sabato 1 aprile 2017

Ciclone Montanini: arrivederci a mai più


Sto cercando di fare ordine tra le sensazioni che mi ha provocato lo spettacolo di Giorgio Montanini visto ieri sera nel teatro di Porto San Giorgio.

Ho avuto almeno un paio di volte la tentazione di andarmene via: del resto, Montanini in persona, comico nato a Fermo nel dicembre del 1977, come si legge nella nota biografica sul sito della Rai per il suo programma "Nemico pubblico", aveva esortato a farlo nel caso in cui le sue parole fossero risultate troppo urticanti.

Però non so bene a cosa si riferisse lui, se al cosiddetto turpiloquio (una parola che amava molto la mia mai giovane prof di greco) o al senso di superiorità nei suoi confronti capace obiettivamente di indurre in chi non si scandalizza o finge di non farlo.

Da brava autistica quale sono, se dovessi analizzare passaggio dopo passaggio il suo show, sarei costretta a dargli ragione su tutto.
Sul maschilismo dell'Italia, sui luoghi comuni a proposito dell'esperienza della paternità, sui danni causati da Papa Bergoglio all'anticlericalismo in particolare dei comunisti (ma direi a tutto il mondo radical chic nel quale per molto tempo ho creduto di poter entrare pure io), sul razzismo e la mediocrità della massa e via discorrendo.

Resta però il fatto che ascoltarlo e guardarne il corpo appesantito sulla scena non mi ha dato alcun piacere.
Anzi. Mi ha reso triste e incazzata. O forse l'ordine è alla rovescia.

Alla fine sono rimasta, facendo barchette di carta con i pezzi del biglietto, sovrastata in certi istanti dalla disperazione di essere lì e non da tutt'altra parte.

Sono sicura che abbia fatto tanta gavetta e che meriti di avere una chance, ma alla conclusione buonista sono arrivata solo a chiusura dello spettacolo quando ha ringraziato il pubblico parlando finalmente in italiano (il comico Francesco Capodaglio, con il suo sketch in sangiorgese stretto, mi ha fatto ridere più di lui, detto tra noi).

Mentre lo ascoltavo concionare in vernacolo, mi domandavo se lo stia usando anche nel tour nazionale in cui è impegnato in questo periodo. Per carità: è pieno di gente di palcoscenico che usa il dialetto ed è anche vero che certi concetti passano meglio se espressi nella lingua madre.  

Resta pur sempre il fatto che un intero spettacolo in fermano (ma per me sarebbe stato lo stesso se fosse stato in abruzzese, la mia lingua madre) mi ha dato il colpo di grazia.

Sì. Credo che su tutto quel che più ha ferito la mia idea di bellezza demodé sia la rozzezza modernissima di questo esponente della stand up comedy all'italiana. Si capisce che ha talento e professionalità e non posso negare che abbia qualche ragione a sottolineare l'ipocrisia di chi gli ha chiesto di mettere l'avviso vietato ai minori come sottopancia al suo show, al contrario di quanto capita con politici e portaborse di ogni risma liberi di dire impunemente qualsiasi oscenità.

Però mi sono sentita violentata e stamattina ho pianto come non mi capitava da un po'. Sarà colpa del ciclo o del climaterio incombente (femmina, pure anziana, eh lo so, triste destino nascere in Italia), ma non prevedo di rivederlo a breve.

Ho bisogno di bellezza, lo dicevo prima, e soprattutto di speranza. Cerco ogni giorno di vincere il dolore e la morte concentrandomi sui segnali di vita che vedo intorno a me.
Di sicuro lo farà nel suo privato anche questo comico quarantenne con la figlia e la compagna: per fortuna la realtà non ha mai una sola faccia. E so anche, o comunque lo immagino perché ci sono passata pure io, che perdere un genitore quando sei ancora abbastanza nelle pesti è un colpo piuttosto duro.

Le sue battute ciniche sul cancro ne allevieranno un po' la rabbia.
Solo che l'ha passata a me. 

E questo proprio non glielo posso perdonare.

sabato 18 marzo 2017

Letteratura e ironia in rosa a Lu Portu: una rassegna che merita



Ho scattato la foto che vedete sopra in occasione dell'inaugurazione della "Panchina rossa" contro la violenza sulle donne voluta dall'amministrazione comunale di Porto San Giorgio (in collaborazione con il liceo artistico e la Pro Loco della città) come colorato ammonimento a tutto il genere maschile a tenere mani (e altri arnesi) a posto.

