchenti, ma diventano di altra natura quando non c’è equilibrio tra le parti.
I piccoli fanno sempre grande fatica a cavarsela. Posso ben dirlo io, dall’alto dei miei 152 centimetri.
Allo stesso tempo, i piccoli possono comunque creare qualche ostacolo, con il cervello, il cuore e le parole. Questo, certo, finché non si passa sul piano della forza fisica.
Fino a quel giorno, però, non si potrà fare a meno di lottare, mostrando con il proprio stesso stare al mondo una dignità da giganti.
E Loretta è un vero e proprio Golem di dignità, in ogni cosa che fa.
A lei, il mio più sentito grazie.
A voi, che di certo adesso acquisterete il suo libro, buona lettura.

venerdì 13 settembre 2013

Disadattati si nasce. Per fortuna?


La settimana del trash sta per concludersi, ma io non posso esimermi da lasciarne traccia sul mio piccolo e solitario spazio virtuale.
Lo scatto risale allo scorso ferragosto: il tizio, anzi, la rotondità del suddetto, era intento a osservare immagino con grande piacere lo spettacolo in corso nello stabilimento dove continuiamo, non so perché, a tornare tutte le estati.
Nonostante il senso di raccapriccio indottomi dal medesimo spettacolo, c'è qualcosa che me lo fa tenere a caro. Sarà per l'atmosfera della festa di fine estate, sarà perché, quando vado a Francavilla al Mare, in genere, dimentico tutte le ambasce della mia precaria esistenza, fatto sta che ritrovare anno dopo anno queste belle panze abruzzesi, osservare le facce piene e felici che tengono il tempo di musiche orribili, rimirare i tatuaggi davvero elaborati che femmine e maschi mostrano su pelli non necessariamente troppo palestrate, mi provoca una nostalgia, una saudade, inimmaginabile.
Oltretutto, poi, sono reduce da un'analoga esperienza di folla non esattamente composta, davanti alla quale, come al solito, mi sono sentita in dovere di scattare.
Non posso scendere troppo nei dettagli, ma è comunque un fatto che quella gente assiepata al buffet, le tartine (e mica solo quelle) finite in un lampo, i bicchieri sottratti ai camerieri (nervosissimi) anzitempo e altre piccole chicche che non mi sento di riportare, mi hanno immediatamente richiamato alla memoria la festa del Paraculo, con il grandissimo, indimenticabile Ray Sugar Sandro, da me stra-fotografato (se non lo pubblico qui è solo perché, francamente, si fa già troppa pubblicità da solo).
C'era, c'è, in effetti, una grande differenza tra i miei conterranei di origine e quelli che man mano ho conosciuto in questa bella ma schiva regione. Me l'ha fatta notare, manco a dirlo, il mio pungente consorte: mediamente dalle parti mie, il cafone è più spontaneo, meno artefatto (vedi la panza di cui sopra), mentre nelle Marche, almeno in quelle basse, c'è il tamarro elaborato, quello che pensa di essere ben vestito, quello con le scarpe artigianali che piacciono (lo dicono i dati confindustriali, non io) ai russi. E infatti ho potuto contemplare straordinarie calzature, ma pure un cappellaccio che mi ha ricordato il Guerriero di Capestrano, a dirla tutta.
E però, lo ammetto, sono molto attratta dal trash, forse per una sorta di malinteso senso di superiorità, o forse, semplicemente, perché ho bisogno di risate grevi per confermare che, nonostante la sfiga che mi sento addosso, non potrei essere comunque diversa da come sono.
Al contempo, un tantino invidio chi ha il gusto dell'orrido e quello sfoggio di corpi sovrappeso quasi mi intenerisce. Non credo, in definitiva, che riuscirò mai a smettere di osservarli, quasi che guardarli e, qualche volta, fotografarli, mi servisse a rimarcare la distanza e insieme il mancato legame con una delle molte realtà dalle quali sarò sempre esclusa.
Del resto, aveva ragione Nanni Moretti, che quando aveva all'incirca la mia età (la più bella della vita, ne sono sicura: con qualche sicurezza in più sarebbe perfetta), considerava che avrebbe fatto sempre parte di una minoranza di persone. Oggi, credo, per il regista non è più così (lo spot a Bersani pre-elettorale è stato così triste), però il disadattamento è una condizione esistenziale della quale difficilmente ci si libera. Ci si nasce.
Non me ne vogliano, perciò, le maggioranze che di volta in volta incrocerò.
L'aliena sono io. L'importante è saperlo.

