giovedì 5 giugno 2014

La mia battaglia anti-ipocrisia e gli scherzi (belli) della stanchezza



Ve l'ho detto: è cominciata la mia personale guerra di liberazione dalle ipocrisie.
Per una volta, però, racconto un episodio semi-divertente. Almeno ci provo.
Torno davanti alla porta del reparto e, trovandola chiusa, mi intrattengo a scambiare due chiacchiere con uno dei miei zii, in paziente attesa di entrare. Oggi non era giornata: c'erano talmente tante barelle lungo il corridoio che era assolutamente escluso che potessimo andare in massa da mia mamma fuori dall'orario delle visite. Che poi, tra l'altro, neanche in assoluto ci si può assiepare in una stanza in cui è ricoverata anche una povera ragazza sull'orlo di un esaurimento nervoso. Ed è obiettivamente giusto così.

Mio zio, che è un vero signore d'altri tempi, mi chiede se mi voglio sedere. "No, grazie, sono stata seduta fino ad ora". Mi accorgo delle persone accanto a lui e di lato, verso destra, rispetto a me. Prima del mio arrivo, evidentemente, stavano chiacchierando del più e del meno (in prevalenza di malattie, immagino, visto il "milieu". Che di sicuro non significa ciò che penso io). Fatto sta che un vecchietto in ciabatte, un po' grosso, mi fa: "Così se resti in piedi cresci". E giù risatine, non tanto sue quanto delle due signore tra mio zio e lui medesimo. Io mi giro verso di loro e dico: "Eh, ormai". E quelle, non contente, rincarano la dose, ridacchiando e borbottando qualcosa che adesso non ricordo, comunque devo aver percepito in loro un vago scherno che mi ha infastidito assai (da brava cancerina permalosa).
Rivolgendomi direttamente a loro ho infatti detto con un sorriso, non so quanto serafico, sul volto: "Ognuno ha il suo fisico - pausa teatrale, assolutamente non studiata - e il suo peso".

Una piccoletta come me sullo sfondo annuisce soddisfatta. Subito dopo però osservo meglio le "signore" e mi accorgo della loro ragguardevole massa corporea. Non ridevano affatto. Anzi, mi guardavano serie serie.
Che dire?
La stanchezza gioca anche begli scherzi.
Avanti il prossimo, forza.
Come in C'è posta per te, il remake del mio film preferito, Scrivimi fermo posta, "sono andata ai materassi".

Hop hop.

mercoledì 4 giugno 2014

Spiacevolezze di corsia e scrittura come pratica Zen



La mamma dorme, chissà se è davvero tranquilla come ci sembra a noi che la guardiamo da oltre la sponda di ferro.
Ero lì accanto a lei quando ho ricevuto una ben strana telefonata. "Te lo dico con molta vergonia, ma sai, ho familia. In ospedale prendo molto di più di solito, basta che chiedi, loro mi conoscono. Voi ringraziando dio non lo sapevate perché non avevate mai avuto malati in familia, ma insoma, vorrei... e sono pasate già sue setimane, ho calcolato pure per i giorni pasati".
Cosa? Ci stai chiedendo di più da un giorno (neanche, un'ora) all'altro, a distanza di due settimane dal ricovero, e oltretutto vuoi pure gli arretrati?

Non so come ho fatto a resistere, o meglio, se l'ho fatto l'ho fatto solo per due ragioni: la più importante, la mamma addormentata affianco a me, la seconda, di pari valore, il rispetto nei confronti del grande sale in zucca di mio padre, al quale non mi è restato che riferire la conversazione veramente spiacevole intercorsa tra me e quella persona che avevo tanto giudicato bene perche si arrivasse a una salomonica soluzione. Se fosse stato per me, da ieri sera stessa avrei cominciato a fare io stessa le notti inospedale, ma il pater familias continua a proteggere i suoi cuccioli e date le circostanze sono in fondo contenta che lo faccia.

