martedì 31 gennaio 2012

Muccino e il masochismo

Diceva il saggio che bisogna piangere solo se stessi quando si è causa del proprio mal.
Non esiste frase più appropriata di questa per commentare le due inutili ore che ho trascorso ieri sera davanti alla tv, a guardare che cosa? "Ricordati di me". E dire che ormai, in certi ambienti, quelli più radical-snob, si usa proprio citare i film di Muccino per descrivere situazioni inverosimili o surreali riferite, naturalmente, sempre a qualcun altro. Perché nella nostra vita quotidiana, consideriamo, quando mai ci sono capitati fatti anche solo lontanamente simili a quelli rappresentati sullo schermo?
Quel che mi fa più tristezza, però, è che temo che da qualche parte, al contrario di quanto sosteniamo noi, "fini intellettuali" (veri) proletari, vicende similari a quelle raccontate dal nostro italico regista, succedano davvero.
Sì, perché le famiglie con madre e padre professionisti, una bella casa e figli adolescenti dall'encefalogramma piatto, esistono sul serio. Esistono ancora. Altrimenti, non si spiegherebbero neanche "Un posto al sole" o il redivivo "CentoVetrine", quest'ultimo in particolare capace di farmi sganasciare dalle risate per quanto è brutto. E però, le soap opera non hanno la pretesa di proporsi come cinema d'autore e hanno il pregio della brevità, un elemento che rende davvero spassosi i pochi minuti che ogni tanto trascorro nell'annotare per l'ennesima volta l'improponibilità delle loro sceneggiature e le canidiche interpretazioni.
Nel caso di Muccino, invece, quel che mi turba è che lo si spacci per buon cinema italiano. "Il" buon cinema nazionale, anzi.
Ora, siccome so di essere tremendamente selettiva, per una volta, devo essermi detta, proviamo a vedercelo questo Muccino (lì per lì pensavo fosse Virzì, a dirla tutta): magari mi ricredo. Magari mi convinco anch'io che sì, Muccino è davvero un grande e io sono la solita rompipalle altezzosa.
Il risultato? Sono andata a dormire con un fastidio in tutto il corpo e pure con una leggera nausea.
Mi sono ricordata di quando, da ragazzina, ho passato qualche tempo a leggermi un racconto d'amore su "Intimità della famiglia", una rivista che circolava a casa mia, quando mia madre aveva, credo, all'incirca l'età che ho io adesso. Era terribile, anche se adesso non rammento più di che cosa trattasse. Ho solo ancora nella memoria quel certo abbrutimento che si prova quando si passa del tempo in un'attività oziosamente dannosa.
Ecco. Ieri sera mi è successo qualcosa del genere. E pensare che avevo un bel libro da leggere, magari cullata da un piacevole sottofondo musicale. Da dove viene tanto masochismo? E' anch'esso un retaggio dell'educazione cattolica che a volte mi appesantisce passo e pensieri? Chi lo sa.
Se però ho deciso di fissare questi rovelli sulla carta, è proprio per cercare un antidoto alla mia connaturata tendenza a farmi del male.
Meglio, di gran lunga, qualunque telefilm americano (ma pure una fiction tedesca, all'occorrenza) di un "buon film" italiano. Se poi, per pura casualità, dovessi incapparne in uno decente, non mancherò di riportarlo.
Ma per il momento, direi che ho già dato.