martedì 3 settembre 2013

Sebastiano Nata e il valore dei giorni, secondo me

Porto San Giorgio, vita (dura) da spiaggia

Ho cominciato Il valore dei giorni di Sebastiano Nata con un pizzico di scetticismo. Trovavo la sua prosa eccessivamente piana e mi pareva di scorgervi gli stessi difetti che imputavano alla mia al liceo, quando mi si valutava regolarmente con un sette/sette più e il commento aggiuntivo del tipo "il tema è scorrevole e conciso, la traccia ben seguita" e quasi nulla più.
La scuola ti condiziona tantissimo, anche nell'idea che hai di te stesso, come persona.
E' effettivamente vero che scrivo a mitraglia e che, in genere, faccio poche modifiche alla prima versione. Non so se lo stesso sia capitato allo scrittore romano di origine marchigiana che alla fine mi ha completamente conquistato proprio per via delle sue parole così all'apparenza facili e insieme molto dettagliate.
Nata racconta di due fratelli, dando voce a quello più giovane, Marco Leoni, manager in una grossa multinazionale della finanza. Domenico è il più vecchio, una vita fuori dagli schemi, fuggito via dalla grande città per tornare nella sua piccola città natale, sull'Adriatico: Porto San Giorgio.
Ha avuto una moglie e un figlio, purtroppo tragicamente  scomparso, e l'esperienza l'ha segnato per sempre. Faccio un altro mini passo indietro.
Ammetto di aver comprato questo libro proprio perché era ambientato nello stesso luogo in cui sono venuta a vivere, anch'io, in un certo senso, per fuggire dalla grande città.
Era stato presentato in occasione del premio letterario Paolo Volponi che si tiene tutti gli anni a metà autunno a Porto Sant'Elpidio (e prima proprio a Porto San Giorgio). Il libro di Nata era nella triade dei finalisti dell'edizione del 2010. Non ha vinto e io, che amo i perdenti (il che dice molto sul mio modo di stare al mondo), l'ho comprato.
Non ho idea se Il valore dei giorni abbia comunque avuto altri riconoscimenti, in ogni caso, ve l'assicuro, è un grandissimo libro.
Parla di lavoro, di aridità, di famiglia, di mare e soprattutto di vita e morte.
Descrive con dovizia di particolari la sala di attesa del palazzo del capo di Marco, ristrutturata sapientemente da un architetto di chiara fama, come si dice, e a me è sembrato di essere lì con lui, a macerarmi d'ansia per quel che il freddo francese gli avrebbe detto di lì a poco, addentando i suoi sandwich, un pranzo veloce come si confà agli uomini (e ahimè alle donne) che hanno troppo poco tempo per concedersi un pasto come si deve.
Mi ha poi portato in mare con lui e Domenico, sulla loro barchetta a vela, tra le onde di quel mare che osservo spesso anche dalla collina su cui abito. Sentivo le conchiglie che gli si conficcavano tra i piedi nella lunga passeggiata mattutina sulla battigia, la testa vuota, la bocca amara per le troppe sigarette fumate.
Non voglio dire molto della trama, perché, alla fine, non è così importante. Quel che conta è il modo in cui si dipana e quel senso di fatica e di (probabile, ma non sicura) rinascita che lascia intuire verso la fine.
E' in ogni caso proprio il finale che me l'ha fatto amare in maniera definitiva. Non so se avrei pensato lo stesso qualche anno fa, quando bisognava fingere di farsi attrarre da storie tristi, intellettualeggianti alla The dreamers (ma c'è di molto peggio), il film di Bernardo Bertolucci che ho visto giusto due sere fa su Iris. Sarà un segno dell'età (mi sa proprio di sì), ma sto cominciando a capire che cosa desidero quando apro un libro, guardo un film, vado a una mostra: voglio sognare. Che cosa? Un'altra possibilità, un percorso differente, voglio emozionarmi, magari anche piangere, ma sentirmi viva, sentirmi in qualche misura migliore. Vivere una catarsi, insomma.
Saranno i tempi bui, sarà l'incertezza (a tratti davvero angosciante) su come me la caverò, come ce la caveremo, in ogni caso non ho bisogno di alimentare il mal di vivere, la nausea sartriana, facendomi martirizzare da quegli autori che pensano di avere la verità in tasca (di recente mia sorella mi ha parlato di Melancholia di Lars Von Trier: non oso pensare a quale effetto farebbe su di me).
Perciò grazie a Sebastiano Nata e al suo ritratto asciutto ma romantico della vita e di quel che conta davvero. Per me, di sicuro.