E dire che sono stata anche accusata (fuori dai denti) di stare troppo generalizzando per quanto ho scritto due post fa. E io che ero stata anche così idiota da non capire bene chi avevo di fronte. Sono abbastanza sicura che sia finita qua, ma davvero, spero che sia così per il bene di tutti.

Un'oretta circa dopo la simpatica chiacchierata, ho saputo dai medici gli ultimi aggiornamenti.
Anche in questo caso ho resistito alla tentazione di fare un'altra scena madre giusto perché ho trovato il modo di sfogarmi qui sul blog, ma sto meditando vendette da consumare a freddo, quando avrò recuperato tutta la lucidità necessaria per rompere veramente i coglioni. E scusate la brutta (e bruta) parola.

"Ve lo abbiamo detto venti volte com'è la situazione, è una malata terminale". Etc etc. Tutto questo lungo il corridoio, a voce alta come al mercato, davanti a vari testimoni, tra cui i due giovani specializzandi (femmina e maschio) che un attimo prima, con ben altro tono, mi avevano dato la mazzata. Non avrei dovuto parlare anche con questa zoccola truccata e potente, ma siccome il giovane maschio mi aveva comunque suggerito di sentire direttamente la dottoressa a capo del reparto in quel momento, io mi sono rivolta anche a lei.

L'ho guardata con il corpo fremente e non ho lasciato che andasse oltre. Mi sono limitata a dirle un "ok, grazie" e a guadagnare l'uscita il più velocemente possibile. Lì ho riferito la notizia a mio padre e agli altri parenti che tutti i giorni trascorrono innumerevoli ore nell'atrio del reparto o nella stanzetta interna. A turno si sono fatti cacciare, ci siamo fatti cacciare tutti, ma i rimbrotti per il nostro eccessivo affollamento non possono di certo fermarci.
Personalmente mi blocca solo la maleducazione e il sopruso
Adesso è andata mia sorella, tra poco la raggiungo. 
Tra noi neanche uno screzio, giusto qualche differenza nel modo di trattare medici, infermieri. E anche la mamma. Linda le parla molto, io la accarezzo, le lavo la faccia e poi ieri le ho fatto sentire la mia lettera. E la musica di Paolo.

Ci vogliamo un gran bene, ce ne siamo sempre voluti tantissimo. E questo è ciò che conta di più al netto di tutto il resto, che vorrei tagliare fuori.
Ma la vita ti chiama e soprattutto la merda che la contorna.
In questo momento la scrittura è per me una forma di meditazione Zen, spero funzioni.

Ieri sera è tornata la dottoressa di mia mamma, che l'ha accarezzata tutto il tempo. Per puro caso ha saputo dell'evoluzione dei rapporti tra noi e la badante albanese. Ha ripetuto anche a Linda quello che già sapevo e scritto. "Più fanno le moine - ha aggiunto un po' scherzosamente - più me ne tengo alla larga. Vostra madre ha visto tutto, ve l'avrebbe confermato". L'ha fatto anche l'altro giorno annuendo con gravità, cara Marilena. Se sapesse della contrattazione sulla sua buonuscita (ma vai a cagare, bello grosso), di sicuro la caccerebbe a pedate, ho considerato io. 
"E il bello - ha proseguito - è che poi vanno a fare le marce per la pace, ma ce ne fosse uno di loro che si prende una badante in casa. No, no: con me hanno chiuso".

Di gente buona ce n'è, tra gli italiani e gli stranieri, abbiamo considerato entrambe, ma per piacere, apriamo gli occhi. Io per prima. Il buonismo fa più danni della cattiveria.
E adesso andiamo oltre. Per davvero. 

lunedì 2 giugno 2014

Medici e ipocriti vari, alienamente e francamente: andate a...