domenica 29 gennaio 2012

Faccia da formaggino

Ho ritagliato i capelli.
Nel mio intento originario, avrei dovuto darmi una spuntatina o scalatina, se vi piace di più.
Invece, che è successo? Ho visto su "La Repubblica" la fotografia di una disegnatrice francese, ora ultrasettantenne, all'apice del suo splendore di giovane donna.
E ho fatto la cazzata.
Innanzitutto: io NON sono più una giovane donna, o, se lo sono, è solo perché, per fortuna, l'età media si è allungata e vivo in Occidente.
In secondo luogo, anche sforzandomi un po' di più di come già faccio, non sono chanteuse come la disegnatrice di cui sopra, che, a proposito, si chiama Claire Bretecher.
Infine, anche ammettendo (come in effetti ammetto) di dimostrare meno dei miei anni e di poter ancora, tutto sommato, mascherare le zampette laterali e le rughine all'attaccatura del naso anche grazie agli occhiali, non c'è niente da fare: non ho ottenuto il risultato sperato.
E la colpa non è della mia parrucchiera, che ha seguito, scrupolosissimamente, le mie indicazioni. E' proprio del mio faccino e della mia piccola statura. Con i capelli corti, insomma, anziché sembrare una fascinosa quarantenne, ho finito per essere pari pari a Susanna, non Camusso (non esageriamo), bensì quella dei formaggini.
Di qui l'immediata rimozione del mio primo piano su Facebook, non più veritiero.
Lo dichiaro apertamente: aveva ragione mia madre. Stavo meglio con i capelli lunghi. Magari non quanto li avevo prima dello scalpo (cominciavo in quel caso a somigliare a una invecchiata "madonnina infilzata", una definizione che mi è stata davvero affibbiata una ventina d'anni fa dalla nonna, oggi buonanima, del mio, ai tempi, amatissimo fidanzatino pisano), ma almeno un po' di più di adesso.
Devo tuttavia essere fiera del mio coraggio: un tempo non ce l'avrei mai fatta, segno, anche questo, temo, dell'età che avanza.
Per fortuna, il mio gentilissimo (e sicuramente innamorato) consorte mi fa tanti complimenti (persino la suocera è concorde e, come dice lui, lei non fa sconti a nessuno), ma sono io a sentirmi a disagio.
No. Con questo faccino di pochi centimetri quadrati e la mia scarsa statura, sembro un pulcino spennato, un effetto accentuato anche dalla sottigliezza estrema dei miei capelli.
E d'altra parte, non sempre si è in armonia con se stessi, ma in tempi in cui non lo si è neanche con il mondo e la realtà, probabilmente, siamo maggiormente portati a guardarci il nostro ombelico.
A chi mi chiede "ma come ti è venuto in mente?" anche solo con gli occhi (ma chissà che non sia il mio sguardo incerto a rimandare nel loro la domanda muta che continuamente vado rivolgendo a me stessa), ho deciso di rispondere così: "le artiste portano i capelli corti".
Si tratta, ovviamente, di una risposta scherzosa, di quelle che improvviso per togliermi dall'imbarazzo.
E no, non è solo una questione di insicurezza (chi è del tutto sicuro di sé, per me, è un imbecille. Senza appello), è proprio che gli azzardi a volte si pagano.
Pazienza. So di aver fatto bene: bisogna provare un po' di disorientamento per ricentrarsi e per uscire da se stessi.
Tra l'altro, la mia esperienza artistica (piccola e imperfetta) è quanto di più piacevole mi sia capitato negli ultimi tempi. Chi se ne importa di un po' di ciocche bionde (ahia) spazzate via dalla mia Nives (così si chiama l'efficiente e simpatica parrucchiera che mi ha fatto la bella acconciatura del matrimonio) e dei giudizi tiepidi (o proprio inesistenti. Fanculo ai silenti snob, non ai semplici timidi) su quel che ho prodotto nell'ultimo periodo?
Meglio un anonimato fertile che una popolarità superficiale.
Meglio capelli spenti e spennati piuttosto che meches scolorite e spaventevoli doppie punte.
Però, accidenti che fatica restare ancorati a terra in mezzo alle tempeste del presente.
E che freddo al collo!
Le sciarpe, però, non mi mancano.
Basterà sceglierne una particolarmente calda per i prossimi mesi.
Per fortuna, la primavera è più vicina di quanto sembri.
E per quell'epoca i miei capelli saranno ricresciuti. Almeno un po'.
Speriamo che nel frattempo si vedano anche altri frutti.
Io ce l'ho messa tutta, e di questo sono veramente molto fiera.
Semmai, mi procurerò una lacca a tenuta fortissima contro le sfighe e le ambizioni frustrate.
E andrò dritta (la schiena sarà corta, ma accidenti se è dritta!) per la mia strada. Alla ricerca dei raggi di sole che mi schiariscano i capelli e ridiano luce anche al mio cuore.
Avanti così.