domenica 18 agosto 2013

Costruite l'impossibile, vi prego



Dedicato ai miei nipoti... La sanno a memoria!
Sperando che riescano davvero, un giorno, a costruire l'impossibile.

venerdì 9 agosto 2013

Il corpo e la grande tristezza



Febbraio porta la pioggia, ma a volte succede anche ad agosto: benefica pioggia che ristora corpi accaldati e stanchi.
Non riflettevo sul corpo da tempo, poi un giorno la nonna si aggrava e la rivedo in ospedale, incosciente, ma poi chissà se fino in fondo.
Le ho accarezzato la testa, la fronte era fresca e la pelle liscia al tatto, nonostante l'età. E dire che da giovani le rughe degli anziani ci fanno quasi paura.
L'inizio della "Grande bellezza" sembrava perciò promettente. Jep che da ragazzo amava l'odore delle case dei vecchi era seducente o comunque lasciava spazio a una qualche forma di identificazione, indispensabile per amare un film.
Era solo un'illusione. Anzi. Una vera e propria sola. Niente da dire sulla recitazione di Toni Servillo, ma quando vedo una tale abilità nell'incarnare personaggi squallidi o genericamente negativi, mi domando sempre se non ci sia anche una parte di verità, se, insomma, un po' squallido e negativo non sia anche l'attore fuori dal set. Certo che un po' lo sarà: siamo esseri umani, mica tanto belli.
Ma la mia non è una recensione: non ho la presunzione del regista, un anno più di me, molto (molto) bravo con la macchina da presa, con i tecnicismi del cinema, intendo, ma secondo me più superficiale dell'acqua che ricorre così spesso durante tutto il film.
Di bello c'era solo la confezione, il design, la fuffa di cui parla lo stesso Jep quando tenta di intervistare l'attrice che dava le testate.
Tutto voluto? L'irritazione che mi ha suscitato il film era uno degli effetti che Paolo Sorrentino voleva produrre sul pubblico? Buon per lui e per gli incassi che è riuscito a collezionare. Di sicuro il film potrebbe piacere anche all'estero, pieno com'è di cliché sulla Roma ancora una volta decadente e morbida come Bologna nella canzone di Guccini.
E insomma: l'estremo sacrificio in nome del "non puoi non andare a vedere la Grande Bellezza, tu che sei una intellettuale (???) di sinistra" è compiuto.
Che cosa ne ho ottenuto? Una grande tristezza. Ma veramente grande.
Accresciuta da altri avvenimenti personali che mettono molta nostalgia, quella di cui parla il personaggio di Carlo Verdone. La nostalgia è uno dei pochi sentimenti autentici in circolazione.
Colpisce un certo numero di persone, per fortuna, non tutti (e meno male) intellettuali di sinistra e non solo i romani ricchi e insoddisfatti.
Ciao, nonna. Meno male che ho fatto in tempo a rivederti.
Per fortuna al tuo funerale non ci sarà Jep Gambardella, anche se un po' di teatro sarà inevitabile.
A te che eri nata a febbraio dedico la canzone che sentirai sopra.
Conoscendoti, diresti (con le colorite parole tue) che è una palla.
Forse hai ragione, ma più di così, la tua nipote con i capelli radi come Giancarlo, non sa fare.

lunedì 29 luglio 2013

Umani e quattrozampe, chi si rapporta a chi?

La gatta Indiana sul mio libro (foto di Silvina Petterino)