Ho scelto l'immagine per introdurvi il pezzettino che vi riporto pari pari sotto, dedicato a una rassegna di letteratura al femminile chiamata "Non solo rosa", in corso in questi giorni nella località adriatica in cui ho scelto di vivere. L'avevo scritto per il Corriere Adriatico che poi non l'ha pubblicato per ragioni di spazio.

Mi pareva brutto che andasse sprecato visto che giusto stasera alle 18.30 si tiene il secondo incontro.
Magari a qualcuno fanno comodo le noterelle della sottoscritta.
Guardate sotto e, se vi va, andate. Buon fine settimana, amiche e amici.

Chi l'ha detto che le donne non sappiano ridere di loro stesse? Se ancora ce ne fosse bisogno, a dimostrarlo sono le cinque autrici invitate a Porto San Giorgio per la rassegna <<Non solo rosa>>, curata dall'assessorato comunale alle Pari Opportunità in collaborazione con l'European writing women association, di cui sono responsabili per le Marche Christina Assouad ed Eleonora Vagnoni. Dopo la simpaticissima Rossella Boriosi e il suo racconto tragicomico sulla menopausa, oggi, alle 18.30, approda alla sala Castellani Federica Bosco, con la sua cura <<detox>> per disintossicarsi da un'emergenza d'amore. Alla sceneggiatrice e scrittrice milanese, classe 1971, tocca quindi il compito di erudire la platea sulle migliori strategie per liberarsi da questo sentimento così zavorrante (e altrettanto, ahinoi, indispensabile). Si tratterà, c'è da scommetterlo, di tecniche fondate sull'ironia, vera e propria cifra stilistica della Bosco, autrice di bestseller come <<Il peso specifico dell’amore>>, <<Non tutti gli uomini vengono per nuocere>> e <<Pazze di me>>, quest'ultimo diventato un film con la regia di Fausto Brizzi. 
Dopo la scrittrice milanese, la rassegna proseguirà il prossimo 25 marzo con Stefania Bertola e il suo <<La ragione e il sentimento nelle donne di oggi>>. Poi, sabato 1 aprile è la volta di Sara Porro con <<Prenotazione obbligatoria: vagabondaggi di gusto A/R>>. Infine, il 29 aprile la chiusura è affidata ad Alice Basso che parlerà di <<Scrivere è un mestiere pericoloso soprattutto se si è donna>>.
Tutti gli incontri sono fissati alle 18.30, ospitati sempre nella sala Castellani di corso Castel San Giorgio, appositamente rinnovata per la rassegna, come ha sottolineato l'assessore Catia Ciabattoni durante l'apertura dello scorso otto marzo. Al termine delle conferenze è previsto un piccolo rinfresco. Ulteriori informazioni al numero 347/7208544.

martedì 14 marzo 2017

Sì al crowdfunding per Mise en Abyme!



Non mi piace auto-promuovermi (sono la donna anti-marketing per eccellenza), ma in questo caso lo faccio per una buona causa.
Ho scritto l'articolo che vedete sopra per aiutare i due giovani miei concittadini espatriati a completare la raccolta fondi online per lanciare il cortometraggio intitolato - misteriosamente e fascinosamente - Mise en Abyme.

Sono rimasta molto colpita innanzitutto dalla combattività e dall'entusiasmo del regista Edoardo Smerilli e del suo coproduttore nonché amico d'infanzia Riccardo Gaspari. Fossi stata così io a venticinque anni avrei spaccato il mondo. O forse no. Ma questa è un'altra storia.

Ho però deciso di ripubblicare qui il testo originale del pezzo per dare la possibilità a chi vorrà sostenerli di andare direttamente da qui sul link della loro campagna. C'è tempo fino al 31 marzo per portarla a termine (e, magari, superarne il limite minimo).
Coraggio: sosteniamoli tutti. Se lo meritano. E noi ci meritiamo di andarli a vedere al cinema!