giovedì 12 gennaio 2012

I libri che non ho letto e le contraddizioni dell'animo umano

Quei copridivani malamente adagiati dicono molto; altrettanto i cuscini poco sprimacciati e il cavo della stufetta che tenta di riscaldare la stanza in teoria dedicata agli svaghi creativi.
Eppure, le sedute sarebbero comode e l'illuminazione adeguata agli amanti delle parole scritte (e della musica, da ascoltare e da suonare).
Ciò non toglie che non abbia ancora letto tutti quei volumi in primo piano.
Ebbene sì, come mi ero ripromessa nel precedente post, alla fine l'ho fatto: ho ripescato dalla libreria alle spalle di questo scatto tutti i libri rimasti ancora intonsi, alcuni da un certo tempo, altri (e me ne consolo un po') da meno.
Adesso li ho riposti sullo scaffale, però tutti di seguito e in bella vista, in maniera tale che mi stimolino, per via della loro stessa presenza fisica, della loro materiale esistenza, direi meglio, ad aprirli uno dopo l'altro, prima di tornare in libreria a fare un'altra inutile scorta.
Oddio. I libri quasi mai sono superflui o peggio, dannosi. L'unico momento in cui ho detestato averne abbastanza (assolutamente non troppi) è stato durante i traslochi, questi sì, in effetti, piuttosto numerosi negli ultimi sette anni.
In teoria, da questa casa, non dovrebbero cacciarci almeno per altri due anni (rinnovabili per altri quattro, salvo imprevisti, che, come insegna il Monopoli, possono essere anche positivi. E meno male!).
Posso farcela a leggerli tutti per tempo ed eventualmente decidere di regalarli a qualche biblioteca o mercataro prima di rimpacchettare tutto?
Ma sì, in teoria è possibile.
Già so che non accadrà.
Il desiderio di acquistarne di nuovi, potenzialmente più interessanti di quelli che ho già, a volte è incontenibile.
Passando per Milano, per esempio, non ho potuto fare a meno di fare un salto alla Feltrinelli della stazione centrale, un luogo veramente pericoloso per le mie tasche. E infatti ho comprato due storie a fumetti. Una l'ho già bruciata, l'altra staziona ancora sul mio comodino, in attesa del giusto momento per essere sbranato (almeno lo spero! Quando ci metto troppo, vuol dire che la storia non mi ha preso abbastanza, soprattutto se si tratta di un fumetto. Per altre forme letterarie, invece, le partenze lente non significano per forza tiepidità).
Insomma, vedremo.
Stasera, per esempio, dubito che leggerò qualunque cosa: la ristampa Dago l'ho già divorata, il numero a colori preso ieri in edicola (ahiaiai: ecco perché i libri restano a fare la polvere... il "mio" rinnegato è peggio della mela di Eva) è troppo impegnativo per il sonno che ho.
Però almeno ho fissato sulla carta i miei buoni propositi.
Scripta manent, come si dice.
Ma le contraddizioni fanno parte dell'animo umano.
No, non ce la farò.
Buonanotte.

lunedì 9 gennaio 2012

MEME, ovvero i libri letti nel 2011 (su sollecitazione di FairyRain)

MEME è un test che mi ha girato la blogger FairyRain, alla quale dico: carissima, proverò a rispondere in tutta sincerità, utilizzando la mia traballante memoria di breve periodo (ehm, se fosse vero, significherebbe che soffro di Alzheimer. HELP!). Ma già so che ogni tanto mentirò... Vado.

1. Quanti libri hai letto nel 2011?

Una ventina, ma non sono in grado di totalizzarne le pagine.
2. Quanti erano fiction e quanti no?

What? Due saggi me li sono sciroppati, il resto è tutta narrativa/fumetti/poesia.
3. Quanti scrittori e quante scrittrici?

Quasi tutti maschi, ahimè, ma con qualche intermezzo femminile di vero spessore.
4. Il miglior libro letto?

"Il calore del sangue" di Irene Nemirowsky, per la narrativa, "Polina", per i fumetti (il cosiddetto graphic novel).
5. E il più brutto?

Sinceramente: non saprei. Di solito mi piace tutto quello che leggo, perché scelgo con molta attenzione... Certo, ogni tanto qualche sola la prendo lo stesso, ma direi non nel 2011.
6. Il libro più vecchio che hai letto?

In senso cronologico o in base al calendario dell'anno scorso? Vabbè, prendendo per buona la prima, un racconto di Natalia Ginzburg, "La strada che va in città", del 1942 (sono andata a controllare). 
 7. E il più recente?
Forse "Un calcio in bocca fa miracoli" di Marco Presta.
8. Qual è il libro con il titolo più lungo?

Sicuramente: "Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve".
9. E quello col titolo più corto?
Forse "Polina"?
10. Quanti libri hai riletto?

Mi pare nessuno: è grave?
11. E quali vorresti rileggere?
Tutti i racconti di Alice Munro, per rinfrescarmi le idee su come si scrive.
12. I libri più letti dello stesso autore quest'anno?