Molto gentilmente, la mia amica Silvina Petterino mi ha mandato la foto che vedete sopra. La sua gatta Indiana ha colori molto simili al nostro Nino, ma ho l'impressione che abbia un carattere molto diverso.
Giovedì scorso, all'ultimo mercatino di Fermo cui ho deciso di prendere parte (per chi fosse interessato, l'evento prosegue ogni settimana anche ad agosto), sono rimasta paralizzata davanti alle considerazioni che una signora faceva con una sua amica, mentre sfogliava Che gatti, il mio libro autoprodotto che, volendo, potete acquistare anche da qui, cliccando sulla fotografia della copertina a destra. "Ha preso un secondo gatto - osservava - ma dice che il primo non è capace di rapportarsi con il secondo. Capisci? Non si sa rapportare... manco fosse una persona!".
Terminata la frase o forse dopo averla ripetuta un paio di volte per rafforzarne l'enfasi, ha chiuso il libro e se n'è andata.
Fino a quel momento ero sempre stata in grado di intervenire nelle conversazioni cui ho assistito seduta accanto al mio banchetto. Quella volta, invece, non mi è uscita nemmeno una parola, forse perché attendevo di capire dove volesse andare a parare, con quel "non si sa rapportare". Sembrava infatti che volesse comunque comprarne una copia per regalarla - ovviamente - alla sua conoscente gattara, per cui mi pareva poco educato interromperla in quella specie di dialogo interiore alla presenza di una silente accompagnatrice.
Una volta dissoltasi nella folla dei visitatori, però, mi è rimasto un po' sul groppone il fatto di non averle detto almeno una frase, e cioè: i gatti, come tutti gli esseri viventi (piante comprese) si rapportano eccome agli altri, che siano umani, felini, canidi e così via. Non c'è da farne una questione di filosofia o, peggio, non serve umanizzare i nostri piccoli amici per capirlo.
A dirla tutta, anzi, non è raro che a non essere capaci di rapportarsi a loro siamo proprio noi bipedi, incapaci di accettare che ci portino in omaggio le loro prede dilaniate o che ci lascino qualche graffietto in ricordo delle lotte che fanno abitualmente tra loro, nelle quali vogliono coinvolgerci proprio perché persuasi che siamo parte anche noi del loro branco.
E però avere a che fare con un animale non è per tutti, quindi è piuttosto probabile che un pistolotto così non avrebbe sortito effetto alcuno. Quindi ok, vada pure per la sua strada, signora mia, e auguri a lei e tutti quelli che ancora continuano a credere nella superiorità dell'uomo, nonostante le ripetute prove della nostra umana molto umana imperfezione.
Del resto, non potevo sperare di riscuotere un successo assoluto con il mio piccolo omaggio agli amici felini: c'è anche chi mi ha detto che avrebbe preferito che avessi parlato dei cani e chi mi ha chiesto se avevo "altri libri" oltre a quelli sui gatti (l'anno prossimo mi attrezzo con uno sulle bisce, così numerose nelle nostre campagne).
Molti altri, invece, mi hanno raccontato le loro storie di amicizia/soggiogamento/amore verso altrettanti piccoli amici e una ragazza in particolare mi ha mostrato, allungandomi il cellulare, anche il muso del suo cavallo.
Ho scoperto, insomma, che la comunità di chi prova a rapportarsi con uno o più animali è molto varia e trasversale. Poi, certo, il mio libro attira persone ben determinate, disposte a mettersi in gioco, magari attente ai dettagli e disponibile a lasciarsi intenerire. Queste caratteristiche, però, non sono fortunatamente classiste, ma al contrario uniscono persone che diversamente non si sarebbero mai parlate. Agli amanti degli animali, insomma, succede un po' come alle famiglie con i bambini piccoli: chi li spedisce agli asili o scuole pubbliche ha modo di incontrare persone di altra razza, religione, ceto e stile di vita, ampliando non di rado i propri orizzonti esistenziali.
Una giovane e carina ragazza rumena, per dire, mi ha dato una lezione che difficilmente dimenticherò: adorava letteralmente il suo gatto, purtroppo finito in malo modo sotto un'auto; da allora non è ancora riuscita a prenderne un altro quasi per paura di tradirne il ricordo. Aveva uno sguardo sincero e sognante e mi ha rammentato lo shock che abbiamo subito Paolo ed io per il micio che tuttora ho sul desktop del mio cellulare. Un gatto buonissimo, molto (molto!) diverso dai due protagonisti di Che gatti... poco fa, per dire, ho dovuto dare la rucola alla grigia altrimenti ci avrebbe perseguitato tutta la mattina. Che viziata.
Chi non ha confidenza con gli animali, in definitiva, non può capire fino in fondo chi ce l'ha né quanto possa essere di conforto mostrarne le foto, condividerne le gesta e sì, prendersi anche in giro per essersi un po' rimbecilliti a forza di soddisfarne i continui capricci.
Perché quelli là sì che sanno come tenerci in pugno.
Nel prendere la rucola dal frigo, sollecitata dai miagolii di Bice, per dire, ho rotto un coperchio di vetro.
Accidenti a lei.
Che trappola l'amore.
Ai visitatori del mercatino (e in generale a chi leggerà il mio libro), grazie e buona e lunga vita con i vostri quattrozampe.