Sono sveglia dalle sei per via della caldaia che non smetteva mai di rombare. Non riuscivo a spiegarmi come mai, visto che nessuno di noi stava usando l'acqua calda, finché mio padre non mi ha fornito una delucidazione razionale: la caldaia è collegata all'autoclave del palazzo, per cui si mette in funzione ogni volta che qualcuno usa quest'ultima. Di mattinieri è pieno il condominio, oltre che il mondo intero, evidentemente.
Io però particolarmente abituata ad alzarmi all'alba non lo sono e infatti sto come uno straccio. A dirla bene, ho avuto anche una bella epistassi nasale di quelle che non mi capitavano da un pezzo. Ma tant'è: sono giornate piuttosto pesanti (strazianti e stranianti) per cui un po' di sangue non ci stava male.

Scrivo per tenere a bada l'ansia: non mi capitava da un pezzo di cimentarmi nella più pura scrittura terapeutica. Sono tornata in un battibaleno alle origini, solo che una volta i miei diari erano cartacei e privatissimi.
Stamattina ho scritto una lettera a mia madre e poi l'ho registrata. Vorrei fargliela ascoltare, possibilmente mentre dorme.
Ieri sera la caposala mi ha trattato un po' male, con una dose per me troppo massiccia di acidità, ma io non ho reagito. Mi sono solo mortificata. Per me e per la mia mamma.

Non ditemi che bisogna avere pazienza, perché lo so da sola. Non ditemi che debbo accettare le strette di mano di medici che vengono a studiare il caso clinico, con formale comprensione.
Non ditemi che devo rassegnarmi alla rassegnazione altrui.
A quella del fratello di mio padre che voleva erudirci sulle reali condizioni di sua cognata, ritenendoci troppo inconsapevoli e speranzosi.
Sapete qual è la frase che mi viene in mente più spesso in questi giorni?
Andate a cagare. Alla milanese, ebbene sì. Non ne avrei alcun motivo, viste le mie origini, ma mi esce quella g al posto della g, come in Ecce Bombo.

Andate a cagare parenti accessori, ma soprattutto andate a cagare medici e infermieri che ci guardate come degli alieni.
Io sono un'aliena per voi, ma voi lo siete per me.
Il male dentro mia madre è ancora più alieno, ma abbiamo dovuto, ci stiamo facendo i conti, molto più di quanto riusciate a capire ascoltando le nostre domande che vi sembrano tanto strane.
Perché non dovremmo chiedervi spiegazioni sulle cure, perché non dovremmo chiamarvi per chiedervi una mano per sistemarla meglio sul letto? Perché non ci lasciate in pace accanto a lei?
Che regole sono queste che impediscono ai familiari più stretti di restare vicino a una persona che voi per primi date per spacciata? Come vi permettete di guardarci con condiscendenza? Vorrei vedere voi, vorrei vedere se fosse vostra madre, vostro figlio.

Oggi non ce l'ho con il mondo brutto e cattivo che non mi ama, ma ho solo bisogno di tirar fuori una sofferenza che vorrebbe sovrastarmi ma che invece devo controllare. Per mia madre, che mi ha insegnato come si fa, innanzitutto, e per mio padre, fortissimo più di quanto avrei mai immaginato.

Non sono riuscita a fingere molto con i miei nipoti, ma ho visto come sono sensibili e intelligenti, c'è buon sangue nelle loro vene.
Tra poco, infatti, smetto di vergare le mie inutili memorie e vado a preparare il pranzo. Fortuna che ci sono le cose pratiche. Come mi riesce bene nascondermi dietro la lavatrice da stendere.