Surreale e super-tecnologica è la farfalla protagonista di "Mise en Abyme", il cortometraggio del venticinquenne sangiorgese Edoardo Smerilli, volato a Praga per un master in sceneggiatura in una prestigiosa scuola di cinema (la Famu), dopo la laurea al Dams di Bologna. Per poterne apprezzare le oniriche evoluzioni e scendere nell'abisso con il protagonista del film, serve un ulteriore sforzo economico da parte di tutti, volendo anche dei concittadini del giovanissimo regista. Smerilli ha infatti attivato una campagna di raccolta fondi online - meglio nota come crowdfunding - per raggranellare gli ultimi ottomila euro che gli serviranno per ultimare la costosa post-produzione. Per seguirne l'evoluzione (e dare il proprio contributo) basterà cliccare su Mise en Abyme. <<Siamo già arrivati al 70% della raccolta: c'è tempo fino al 31 marzo per completarla>>, precisa Riccardo Gaspari, l'altro venticinquenne sangiorgese coinvolto nell'avventura di Smerilli, manager a Dubai per un'azienda tedesca di e-commerce. <<Amo il cinema e sono molto amico di Edoardo, così ho deciso di mettere a disposizione le mie competenze universitarie e lavorative per aiutarlo a realizzare il suo progetto>>, precisa Riccardo. Chiaro che il sogno di entrambi è di andare ben oltre l'obiettivo minimo fissato dal crowdfunding: <<Con quegli ottomila euro le sette-otto persone impegnate nella post-produzione prenderanno giusto qualcosa di simbolico>>, sottolinea a sua volta Edoardo, che non riesce a spiegarsi come mai in Italia siano ancora così poche le persone che fanno ricorso alle campagne online di raccolta fondi. <<Nella mia scuola di Praga siamo stati selezionati in venti: quasi tutti hanno usato il crowdfunding per i loro progetti>>. Sulla stessa lunghezza d'onda è Riccardo, che parla di <<start-up>> partite proprio con questa via, oltre che di <<campagne che hanno raggiunto anche il doppio di quello che avevano chiesto>>. Se accadesse così anche a Mise en Abyme, ammettono i due ragazzi, <<potremmo andare oltre il cortometraggio>>. Tutti e due, in ogni caso, restano saldamente ancorati a terra quando spiegano che cosa si andrà a finanziare con il denaro raccolto: oltre a quello per le risorse umane coinvolte e per avviare una strategia di distribuzione <<efficace e pervasiva, ciò che ci manca sono i finanziamenti per le render farm>>, scrivono nella pagina Web della loro campagna. Più nel dettaglio, Edoardo precisa che con quel denaro sarà possibile <<processare e rendere realistici>> tutti i dettagli della città vista dall'alto costruita totalmente in 3D, come la farfalla blu che dà il via alla storia: <<Render farm significa letteralmente 'fattoria per processare', ossia veri e propri palazzi pieni di computer impegnati a restituirci tutti i particolari della città>>, aggiunge il regista. Un lavoro enorme, insomma, che Edoardo e il suo team complessivo di una trentina di persone, comprese le società Maxman Soc. Coop e Bloomik Creative & Post Production Studio, che stanno partecipando alla post-produzione, hanno avviato quasi un anno fa e che si spera li porterà a debuttare nei festival del cinema più importanti. <<Fino a quel momento non possiamo mostrare nulla del film, anche se i feedback che ci sono arrivati anche via Facebook su quel che abbiamo potuto diffondere sono tutti positivi>>, racconta Edoardo, convinto, tanto quanto Riccardo, di aver fatto un grande lavoro, dalla sceneggiatura (ispirata a una novella di Philip K. Dick) alla tecnologia: <<La nostra - concludono - è sicuramente una novità interessante nel mondo dei cortometraggi, in Italia e all'estero>>.


domenica 12 marzo 2017

Libri, teatro e persone: che spettacolo!


E rieccomi qui dopo mesi e mesi. Vi sono mancata? Ne dubito.
Ho deciso di usare il mio vetusto blog per parlare di alcuni incontri davvero speciali.
La signora bionda sulla sinistra della foto che sta scrivendo un autografo a uno dei suoi numerosi lettori è Cinzia Tani. Quella a destra è Mirela Di Chiara, la libraia di Porto San Giorgio che mi ha permesso di conoscerla.
Come è stato possibile? Presto detto. La scrittrice e giornalista romana (ma, ho scoperto, con sangue abruzzese nelle vene) era stata invitata a presentare il suo nuovo romanzo "Il Capolavoro" nel Mondadori Bookstore gestito dalla mia amica, a sua volta coinvolta in "Libro, che spettacolo!", una manifestazione nata dieci anni fa per promuovere la lettura e il teatro.

