mercoledì 2 dicembre 2015

Raccontare ciò che si sa. E ricominciare



Non immaginavo che facendo stretching mi venisse una gobba così, ma comunque non mi posso lamentare. Sono stata immortalata in questa guisa ieri sera nella mia amata palestra, durante la lezione con Rita Sacripanti, l'insegnante di fitness più tosta che io abbia mai conosciuto. Una maga, oltretutto, degli abbinamenti tutina-calzini-fasciapercapelli-scarpedaginnastica.

L'autrice dello scatto è Tiziana Bastiana, l'altra insegnante appartenente all'Associazione sportiva Fermo 85, che di solito incontro il lunedì e spesso il giovedì (in alternanza con Rita), la sola che sia riuscita a farmi volteggiare (all'incirca) e salire e scendere dallo step senza eccessiva ansia.
Alle mie ore nella palestra di Fermo ho già dedicato almeno un paio di post, per cui cerco di non ripetermi.

Ieri e l'altro ieri, però, ho finalmente messo in pratica un proposito che maturavo da tempo: fotografare la lezione, le donne che dividono con me gli allenamenti e le istruttrici. Soprattutto loro.
Il tutto (o meglio: una piccola parte del reportage nipponico che ultimerò domani sera con la lezione di zumba, che io non frequento, ma che è assai meritevole d'attenzione) finirà nella mostra natalizia all'ex mercato coperto della cittadina del Girfalco.

Ho avuto l'idea giovedì scorso, praticamente quasi in zona Cesarini (la mostra si apre il 12 dicembre prossimo), dopo giorni durante i quali mi scervellavo nel tentativo di escogitare qualcosa di originale.
Ballonzollando a ritmo di musica, mi si è accesa la lampadina di Archimede: falla semplice, racconta ciò che sai.

E così sto facendo, anche con un certo orgoglio e anche se l'impegno e la fatica ci sono ugualmente, quasi non sembra di provarli.

Più o meno gli stessi sentimenti ho avvertito stamattina pagando l'ultima rata che sancisce definitivamente l'acquisto del mio appartamento.
Sono, come potete immaginare, preoccupata per il conto che via via scende, ma al contempo sento fortemente di aver fatto la cosa giusta.

Quindi mi allungo, oltre i miei 152 centimetri, respiro più profondamente e attendo con fiducia il domani.
E a chi crede che lasciare il giornalismo significhi mollare, beh, non è così.
Significa con coraggio ricominciare.
Da qualche parte qualcuno sta sorridendo con me.

Hop hop...

lunedì 30 novembre 2015

Nuova vita, nuovo lavoro: give me a chance, please



Se non fosse venuta mia cugina, dubito che sarei riuscita a tornare in quel posto con la leggerezza che, tutto sommato, ho provato.
Cioè, intendiamoci: sono piombata in una delle stanze che ben conoscevo un tempo con un fortissimo scetticismo, alimentato, peraltro, anche da quel che ho sentito lì dentro.
Mi pare di capire, detto in soldoni, che la politica europea e italiana delle quote accettabili sul suolo patrio di migranti non funzioni proprio benissimo e anche se comprendo con tutta l'umanità di cui sono capace che quelli che ci lavorano a stretto contatto abbiano l'urgenza di far sapere quanto male stiano le cose, dubito assai che qualcuno dei presenti all'incontro (me compresa, ovvio) potrebbe fare qualcosa per "squarciare il velo dell'indifferenza", usando una delle noiosissime frasi fatte, circolanti in ambienti sociable.

Insomma: come ho già scritto un po' di tempo fa, non credo (non più, comunque) nel giornalismo sociale. Mi spiego meglio: credo che il giornalismo, se fatto bene, abbia una natura sociale, socializzante e solidale di per sé, senza bisogno di ulteriori aggettivi.
Come farlo bene? Lo dico apertamente: dietro sonante denaro. Per scrivere pezzi seri, fare reportage dal basso o dall'alto, come volete voi, bisogna avere (ma guarda un po') compensi adeguati ed editori veri. Diversamente, si scriveranno, filmeranno, condivideranno chiacchiere o punti di vista limitati al mondo al quale si appartiene e dal quale non si ha il coraggio (comprensibile, abbiamo tutti famiglia) di uscire.
Ma andiamo avanti.

Per fortuna, qualche perla rara si trova pure in mezzo alla monnezza.
Alcuni incontri e alcune informazioni raccolte resteranno nella mia memoria e anche il fatto di aver usato l'auto, di essermi vestita e armata di una corazza immaginaria contro uno dei vari mondi che mi ha rifiutato (o che io non ho accettato), male non mi ha fatto.

Ammetto, comunque, che essere stata platealmente ignorata da gente che ho conosciuto e rivisto negli anni e da uno che appena un mese e mezzo fa mi diceva di seguire con attenzione il mio avvicinamento alla Rai, mi ha lasciato lì per lì esterrefatta. Sono tuttavia ben fiera di non aver ceduto nemmeno per un secondo alla tentazione mortificante di ri-presentarmi.
E, tutto sommato, quel che ho sentito dalla voce e il bel viso di Stefano Dionisi, mentre parlava del suo libro La barca dei folli , sulla malattia mentale mi è stato utile.

L'attore lascia trasparire la sua fragilità: sinceramente non mi è sembrata costruita. Temo tuttavia che il circo delle presentazioni che si scatena quasi in automatico per i vip dell'editoria potrebbe danneggiarne l'autenticità. E trasformarlo in una macchietta.
In bocca al lupo di cuore: il dolore va rispettato. Sempre.