Stasera le porto la mia letterina registrata. Non spero di ricevere nulla in cambio, ma ho fatto giusto in tempo a dirle, qualche giorno fa, quanto sia importante per me. Volevo ribadirglielo un altro po'.
C'è un solo aspetto positivo in tutta questa vicenda: sono caduti un sacco di veli. E credo ne cadranno ancora.
La franchezza è la prima regola della mia vita.
E lo sarà sempre di più fino all'ultimo respiro.

venerdì 30 maggio 2014

Sulla dottoressa anti-badanti: le doverose aggiunte



Fermo avrà tanti difetti, ma non posso negare che la vista da quassù mi abbia un pochino rinfrancato, insieme (ovvio) a mio marito e ai nostri gatti. Questi ultimi, in verità, mi hanno un tantino scansato, visto che non mi vedevano da molti giorni. Ma alla fine sono riuscita ad acchiapparli e a spupazzarmeli qualche minuto.
Adesso abbiamo il tuttofare che lavora in bagno, per cui sono fuggiti di nuovo. Sono molto rassicuranti nella loro totale asocialità.
Volevo tornare giusto un attimo sulla testimonianza trascritta ieri che ha suscitato qualche rimbrotto da parte da qualcuno.

Come ho scritto su Facebook in risposta (in particolare) alla mia amica Silvina, non avevo alcuna intenzione di generalizzare l'esperienza vissuta dalla dottoressa di mia madre, ma solo di fissare a futura memoria un discorso che aveva più di qualche fondamento. E che non annulla affatto quanto ho scritto qualche giorno fa sulla badante di mia mamma, una signora albanese di grande forza e intelligenza.
Ho però tralasciato qualche dettaglio importante.

Innanzitutto, la conclusione amarissima cui la medesima (assai urticante) dottoressa è giunta: Quando ero giovane - considerava - ai tempi del Pci, lottavamo perché tutti fossero uguali. Ho capito nel tempo che non solo non lo siamo affatto, ma che in verità non è neanche giusto che si venga tutti giudicati allo stesso modo. Da medico, considerati tutti i sacrifici che ho fatto e faccio, dovrei essere pagata miliardi, e invece se ho qualcosa è solo perché ci hanno pensato i miei genitori a darmi una mano, mentre gente che non ha studiato, ma ha pensato solo a far soldi, adesso si permette anche di darmi lezioni di vita. Ma avevano ragione loro: studiare non conviene. Dal tutti uguali siamo arrivati all'esatto rovescio: adesso chi studia e si fa il mazzo, è destinato a essere considerato zero. Per questo, adesso, quando sento le storie di queste donne che arrivano da paesi più poveri non mi commuovo più.

Ripeto: sono parole non mie, ma che mi hanno fatto molto riflettere.
Io neanche mi sono commossa ascoltando Ina, però ho provato rispetto nei suoi confronti.
Vorrei tuttavia che anche lei, o chi per lei, provasse rispetto per me, cosa che invece, troppo spesso, non succede. E sapete perché?
Perché sono povera, ma di una strana forma. Sono una povera di ritorno che ha commesso tanti errori, certo, ma ha sempre sudato tutto quel che ha fatto. Ma siccome non urlo, non sgomito, non sentenzio, non conto un accidente. Neanche per i troppi finti amici che a parole mi stanno vicini, ma che in verità se ne fottono di me e della mia storia. E vi giuro che parlo con cognizione di causa. Mi sono semplicemente svegliata, il principe azzurro è finalmente arrivato a baciarmi la fronte.

Aggiungo di essere una povera fortunata, certo, ma come mi ha giustamente detto Ina ieri sera, sono una persona onesta come lo sono i miei genitori: "le radici buone danno frutti buoni", ha considerato, e poi ha aggiunto, nella sua saggezza popolare, "che sono le persone migliori a subire le peggiori sofferenze".
E adesso non sto certo parlando di me.

Insomma: non si può generalizzare né in un senso né in un altro, ma finché non vedrò un reale e concreto segnale di cambiamento in chi oggi è nelle stanze dei bottoni, non farò più sconti a nessuno.
Come ho scritto sempre su Facebook, non confondiamo la bontà e la generosità con il buonismo, il vero male italiano (italiota): non scambiamo gesti concreti di apertura e accoglienza profonda con i proclami del nuovo politico in auge. Teniamo orecchie e cervello teso e ascoltiamo, veramente, gli altri.