Fumetti d'autore: il grandissimo Dago!!!
13. Quanti libri scritti da autori italiani?

Diciamo una metà.
14. E quanti libri letti sono stati presi in biblioteca?

Nessuno. L'anno scorso, invece, più di uno.
15. Dei libri letti quanti erano ebook?

Nessuno, non sono capace di leggere dallo schermo, mi annoio e mi ipnotizzo.


Mi daranno un premio? Ne dubito.
Comunque, FairyRain, pensarci su mi ha fatto ricordare il mio prossimo compito: mettere in evidenza, sulla mia libreria, i volumi che ho comprato (o mi hanno regalato) e non ho ancora aperto. Non so se capita anche a te (o agli altri, sparuti, miei lettori): ogni tanto cado nella tentazione di ricomprarmi un libro che ho già... e con ciò ritorno al dilemma iniziale: Alzheimer o non Alzheimer? 
Buone letture a tutti.

mercoledì 4 gennaio 2012

Sulla maternità

Il tipo in primo piano è un artista: si chiama Maurizio Governatori. L'opera sullo sfondo ha suscitato la mia curiosità prima di tutto perché ha sostituito un'installazione con due oche vere che mi aveva lasciato alquanto perplessa; in secondo luogo, per il soggetto raffigurato.
Si tratta di una maternità "negra", ritratta, probabilmente, dal vivo in uno dei frequenti viaggi che sembra faccia l'autore. Da quel che ho capito, Governatori è più all'estero che in patria, il che gli fa onore, considerato l'attaccamento dei locali alla loro terra d'origine. Un attaccamento giustificato dalla bellezza delle colline marchigiane, tuttavia un po' soffocante se privato dell'umano desiderio di allargare i propri orizzonti.
Forse, qualcosa del genere succederà anche ai conterranei della Madonna nera dipinta dal nostro: indirettamente lo conferma Loretta Emiri nel suo libro "Quando le amazzoni diventano nonne", in cui, con molta originalità, l'autrice accosta la propria storia familiare, rurale e povera, con gli usi degli Indios Yanomami, con cui ha vissuto per anni.
Loretta è una piccola donna dallo sguardo lungo: solo una persona dotata di queste caratteristiche poteva compiere un'operazione così azzardata, e cioè sfatare il mito del buon selvaggio e insieme farci rivivere i tempi semplici, ma estremanente duri, dell'Italia della prima metà del Novecento.
La maternità, ai tempi, poteva essere atroce, quando era conseguenza di rapporti ferini, per nulla desiderati, soprattutto dalle donne.
Non so, non posso dirlo, se quella donna nera sia felice o meno della sua pancia esibita e dei suoi meravigliosi seni già prossimi all'allattamento, ma so con certezza che non tutte le donne vorrebbero trovarsi in quella condizione, sotto lo sguardo indiscreto di estranei che ne soppesano le forme.
Loretta Emiri scrive di non aver voluto figli per scelta: dovrò chiederle perché e se la sua decisione abbia a che fare con la brutalità biologica cui è condannata la madre, costretta per mesi a stare alle regole stabilite dalla creatura generata.