A mancare nell'immagine è proprio l'ideatore dell'iniziativa, ossia Pier Paolo Pascali, il funzionario dell'Associazione generale italiana dello spettacolo, che ha aperto il pomeriggio con Cinzia.

Il momento che ho immortalato è però successivo all'incontro da Mirela.
Dopo un aperitivo tanto buono quanto rapido, noi tre donne siamo corse in negozio per recuperare i libri da portare nel foyer del teatro comunale, giusto dieci minuti prima che il fantastico Pier Paolo prendesse la parola sul palcoscenico per presentare di nuovo Cinzia, cui era affidato l'arduo compito di spiegare in dieci minuti in che cosa consistesse il suo nuovo libro.

Sono rimasta attaccata alla parete in fondo alla platea per vedere come l'avrebbe fatto.
Ho cercato di carpire ogni parola e gesto di questa donna alta e longilinea dal sorriso energetico.

Cinzia è partita dal 1947, l'anno in cui si apre il romanzo, scelto, guarda caso, anche dalla compagnia di Davide Anzalone per la propria, originalissima, rivisitazione di "Arlecchino servitore di due padroni".

L'Italia è un paese piccolo e stanco, capace però inspiegabilmente di partorire ancora menti vivaci e generose.
"Zanza" era venuto in libreria per parlare del suo "Arlecchino", dicendoci che è giunta l'ora di tornare al racconto corale: basta con tutti questi monologhi tristi.

Non ho avuto il tempo di parlarci, ma ringrazio tanto anche lui per il coraggio con cui porta in scena le sue braccia svirgolanti e la sua straordinaria simpatia. Bravissimi davvero tanto anche i suoi attori.

Mi fermo perché vorrei evitare di scadere nella retorica.

Concludo solo dicendo di aver imparato molte più cose in un pomeriggio/sera di quante ne ho apprese in anni e anni da blogger.

Ed è questa una delle ragioni per cui ho diradato moltissimo i miei scritti ombelicali.

Ho capito di avere bisogno di accumulare vita per poter scrivere in modo diverso.

Per poter fare sul serio.

Mio padre oggi mi ha detto una frase bellissima: "Il vento sta girando e finalmente è a tuo favore".

Non so se sia un suo auspicio di padre e basta, ma comunque mi ha fatto molto bene sentirlo da lui.

Farò di tutto per assecondarlo, caro papà.
Dovunque mi porti.

Vi lascio con una canzone dei Simple Minds che accompagna molte mie corsette di questi giorni (a proposito: correre, che gran cosa).

Qualcuno arriverà, qualcosa accadrà.

In summertime.


martedì 25 ottobre 2016

Il maestro è nell'anima. Sempre di più



Non posso proprio farne a meno, anche se, amici belli, non sapete quanto mi costi interrompere il mio silenzio.
Quello che ho da dire, in un certo senso, è molto più pubblico di come vorrei, visto che riguarda almeno la maggioranza delle persone che erano presenti con me domenica pomeriggio, dalle 18 alle 20.15 circa, all'Auditorium della Conciliazione di Roma per il concerto di Paolo Conte.
Di Paolo, mi verrebbe da dire fingendo una familiarità del tutto autoreferenziale che anno dopo anno, a partire dai 17, si è costruita nella mia testa.

Chi mi ha sentito negli ultimi tempi sa come sia stato possibile il miracolo che ho vissuto appena due giorni fa.
Vi confesso però di sentirmi quasi una ladra di immagini avendo usato uno degli scatti che mi ha fatto la simpaticissima Giusy Palamara, conosciuta tra una quinta e l'altra del teatro romano, come mio attuale profilo di Whatsapp.
Non amo questo genere di autoreferenzialità, ma per questa icona (proprio nel senso sacrale del termine) della mia formazione, questo zio che sa ancora adesso spiegarmi la vita meglio di un film, faccio una piccola eccezione.

Mi limito a illustrare la scaletta di un concerto che ha chiuso una giornata indimenticabile, passata in compagnia di mia sorella, i miei nipoti, mio cognato tedesco ("animato", lui sa perché) e l'affascinante cugina che, ovvio, porta lo stesso nome del maestro.