E comunque grazie a chi mi ha letto.
E' sempre un onore.

giovedì 29 maggio 2014

Badanti straniere, stop al pietismo


A quest'ora dovevo essere dalla mia parrucchiera a farmi un trattamento probabilmente inutile ai capelli. E invece, per via di uno sciopero dei treni di cui non avevo la più pallida idea, sono a pochi chilometri dall'orrido posto. Che, detto tra parentesi, è meno brutto di altri ospedali, ma resta pur sempre un luogo di grande, grandissima sofferenza, tranne che per pochi casi (le nascite: ho incontrato diverse giovani mamme con i loro frugoletti. Mai provata una tenerezza così partecipata, dev'essere un'altra strategia psicologica di resistenza).

Volevo prendermi due giorni di pausa. Non di più. Giusto due giorni per tornare alla mia vita, precaria assai, sì, ma comunque cadenzata da impegni e pure qualche piacevolezza.
Tutto rimandato a domani, ma scrivere da questa casa innaturalmente silenziosa non mi dà molto conforto.
Scrivo per sfogarmi, come altri pregano, cantano, piangono.

Volevo raccontare della dottoressa di mia madre e della sua visione dell'immigrazione dal generico Est, ma mi accingo a scrivere lo stretto indispensabile: sono troppo stanca.
Accenno solo alla reazione di mia madre, che ascoltava e nonostante la debolezza evidente, annuiva.
Basta con il pietismo nei confronti di queste stronze che si insediano nelle nostre case e poi ce la mettono in quel posto, sosteneva con parole un tantino meno dirette (ma solo per il luogo in cui ci trovavamo, altrimenti, secondo me, ne avrebbe dette di ben peggiori).
Anche noi abbiamo fatto un sacco di sacrifici, ma chi ce li riconosce? Aggiungeva.

Ricordiamoci della nostra storia, proseguiva, pure noi non avevamo niente.
I miei genitori erano poveri come loro, ma mi hanno fatto studiare e se io oggi ho qualcosa è solo grazie a loro. Sono medico, ma a me nessuno mi ha dato niente. Me lo sono sudato fino all'ultimo.
Poi arriva la stronza di turno che si fa assumere per ottenere il permesso di soggiorno, dopodiché, una volta avutolo, si licenzia e a distanza di qualche mese mi fa una causa di lavoro sostenendo che l'ho tenuta un mese in nero. Ma ti rendi conto? 

La simpatica badante, precisava il medico di mia madre, si è fatta assistere da una battagliera sindacalista della Cisl, contro la quale non c'è stato nient'altro da fare che patteggiare. Perché, sì, il mese di nero c'era stato, ma l'aveva voluto lei proprio per via del permesso di soggiorno scaduto. Quest'ultimo, peraltro, rinnovato indicando come residenza la casa dell'anziana madre (cieca) della medesima dottoressa.
La povera vecchia è passata, insomma, per una sfruttatrice del povero lavoro migrante.

Com'è finita questa storia? Vivendo sua madre a cento chilometri da lei, in un piccolo paese dell'entroterra abruzzese, non c'era altra scelta che portarla alla casa di riposo.
Almeno lì, mi ha spiegato la dottoressa, ci lavorano tutte persone del posto ed è trattata bene.
Certo, la mettono a letto alle otto e mezzo, mentre lei era abituata a restarsene in piedi fino a mezzanotte davanti alla tv. Anche se poi le ho detto: ma mamma, quando mai l'hai guardata fino a così tardi? Dopo poco ti addormentavi!

Anche la mia mamma guarda (guarda) la tv fino a tardi, ma a un certo punto, se ti affacci in cucina, la trovi con la testa reclinata sul petto.

Non so dare un giudizio così tranchant sul fenomeno del badantato straniero, però devo ammettere che un po' d'accordo con lei lo ero.
Quanti sacrifici sto facendo e ho fatto anche io finora?
A saperlo prima andavo a lavorare a diciotto anni (ma pure prima) anziché studiare.