Una coppia che mi è molto cara non ha voluto figli per non accelerare, mi ha detto, l'esaurimento delle risorse terrestri. Di avviso simile sono tutti quelli che ritengono la procreazione un bisogno primitivo, l'opposto di una società evoluta, che invece dovrebbe mirare a prendersi cura di tutte le creature, non solo dei cuccioli d'uomo. E in effetti, non è un caso se nei paesi più civilizzati i figli siano diventati sempre di meno.
A volerlo, sono state innanzitutto le donne: per questo, poi, ci sono blogger fintamente provocatori che scrivono che sarebbe meglio che queste ultime non studiassero.
A ben guardare, è proprio così: più c'è cultura, più ci si tiene lontane dalla maternità.
Forse, finito di posare, quella bellissima futura madre nera avrà chiesto all'artista di parlarle dell'Italia, di illustrarle le abitudini di un popolo così lontano, incalzandolo con domande sempre più dettagliate.
Le donne sono curiose, quasi tutte, e quando hanno la possibilità di ragionare con la propria testa, difficilmente si lasciano imporre un destino.
Fare la madre, probabilmente, non è il mio: mi dispiace se deluderò familiari e amici, ma comincio a pensare che sia così.
Sono troppo vecchia e il mio corpo sta scegliendo per me. Prima, ho voluto conoscere, viaggiare, studiare e amare in libertà. Non posso farci niente se ho avuto le possibilità economiche per scegliere chi diventare.
E chi sono? Chi sarei? Una donna abbastanza serena, abbastanza realizzata, sempre desiderosa di scoprire cose nuove, pronta a sperimentare nuovi cambiamenti, nonostante la precarietà e il peso di un futuro sempre meno limpido.
Psicologicamente, oggi sarei pronta a fare la mamma. Avrei voglia di raccontare quel che so (e quello che non so) a mio figlio o mia figlia (o a tutti e due: geneticamente sarei predisposta a generare gemelli!), ma non me la sento di forzare la natura, non lo trovo giusto. Questo sì che sarebbe egoistico e tremendamente occidentale.
Così leggo di altre maternità, di amiche e di donne lontane (Gabriela Wiener ha scritto un bellissimo racconto sul parto naturale nel numero speciale delle Storie di Internazionale), commuovendomi ai loro aneddoti e partecipando alla loro fatica.
Se potessi, darei una mano a tutte le mamme, cullerei i loro piccoli e mi divertirei a giocare con loro. Sono capace di stare con i bambini, me ne sono accorta con i miei nipoti e, anni prima, con il primogenito di una mia amica ormai lontana.
La vita, però, è bizzarra, il destino ancora di più.
Intanto, il sangue rosso, quello che richiede una vera e propria iniziazione tra le donne yanomami, scorre e se ne va, ancora un'altra volta, chissà per quanto tempo ancora.
Quando è comparso la prima volta, con un certo anticipo rispetto alle mie coetanee, sono stata dal dottore: nessuna iniziazione, dunque, ma solida, razionalizzante, medicalizzazione.
E così che va la vita tra le donne acculturate nate nel benessere. Una condizione che sta via via esaurendosi, già, e chissà che non sia proprio l'istinto materno a tenermi alla larga dalla miseria cui potrei condannare i miei figli qualora li generassi.
Se non doveste arrivare, come comincio a credere, sappiate che vi avrei voluto bene. Un bene ancestrale e primitivo, un bene che nessun libro, nessuna storia saprebbe mai narrare.