Pare (mi ha detto il suo grandissimo batterista/vibrafonista/marimbista etc etc Daniele Di Gregorio che ha permesso il miracolo di cui vado parlando) che ogni due anni circa la scaletta dei concerti cambi leggermente.
Ho perso il conto di quelli che ho visto per cui non ricordo esattamente quante volte io abbia sentito dal vivo (per non parlare delle volte che l'ho fatto a casa) Diavolo Rosso, Alle Prese con una verde Milonga, Gioco d'Azzardo, Comedie, Sotto le stelle del jazz e, ovviamente, Via con me. Di questa, però, posso dirvi con certezza che è stata proposta nella versione del disco da studio che si chiama Gong-oh, che personalmente adoro proprio perché l'ha finalmente rallentata ed espunta dai bis. Per quest'ultimo (uno solo, seguito dal proverbiale segno di voce finita con la mano che taglia la gola a metà), Paolo ha voluto Tropical, immagino diventata la hit di chiusura dopo Snob.

A proposito della canzone che dà il titolo all'ultimo album dell'Avvocato non più tanto marròn (ma azzurro e celestiale come i suoi occhi da gattone, benché lui abbia sempre avuto cani), la risata generale del pubblico, partita quando arrotava ("affotava", pareva dicesse) le erre, è stata molto liberatoria, per me che ho compreso da tempo, anche se non ne ho prove dirette, quanto debba essere simpatico Paolo lontano da microfoni e sguardi adoranti.

Mi ha sorpreso, anche, il provinciale più internazionale che abbiamo in questo piccolo Paese, in certi brani che dal vivo non avevo mai ascoltato.
Mi sono piaciute tantissimo Reveries e Le chic et le charme, le due canzoni in francese della scaletta 2014-2016.

Purtroppo, non essendo una musicista, non vi so dare dettagli tecnici.
Posso solo ribadire la mia assoluta meraviglia davanti al polistrumentismo della maggioranza dei suoi "dolci amici" musicisti, come li ha chiamati Conte nella dedica, se non vado errata, di "Nelson", un disco forse meno limpido di altri, ma molto intimo e vero, esattamente come mi appare lui, sempre di più, senza papillon e abito da sera.

Non posso dirvi, non riesco proprio a farlo, almeno non in questa veste semi-pubblica, che cosa mi abbia trasmesso il suo viso e il suo sorriso quando mi sono presentata.
So che ho fatto finta di essere sicura, so di aver parlato con la sua produttrice Rita Allevato, molto cortese e rispettosa di noi poveri fan disperati, ma davvero il non detto e il non scritto è molto più importante e lo conserverò per sempre dentro di me.

Questa la scaletta proposta all'Auditorium della Conciliazione, la stessa - presumo - che, con qualche variazione, sarà replicata a Brescia il 29 ottobre e a Milano l'11 e il 12 novembre. Dopodiché ci sarà Torino il 12 dicembre e a febbraio (11 e 12)... Paris (!!) e poi Amburgo il 25.

A voi la scaletta:

Primo tempo
Ratafià
Sotto le stelle del jazz
Comedie
Alle prese con una verde Milonga (sapete che cos'era per Renzo Fantini e i suoi amici quando l'ascoltarono la prima volta? Solo i veri cultori sapranno rispondere)
Snob
Argentina
Reveries
Recitando
Aguaplano

Secondo tempo
Dancing
Gioco d'azzardo
Gli impermeabili
Madeleine
Via con me
Max
Diavolo Rosso
Le chic et le charme
Tropical (bis)


Ora che ho scritto posso tornare al mio silenzio.

Vi voglio bene, dopo quest'incontro, ancora di più.

Ps La prima volta che ho salutato Paolo avevo più o meno 21 anni. Il pomeriggio passai con una rosa rossa e un biglietto con la richiesta di alcuni brani, diciamo così, on demand (Avanti, bionda, Topolino Amaranto, cose da bionde sceme, insomma). Poi tornai a fine concerto: non avendo altro per farmi fare l'autografo, gli allungai il pacchetto di sigarette che fingevo ai tempi di fumare. Mi scrisse la dedica con un pennarello, non so suo o se prestato qualche fan. Mi ricordo quello che mi disse a proposito della mia richiesta di brani: "Eh, ma la scaletta è già formata, i miei musicisti si sono preparati su quella, non sarebbe semplice cambiarla". E certo. Che idiota bionda.