Non è mia intenzione lamentarmi, però, se non ho votato e non voterò, penso, per un bel po' di anni a venire, è perché di me e di quelli come me non si occupa nessuno.
Ho la grandissima fortuna di essere stata cresciuta da due persone che dirvi eccezionali è poco, ma posso garantirvi che non mi sono mai risparmiata, mai mi sono tirata indietro, mai ho preteso chissà quale trattamento privilegiato.

Ho sbagliato. Conveniva tentare il colpaccio di sposare un milionario. Ma ormai è tardi.
A questo punto mi restano poche strade. Una delle più praticabili è proprio quella di andare a fare la badante nell'est alle signore (signore? non tutte) che adesso stanno guadagnando abbastanza per tornarsene indietro ricche.
Sarei un'ottima dama di compagnia capace sia di svolgere mansioni pratiche sia di intrecciare conversazioni su svariati argomenti.

Pensateci, future anziane dell'est.
Nel frattempo, incrocio le dita. E, a mio modo (ateo, ebbene sì) prego.
Ci deve essere ancora un po' di giustizia, da qualche parte.

mercoledì 21 maggio 2014

Sanità pubblica e manchevolezze: le mie, innanzitutto



Probabilmente l'ho già scritto: io non so dialogare con i medici.
E' un mio limite, bello grosso, lo so, ma nel momento stesso in cui percepisco da parte loro uno dei seguenti atteggiamenti: indifferenza, sarcasmo, ansia strabordante e/o qualcosa del tipo non so che pesci prendere, quindi non mi rompere le balle, io chiudo la comunicazione più o meno immediatamente.

Purtroppo, a meno di non essere medici noi stessi, in presenza di malattie serie bisogna vincere l'istinto di mandarli a cagare. Perdonate il turpiloquio, ma è esattamente quello che ho pensato in più di una circostanza in quest'ultimo anno e passa.

Poco dopo l'inizio della terribile vicenda familiare che stiamo vivendo, per dire, sono uscita sbattendo la porta dallo studio di una dottoressa. Avevo torto, non nella sostanza, ma nella forma.
Sia come sia, da allora ho cercato di interagire il meno possibile con la suddetta e con la capa della medesima, che ahimè ho rivisto non molto tempo fa.

Non mi ha neanche guardato in faccia, né, soprattutto (perché pazienza per la sottoscritta: spero di non aver mai bisogno di lei o comunque farò di tutto per non farmi curare da lei), mi ha chiesto notizie della sua paziente.

Non ci posso fare niente, ma se non lo scrivo almeno qui, evitando di fare nomi (almeno per il momento), impazzisco.

In tutti i modi, mi toccherà tornare in ospedale, uno dei prossimi giorni.

Del resto, uno dei pochi vantaggi dati dalla modernità è la tecnica e l'unico modo per capire in che condizioni stia davvero una persona seriamente malata è sottoporla a tutti gli esami necessari.
Noi poveri mortali senza amici che ti procurano ricoveri di lusso abbiamo a disposizione la sola sanità pubblica.

Giustamente, una mia amica carissima che vive negli States mi ha più volte fatto presente che lì se non paghi sei fottuto.
Io però ho qualche dubbio che, se la medesima tornasse ad abitare in Italia, andrebbe a farsi curare in uno dei troppi ospedali pubblici italiani assiepati di malati nei corridoi per carenze di posti letto, dotati di arredi vetusti (se penso al letto che non si poteva abbassare dell'ospedale ternano mi torna la rabbia a mille), pareti scrostate e personale non sempre educato, forse anche per via dei troppi carichi di lavoro.

Potendolo fare, pagherei pure io, insomma. E andrei in qualche clinica svizzera silenziosa e accogliente.
L'indifferenza e l'assenza di buone maniere, probabilmente, albergano anche nelle corsie più asettiche, ma qualcosa mi dice che si tratterebbe di eccezioni che non avrebbero peraltro vita lunga.