giovedì 29 dicembre 2011

Buoni accrocchi a tutti

Dall'esterno non si capisce bene. O forse sì. Già dalla finestra a sinistra, con il tubo inclinato sottostante, coperto per un pezzetto dall'asciugamano svolazzante, e dalla gemella con le tende incrociate alla meno peggio intorno alla maniglia, si intuisce che lì dentro si svolge una vita piuttosto caotica.
Come posso dirlo con tanta certezza? Semplice: perché quelle sono le finestre di casa mia, compresa la terza, più a sinistra, dietro la quale s'intravede un tendone asimmetrico, usato dalla gatta come liana da circo.
Non ne sono certa, ma credo di far parte di quella categoria di persone incapaci di vivere nell'ordine.
E dire che mi sforzo di togliere i vestiti e le scarpe e di pulire periodicamente (con intervalli, lo riconosco, non sempre della stessa grandezza).
Per essere vere reginette della casa, però, la pulizia e il rigovernamento da gran bazar non basta. Occorre, probabilmente, una predisposizione genetica, e, ancor più, una volontà di ferro.
Invece, la mia indole naturale tende verso altre suggestioni.
Da bambina, quando non volevo rimettere a posto i giocattoli da sola, dicevo che avevo "la mano secca".
Giusto ieri una mia recente conoscenza parlava della cattiva abitudine del figlio piccolo di infilare tutti i giocattoli sotto al letto, quando gli si chiedeva di fare ordine.
Probabilmente facevo cose del genere anch'io. Adesso, butto tutto nell'armadio, tenendo però stranamente fede al doppio scomparto che divide collant e calzini che ho orgogliosamente ricavato nello scatolone dal coperchio schiantato stazionante sotto cappotti e pantaloni.
La sciarpe, invece, si agitano e si riavvoltolano l'una con l'altra, come anime dannate.
Alla destra dello scatolone delle calze, invece, tengo una coperta, nel suo contenitore di plastica, almeno questo sì, sopra alla quale ho deciso che sia bene tenere i regali che devo ancora assegnare, a riparo da occhi indiscreti. Sempre ammesso che non passi troppo tempo, altrimenti c'è il rischio concreto che i suddetti regali scivolino giù, lungo il fianco liscio dell'involucro della coperta e poi vatti a ricordare che li avevo comprati.
Insomma, sono sicuramente una "accrocchista" nata, intendendo con questo neologismo di difficile pronuncia, la mia naturale tendenza al'accrocco. Ma che cos'è un accrocco?
Dicesi tale, mi è stato spiegato, la composizione fatta con oggetti delle più disparate fogge e finalità, ammassati insieme nella convinzione che quella sia la loro giusta collocazione.
Per esempio, nel carrello a tre piani che abbiamo in cucina, sono riuscita a piazzarci dall'alto in basso: due dei tre sacchi per la raccolta differenziata e, appena sotto i medesimi, cinque-sei bustoni per la spesa; al piano di mezzo abitano da un po' le ciotole avanzate dei gatti, infilate in una busta di cellophane per ripararli dalla polvere (mi piace la plastica, sono un'accrocchista figlia della post-industrializzazione); infine, al terzo, ci sono altre buste, quasi tutte di carta, compresa una grandissima che, direbbero i toscani, sbuzza dal ripiano, e non di poco, da entrambi i lati.
E dire che altre buste (mamma mia quante) stanno appena dopo una credenzina cui, appena presa, avevo spezzato un piedino, prontamente risistemato in maniera provvisoria. Ciò vuol dire che non esiste la possibilità di spostarla, causa rischio crollo della struttura tutta, piena di piatti e bicchieri.
Se analizzo, di seguito, gli oggetti che albergano (nell'ottica dell'accrocchista, tutto alberga, non dimora stabilmente) sul comò all'ingresso, che una volta usavo nella mia camera da letto da ragazza, e tutti gli inutili gingilli che affollano la mia scrivania, capisco che non potrò cambiare mai.
Meglio rassegnarsi e mostrare con orgoglio il sacchetto di stoffa appeso alla cyclette dall'estate scorsa, contenente le zanzariere che ho opportunamente lavato (e addirittura stirato!) alle prime piogge d'autunno.
Perché l'accrocchista rispetta i cicli stagionali, l'incedere del tempo e la decadenza.
Anche gli accrocchi, infatti, prima o poi, muoiono. L'importante è sostituirli con altri nuovi, fiammanti, ripromettendosi (falsamente) di scioglierli e assegnarli ad habitat loro più consoni, un giorno o l'altro.
In fondo, ogni illusione è così dolce. Perché privarsene?
Buon anno, amici, e buoni accrocchi creativi, dovunque vi portino.