mercoledì 24 luglio 2013

D'estate, il vuoto, almeno per un po'


Con l'arrivo di Caronte, o come diavolo hanno chiamato l'incombente ondata di calore di fine luglio, personalmente mi preparo a chiudere i battenti. Di che cosa? Ma di casa mia, naturalmente.
Non avendo un "lavùr d'uffessi", come si augurava Marisao per i suoi figli, ne ho creato uno, piuttosto improvvisato e incasinato, nell'abitazione che condivido con il Bipede fumatore di pipa e i nostri due gatti (che a proposito: in questo momento stanno dormendo sotto le coperte, immuni, evidentemente, all'innalzamento ancora in corso delle temperature).
Nel giro di una settimana, la zona "studio" (uso le virgolette malamente e di proposito) diventerà un forno, per cui, alla faccia dell'unico 2012 (quel che stato è stato, del resto) e di quello non credo molto più ricco che ne seguirà, a breve spegnerò tutto e andrò al mare, o al limite a riposare sotto una fresca pianta (devo però ancora cercarla: quelle del duomo mi hanno un po' rotto le balle).
Più invecchio e più mi convinco, infatti, che bisogna bandire dalla nostra coscienza (ammesso di averne una) onerosi sensi di colpa e attivismi privi di scopo.
A patto, naturalmente, di essere capace di restarmene tranquilla, nella mia pseudo condizione di vacanza.
Direte voi: e che ci vuole? Dipende. Da che dipende? Dal nostro Dna, temo.
Se, per dire, siamo abituati a essere sempre "proattivi" (altre virgolette volute, per sottolineare la bruttura della parola utilizzata), qualche rottura di balle ci sarà di sicuro: ce la saremo, anzi, procurata con le nostre stesse manine.
La consapevolezza di essere una spugna delle altrui lagne me l'ha data il sempre più cinico Bipede Paolo che non me ne fa passare una. Nell'ultimo periodo, per esempio, mi fa il verso parafrasando l'orrida pubblicità dell'otto per mille della Cei, dicendomi: "hai un problema inesistente? un manoscritto da correggere, un'angoscia da placare, un concorso inutile da segnalare? chiedilo a..."... a me, denominata in questo contesto "piccì", perché anche noi non sfuggiamo ai nomignoli che ci si affibbia quando si sta in coppia.
Il problema, però, non è di chi mi passa testi, incombenze, sfighe etc etc: il problema sono io e il mio dannato ottimismo. Sì, perché, regolarmente, io mi presto, dispensando consigli, sorrisi e ringraziamenti. E invece dovrei dire no, grazie, lasciate perdere. Lasciatemi perdere, che ce la fate anche da soli, esattamente come ce la farei io se fossi in grado di liberarmi dal senso di colpa di non essere sufficientemente d'aiuto se non mi sbraccio con veemenza e non mi perdo in infinite e dettagliate spiegazioni, un aspetto del mio carattere ereditato dalla buona educazione ricevuta, ma ormai impastato nella mia stessa essenza.
Come dice un vecchio adagio, tuttavia, non si cava sangue da una rapa, cioè a dire: non essendo in grado di dire no a chicchessia, non mi resta che usare una strategia meno diretta, ma per qualche tempo abbastanza efficace. A breve comincerò a sbandierare la prossima partenza per la mia terra natale e i miei impegni di zia e di figlia devota. Tutto vero, intendiamoci, ma anche affettuosi capri espiatori anti-prestazioni/consigli/sollecitazioni esterne, che in questo momento dell'anno mi pesano più che mai.
Voglio fare vuoto. Ne ho un bisogno vitale. In barba alla società del sempre pieno e alla mondanità forzata.
Sono sorridente e ottimista, sì, ma anche una testa dura d'abruzzese. Quindi ce la farò.
Però accidenti che fatica sfaccendarsi davvero.
Per entrare nello spirito giusto, comunque, ho deciso di sospendere le lezioni di inglese per un mesetto, anche se continuerò a leggere il libro di Jason e altre cosette che ho ricevuto in regalo.
Domani, poi, dico addio (o arrivederci, chi lo sa) al mercatino di Fermo, un'esperienza assolutamente positiva (ma che mi richiede un livello di interazione veramente da guinness...). Sbrigherò quindi le ultime incombenze di lavoro e burocratiche e via, alla conquista del vuoto. 
Più o meno...
Buona estate a tutti.