Non sarò in grado, non lo sono di sicuro anzi, di interagire con chi percepisco respingente, in altri termini, ma è piuttosto probabile che, pagando, otterrei un servizio migliore, esattamente come se scegliessi un hotel a cinque stelle anziché una stamberga.

Alla sanità privata, detto ancora in altro modo, ci siamo già arrivati. E lo stesso sta succedendo per gli altri servizi pubblici (basta prendere qualunque inter city per rendersene conto).
Non raccontiamoci fole, in definitiva.

Faccio anche un esempio concreto: in Germania, chi comincia a usare l'insulina, viene seguito per un'intera settimana in un centro apposito, in maniera che possa imparare per bene come iniettarla e in quale quantità, se è il caso di variare le dosi.
Pur essendo bravissime, le infermiere e la dottoressa dell'ospedale di Chieti non possono permettersi di dedicare più di qualche quarto d'ora (che è comunque già un successo) ai pazienti alle prime armi perché piene fin sopra ai capelli di richieste e/o problemi.

Peraltro, per come la vedo io, proprio perché sono brave e disponibili, finiscono per diventare anche una sorta di telefono amico per malati e parenti in ansia.
Restando l'ambulatorio aperto fino alle 14, è chiaro tuttavia che non possono farcela a esaudire tutti i loro bisogni che continuano anche nel resto della giornata e nei fine settimana.

E pensare che fino a qualche anno fa si diceva che chi frequentava la scuola infermieri sicuramente non sarebbe rimasto senza lavoro.
Anche senza leggere le statistiche, usando invece il solo spirito di osservazione empirica, si intuisce che oggi non sia più così ed è tutto lì il problema.

La disumanità di alcuni va tollerata perché non c'è alternativa.
La disorganizzazione, peggio ancora, è alimentata dalla carenza di personale, oltre che da quelle personali dei singoli addetti alla sanità pubblica.

I parenti sono manchevoli spesso per definizione, per via del carico psicologico che non sempre riescono a gestire.
A farne le spese, sono solo i malati, che devono spiritualmente accendere ceri a qualche santo, o fare mentali riti vudù per sperare di uscirne oltre che vivi, anche non troppo piagati interiormente.

Questo è.
Ma tocca farsi forza e largo nei gironi danteschi redistribuiti in livelli e sperare di cogliere qualche barlume di solidarietà nei compagni di stanza e nei parenti dei compagni di stanza.
Come ci è successo a Terni, dove il figlio della signora ricoverata affianco a mia mamma ci ha regalato dei cioccolatini quando ci siamo salutati.
O dove un paziente che avrà avuto più o meno l'età di mia sorella ci guardava con occhi sgranati di dignità disperata, mentre chiacchieravamo del forum di raiuno. Anche lui, ai tempi dell'università, aveva partecipato con i suoi amici, giusto per tirar su qualche soldo. I casi sono tutti finti, ci ricordava, oggi come allora. Abbiamo riso insieme, dimentichi per un attimo del motivo per cui eravamo in quella fredda sala d'attesa.

Non so come si chiamassero queste persone e le altre che abbiamo incontrato in analoghe circostanze. A loro auguro davvero ogni bene.

E adesso torno al silenzio dell'attesa. Di quest'attesa a distanza che mi fa sentire colpevole.
Persino di ciò che sto scrivendo, perché ho paura che potrebbe risultare falso. La scrittura aiuta, certo, purché non si voglia dare spettacolo.
Perciò non vado oltre.

sabato 17 maggio 2014

Imparare a vivere per raccontare meglio




Parlando con un amico più vecchio che compiva gli anni, a un certo punto me ne sono uscita dicendo che penso di avere qualcosa da raccontare.
Non avrei mai immaginato di pronunciare un giorno una frase così, non perché, in fondo in fondo, non lo pensi davvero, ma per la modestia che generalmente sbandiero nelle più svariate circostanze. 
Una modestia, a volte, fuori luogo, che però in ogni caso preferisco all'eccesso di sicurezza ostentato da troppa gente che mi circonda.