sabato 24 dicembre 2011

La dignità non va in ferie

Lavorare stanca, diceva Cesare Pavese. Eppure, al lavoro dei campi e alla bellezza dello stare a contatto con l'aria, il vento, la pioggia e il fuoco aveva dedicato uno dei suoi libri più belli.
Oggi, probabilmente, sarebbe costretto a rivedere il suo pensiero. Non lavorare stanca molto di più.
Per questo, poi, si finisce per inventarsi dei simil-lavori o per buttarsi anima e corpo nel sostegno ai familiari anziani o malati.
Niente di male, intendiamoci. L'una e l'altra strada seguite dai senza paga sono forme di resistenza alla fine del lavoro salariato e dipendente.
L'estate scorsa ho letto ben due libri in proposito, ma qui non mi va di fare sfoggio di finta erudizione.
Piuttosto, volevo parlare delle ferie che ha preso la mia edicolante scontrosa, quella che quando mi vede comprarle un giornale, vorrebbe che sparissi in una frazione di secondo.
No, non ce l'ho fatta a cambiare edicola, come mi ero ripromessa qualche post fa. Semplicemente, ho lasciato passare qualche giorno prima di ritornare da lei che, incredibilmente, mi ha accolto con un sorriso.
Forse, non vedermi troppe volte di seguito le fa bene: magari capisce che sono una delle poche persone che legge (stupidamente) ancora i quotidiani e che, tutto sommato, guadagnare qualche spicciolo non è così malaccio.
Fatto sta che dopo quel sorriso è tornata al suo standard rugnoso. Fino all'altro ieri, quando l'ho incrociata mentre attraversava la piazza.
Questa volta, non solo mi ha sorriso, ma addirittura mi ha chiamato per nome!
Io, invece, andavo di fretta, infreddolita e incupita da un fastidioso contrattempo. La sua cordialità ritrovata mi ha disorientato. Com'era possibile? Qualche ora più tardi s'è svelato l'arcano.
L'edicolante è andata in ferie. Ebbene sì: ha chiuso i battenti fino all'1 gennaio dell'anno incipiente e chi s'è visto s'è visto.
Evidentemente, a lei, di stare ore e ore in quel bugigattolo freddo, con i pochi clienti che ancora si ostinano ad acquistare carta scritta, proprio non gliene va. Peggio ancora adesso, sotto le feste, con le "orde" di turisti e cittadini a spasso, tutti lì a costringerla a darle incalcolabili resti di monetine. Per carità, troppa fatica.
Idem ha fatto la gelateria (e del resto, chi è che compra il gelato d'inverno?) che ha preferito sprangare le serrande. 
Poco fa ha citofonato una giovane rilevatrice del censimento per farci la ramanzina. Ebbene sì, non abbiamo ancora compilato il modulo: i disoccupati et similia hanno un sacco di impegni, mica possono perdere tempo con la burocrazia?
Tra i due episodi c'è un nesso. Eccome se c'è.
Se ci fosse un mercato del lavoro serio e una politica (nel senso proprio del termine) altrettanto accorta, non sarebbe possibile chiudere i battenti in tempo di ferie o, viceversa, non si potrebbero costringere malcapitati ragazzini a lavorare giusto alla vigilia di Natale. Perché, ne sono sicura, nei giorni scorsi non ci ha cercato proprio nessuno.
Edicolante carissima, se qualcuno ti avesse tenuto aperta la rivendita in questo periodo, ti avrebbe fatto schifo? E tu, gelateria, che ne dici? 
Ugualmente, Comune e simili, perché assumere, a ridosso della festa più importante dell'anno, dei poveri cristi in cerca di reddito, spedendoli all'uscio di gente impegnata a fare cappelletti e pacchetti?
Intanto, lo spread sale e i risparmi vacillano, mettendo a rischio anche le speranze di quelli che non vogliono arrendersi. Lavorare stanca, non lavorare stressa e abbatte, ma ancora di più logora sentirsi senza prospettive.
In questa condizione oggi quanti saremo? Molti di più di quanto potessi immaginare, almeno dal piccolo sondaggio che ho potuto fare in questi giorni di numerosi scambi e incontri.
Al contempo, però, c'è ancora molta ricchezza e, diciamolo, diversi privilegi. Perciò, le voci di chi vorrebbe fare, con competenza, serietà e umiltà, restano flebili. 
Ho appena dato l'ok a un mio amico che ha intenzione di documentare come vivono i professionisti sciolti da contratto. Leggendo la sua richiesta, ho sentito come una scossa: diavolo, sono proprio come mi descrive lui, appartengo anch'io al gruppo di quelli "in perenne stato di precarietà e con scarse tutele sociali", una categoria che annovera "i lavoratori autonomi che operano nel campo della conoscenza come fotografi, architetti, grafici, sceneggiatori, programmatori, traduttori, copywriter, blogger, videomaker, musicisti", come scrive nella sua mail.
Quando ci sei dentro, finisci per dimenticartelo, fingendo, con te stesso, prima ancora che con gli altri, che tutto vada bene, che tutto sia sotto controllo.
Del resto, i dolori più forti, persino il travaglio, li dimentichiamo. Se non fosse così, cadremmo in un'angoscia, questa sì perenne, altro che reddito precario.
Perciò, ok, ci sto a fare la professionista senza (o quasi) tutele, ci sto a fare lavori non troppo qualificati; potendolo fare (ma sono troppo vecchia: dubito che mi avrebbero selezionata), sarei andata anch'io a bussare alle porte degli italiani alle prese con il capitone, però sogno un giorno in cui saremo chiamati a dare il nostro contributo con la dignità che meritiamo. E con la competenza che abbiamo accumulato anno per anno, giorno per giorno, con amore e dedizione per ogni passo in più realizzato. E non mi riferisco solo ai freelance come me, ma parlo anche a nome del tecnico delle bombole, della rilevatrice del censimento, dell'operaio tuttofare, e, sì, anche dell'edicolante a corto di motivazione. 
Dignità vuol dire anche equo compenso, giuste condizioni di lavoro e adeguati ammortizzatori nei momenti di crisi.
Dignità vuol dire rispetto vero per la vita di ciascuno.
Da quest'ultima non si dovrebbe mai andare in ferie.
Buon Natale, amici.