Però, posso dirlo? Lì era nel pieno della maturità, io una ragazzina con gli occhiali tondi. Molto meglio adesso, per me è così, magari lui farebbe volentieri un salto a ritroso nel tempo.

In tutti i modi, è un privilegio averlo incrociato.

Grazie.

lunedì 5 settembre 2016

Arrivederci, amici



Dovevo capirlo già qualche mese fa e invece ci sono arrivata solo da pochi giorni.
Meglio tardi che mai.
Non è più tempo, per me, di stare dietro a un blog così generico e semi-personale o semi-professionale, a seconda dei punti di vista.
Sto lavorando, ho lavorato molto durante l'estate (sempre per i miei parametri) e continuerò, con ritmi tutti da scoprire, anche nell'autunno che si approssima.
Poi c'è il resto della giornata, da vivere, se possibile, con pienezza.
Non ho voglia di stare anche qui, in sostanza.

Sappiate, cari amici, che continuerò sempre a ringraziarvi per l'affetto che qualcuno è venuto a dimostrarmi anche quaggiù. 
Non bisogna mai dare nulla per scontato, perché so bene che chi mi ha letto ha scelto di dedicare qualche minuto proprio a me ed è sempre un grande onore.

Scoprirò, da cronista locale, altri tipi di pubblico e forse altro genere di visibilità. Spero di non farmene troppo intimidire e di mantenere la giusta distanza che serve per scrivere per altri che non sia il mio sciocco ego.

A proposito di scrittura, però, ho bisogno di fare una piccola precisazione.

Non smetterò di scrivere per me, ma lo farò in un altro modo.
Voglio farlo sul serio, insomma, per rendermi conto se ho davvero qualcosa da dire o se, com'è probabile, si tratta solo dell'ultima illusione di questa giovinezza che mi ostino a non lasciar andare (psicologicamente parlando).

Sono felice, davvero felice, di aver avuto la possibilità di ricominciare a lavorare. 
Non capita tutti i giorni e anche se dovessi stancarmi dopo pochi mesi, beh, stavolta non potrò dire di non averci provato.

E nel frattempo scriverò, forse a penna, forse al computer, non lo so ancora, ma non qui.

Lascerò comunque aperto questo spazio, qualora volesse venirmi la voglia di documentare come procedono gli esercizi di stile. Non ne sono ancora sicura, ma se lo farò, ve ne accorgerete.

E' giunto il momento di lasciarsi andare. 
Vogliatemi bene e aspettatemi.
Se ne avrete voglia.

Arrivederci

Vostra Madamatap

venerdì 8 luglio 2016

#Emmanuel, #Fermo e la scimmia che è in me



Ho cominciato a lavorare per un sito di informazione locale a Fermo a primavera inoltrata, sottoscrivendo un contrattino che mi permette, diciamo così, di tamponare un po' il flusso in uscita dal mio conto corrente.
E' una piccola premessa necessaria giusto per dirvi che, in fondo, non sono una che ha grandi pretese.
Vorrei solo lavorare, pagarmi qualche spesa e sentirmi meno in colpa per aver buttato nel cesso le mie possibilità di carriera lasciando la grande città.
Fino a martedì scorso, tutto sommato, mi era sembrato possibile: mi era parso, voglio dire, che me ne potessi stare qui sulla costa adriatica, lontana dai grandi fatti della storia, a scrivere di sagre, di consigli comunali, di concerti e tante altre belle e piccole cose che accadono in provincia.
Ma poi è successo quello che ora sa tutto il mondo, a pochi metri, oltretutto da me e dai colleghi che ho incontrato in questa micro fetta di 2016.

L'autopsia, a breve, dirà penso con precisione, se Emmanuel è morto per via del pugno subito o per arresto cardiaco o chissà cos'altro.
Il punto, però, non è questo. La causa scatenante resta quell'insulto "scimmia africana" che il buon cuore dell'arrestato fermano (qualcuno lo dipinge come un povero diavolo, purtroppo anche tra qualcuno dei miei conoscenti) si è permesso di indirizzare alla sposa ventiquattrenne o forse anche al marito e all'amico che era con loro, chi lo sa.