Dev'essersi tuttavia scatenata la ubris divina.
Perché esattamente a una settimana o poco più di distanza da questa mia ben strana dichiarazione di fiducia nella mia auto-significanza, ho incontrato una donna di appena cinquant'anni che di cose da dire ne ha ben più di me.
Man mano che andava avanti nel suo racconto, qualche sera fa, su come sia arrivata in Italia nell'ormai lontanissimo 1998, sentivo di diventare sempre più piccola. Praticamente una nana-neonata, per scherzarci su.

Stringendo sotto le sue braccia forti le bambine avute in giovanissima età (adesso è nonna di due o più nipoti), Ina è riuscita a resistere alla forza centrifuga del gommone che in due ore e mezzo l'ha traghettata dall'Albania alla Puglia.
Era aprile, faceva freddo e loro erano completamente bagnate.
Prima di compiere la traversata, ha venduto la sua casa e con la somma ricavata (comunque una buona parte della medesima), ha pagato il prezzo del futuro migliore, per lei e le sue figlie: otto milioni di lire. Tempo prima era già arrivato suo marito, che stava aspettando il giorno in cui si sarebbero ricongiunti.

Per un soffio hanno rischiato di non coronare il loro sogno: la Guardia costiera (o qualcosa del genere), quella notte, aveva intercettato il gommone che filava come un razzo nell'Adriatico, lanciando l'allarme alle forze dell'ordine di terra.
Disperati, i migranti giunti con lei, avevano tentato di sfuggire alla cattura, invano.
Ina ci ha detto che solo lei e le sue bambine, spinte da qualche demone benigno, erano riuscite a nascondersi, ma che prima di riunirsi a suo marito e agli altri parenti già approdati nella terra della speranza, ci hanno messo diversi giorni.

I primi due anni nel nostro Paese devono essere stati piuttosto duri, ma non conosco i dettagli: è solo una mia supposizione.
Poi sono arrivati a Chieti e via via la famiglia è cresciuta. La nipotina parla il mio dialetto, probabilmente meglio di me.

Della sua storia abbiamo parlato giusto la sera dell'ennesima tragedia dei migranti morti in mare.
Probabilmente dovevo essere qui, in questi giorni, anche per questa ragione.

In un certo senso, perciò, è vero che ho qualcosa da raccontare, ma non di me stessa.

Un'altra sera, forse quella in cui ci siamo conosciute, parlando della crisi, Ina ha dichiarato, tenendo ben dritta la schiena maschile: "Se uno vuole lavorare, lavora. Io ho sempre lavorato, sempre".
Ci credo, ti credo, Ina. Però non hai del tutto ragione, anche se naturalmente rispetto la tua opinione.

Io la forza che hai tu non ce l'ho: non sono partita come te con un gommone alla ricerca di fortuna a molti anni di meno di quelli che ho adesso e non ho vissuto sulla mia pelle il probabile disprezzo che hai dovuto sopportare per la povertà che per fortuna ti sei lasciata alle spalle.
E non ho neanche fatto la Resistenza come i vecchi sopravvissuti che stima il mio amico di cui parlo all'inizio, né sono passata attraverso le privazioni vissute in infanzia dai miei genitori.
Ho avuto, anzi, relativa agiatezza fino almeno ai trent'anni.

Sono diventata donna tardissimo e lo si vede chiaramente dall'età apparente che mostriamo, almeno per ora, tu ed io.
Poi però succede che recuperi in fretta il tempo perso. Il tempo dell'oro.
E tutto assume una luce diversa.

Non sono, certo, ancora in grado di fare un racconto oggettivo, letterario, quasi, di quel che stiamo passando negli ultimi tempi.
Però, se è vero che ho qualcosa da dire lo si vedrà a breve.
Altrimenti, farò bene a tacere. 
E a imparare dell'altro.
Vivendo.