Credo di aver  conosciuto veramente Fermo solo ora, dopo undici anni che ci abito e altri quindici che la bazzico.

Ho vissuto (qualcuno lo sa) l'esilio in terra marchigiana per circa otto anni dopo la mia esperienza, finita malissimo, al settimanale dell'arcidiocesi, ma, davvero, soltanto adesso sto capendo perché, a distanza di tutti questi anni, io continui a rimanere, per la maggior parte della gente che ho conosciuto (non per tutti, ovvio), un'estranea.

Completa estranea.
Anche ieri in Prefettura, tra colleghi locali e non, ho provato un forte, dolorosissimo, senso di solitudine.

Ho sentito giornalisti che, tra una telefonata a un avvocato e l'altra, parlavano di vacanze in Sardegna, altri che protestavano per non aver avuto abbastanza ribalta (Alfano effettivamente si è degnato di rivolgerci la parola con quasi due ore di ritardo). Ho fatto da dittafono vivente grazie al computer del collega per mancanza di mezzi tecnologici che qualunque giornalista che si dica tale dovrebbe avere (se volete, ve lo spiego meglio perché non li posseggo, se non fosse abbastanza chiaro), ho scritto su una scrivania di fortuna in mezzo agli scatoloni e ho lavorato cercando di non pensare allo squallore che ho visto intorno a me.
Per esempio, quello di giovani colleghi che si fanno i selfie esaltati dalla giornata speciale col ministro, dei mezzi sguardi di scherno lanciati tra una strisciata sullo smartphone e l'altra, e poi le chiacchiere da social-paese sul buon Mancini (e sugli italiani uccisi dai brutti negri) e quelle di chi manifesta, strumentalizza e, ancora una volta, cerca solo e sempre di mostrare se stesso.

Non sono fermana, non sono chietina, non sono milanese, non sono giornalista, non sono fotografa, non sono militante, non sono qualunquista, non sono.
Finora ho pensato questo sotto voce, in cuor mio anche con una certa autoironia da disadattata cronica.

Da martedì qualcosa ha cominciato a rompersi.
Sarà questo il capodanno che aveva previsto Branko per noi cancerini del cavolo questo maledetto martedì.

Adesso è ora di dire chi sono e cosa provo.

Sono antirazzista e antifascista. Sono una giornalista. Sono una che scrive e che fotografa. Sono un'amica dei più deboli, da qualunque posto provengano, purché siano onesti e sinceri (la badante albanese che ha trattato male mia madre mentre se ne andava, non posso perdonarla, non ci riesco). Conosco il dolore. Conosco il lutto e so che la violenza genera, sempre e comunque, la violenza.

Sappiatelo, cari conoscenti, anzi: non più cari conoscenti, se siete tra quelli che a mezza bocca dicono il contrario di quello che sto sostenendo in questo istante. Rispetto le opinioni, ma non potrete mai essere miei amici.

Quello che è successo a Fermo, nella cittadina dalla quale sono fuggita per non soffocare scegliendo la costa per potermene, almeno, ogni tanto, più agevolmente andare, è di una gravità enorme.

Ed è ancora più grave, e più triste, che solo in pochi qui se ne siano veramente accorti.

Una cosa del genere non si liquida con una fiaccolata (pure giustissima, naturalmente), né con un corteo antirazzista con i soliti slogan visti mille volte.
Da una barbarie di questa portata ci si può (forse) risollevare studiando, leggendo, viaggiando, incontrando e, soprattutto, guardandosi bene innanzitutto dentro e poi anche l'un l'altro, negli occhi. Senza pregiudizi. Anche verso chi viene da sotto la linea tracciata dal fiume Tronto. Ce la fate?

Dimenticavo. Non sono credente. Non sono.
Credo, però, ancora nell'uomo. E, di più, nella donna e spero che la giovane Chimiery diventi un giorno un medico, come sognava di fare prima che la tragedia le piombasse in casa, dilaniandola materialmente e moralmente. Spero, anzi, che sia proprio lei un domani a curare i Mancini di turno che, temo, continueranno a spuntare come funghi.

Finisco con due canzoni del mio amato Paolo Conte che alla scimmia e all'orango ha dato una dignità che la maggioranza dei cosiddetti esseri umani non avranno mai. Se le scimmie sono queste, allora lo sono anche io.