Avrei voluto scrivere anche cose più crudeli e sarcastiche, ma preferisco andare oltre.
Sto cercando di cambiare lavoro, come qualcuno sa già e come vado ripetendo quasi per convincermene del tutto. Specifico meglio (è una nota che sto aggiungendo solo ora): cambiare lavoro significa per me trovarne uno che niente abbia a che fare con il giornalismo (così il mio amico di liceo, che non aveva capito, e come dargli torto, le mie parole, è più contento).

Una cosa del genere mi è successa molti anni fa, quando ho deciso di andare via da Milano. Anche in quel caso, prima l'ho deciso e poi ho cominciato a dirlo, con una certa ingenuità, nei corridoi del giornale che molto generosamente mi aveva elargito un contratto serio (il solo della mia vita, in pratica), scavandomi da sola la fossa.
In questo caso è diverso, perché sono davvero finita giù in fondo a un burrone ed è come se stessi gridando, da molti metri sotto terra, "ehilà, sono quaggiù, mi sentite?".
Quindi, non ho, in fondo, molto altro da perdere.

Semmai, ho da guadagnare. Una nuova vita.
Blogger sfigata (e culturista) chiama Terra. Please, give me a chance.
Sinceramente, me la merito.

mercoledì 25 novembre 2015

Paolo Conte e il mio post di riserva sul suo dolce mondo



Fatemi scrivere un post di riserva
.
Davvero, non è cosa semplice, per me che sono contiana da quasi trent'anni, raccontarvi, nemmeno recensirvi, Fammi una domanda di riserva, il libro Mondadori curato da Massimo Cotto (bellissima la sua introduzione), nel quale sono raccolte frasi pronunciate dall'avvocato Maestro astigiano dal 1985 in avanti.

Potrei, come ama ripetere spesso il nostro Baffone nazionale, dirvi solo dell'atmosfera, della malinconia più che nostalgia che pervade, a questo punto, non solo le sue musiche, ma anche il suo dire, non solo in formato canzone.

Conoscevo diverse delle frasi qui raccolte, ma messe così tutte insieme fanno decisamente un altro effetto.
Sarà la stagione e le temperature colate a picco, sarà l'età che avanza, saranno questi giorni di vuoto e di pensieri, ma lo ammetto: mi sono quasi commossa.

Ho ritrovato, un capitolo dopo l'altro, molti dei motivi che mi hanno fatto, ebbene sì, innamorare della musica del sempre giovane Canadese (come lo chiamava il suo amico e mentore Mingo Chiodo). E delle sue parole, naturalmente.

Perché se è vero, e lo è, che quasi nessuno gli fa delle domande competenti sulla sua musica, è altrettanto vero il fatto che dalle sue parole non si può prescindere.

E' tutto un complesso di cose che lo rende così unico. E così simpatico. Assai.
Mi piace che dica che non sia colto. Che mangi il minestrone e il bollito nella sua camera d'albergo, pur essendo in tournée all'estero.
Ed è troppo, troppo nostalgico (alla sua maniera) quando racconta dei suoi inizi, della povertà e del dilettantismo con cui lui e i suoi amici si buttavano a fare jazz.

Mi verrebbe da abbracciarlo per quanto scrive sull'essere snob (non lui) e l'essere dandy (avere il culto della bellezza profonda, lui).
E per Maigret, per Camilleri e pure per il giallo svedese di Mankell (quest'ultimo in verità da me scoperto solo per via dei telefilm che gli sono stati tributati in patria con un fantastico attore, perfetta incarnazione dell'anti-eroe).

Dovrò rileggerlo, questo libro: perché, pur essendo godibilissimo, contiene talmente tanto (che fa pure assonanza enigmistica, cosa che l'avvocato capirebbe e perdonerebbe, spero) l'universo contiano da meritare di essere mandato a memoria da noi adepti grati e piccini.

C'è tanto di Parigi e di Asti, nel suo universo. E dell'esotismo non salgariano ma quasi, delle palme e bambù delle origini.
Adesso, alla vigilia dei suoi primi magnifici 79 anni, il Conte nazionale conosce abbastanza il mondo, ma a volte a me sembra, e le sue parole raccolte me lo confermano, che non abbia mai lasciato la sua cittadina di provincia.

Solo un provinciale poteva mettere a fuoco (cinematograficamente parlando) così bene quella nutrita schiera di persone senza importanza che caratterizza molte delle sue canzoni.
Solo un uomo cresciuto con la campagna a due passi poteva imparare, crescendo, a nutrire un così attento amore per i particolari.

Peccato che io non sia una musicista, perché se avessi basi in quel mondo, nel suo mondo, potrei capire ancora meglio come mai dice di amare Franck, da Conte considerato un anticipatore del Novecento, il suo secolo di riferimento, quello che gli ha indotto una tale "confusione mentale" (pronunciato alla francese) da spingerlo poi sulla via del jazz e dello swing, che in verità è un qualcosa che non si spiega, e che anzi, pare, gli scorra direttamente nelle vene.

Il libro ha peraltro confermato alcune delle mie scoperte recenti, ossia i legami tra la sua musica e quella di Ellington e anche di Armstrong, da Conte amatissimo.

Non sapendo, tuttavia, nulla o quasi del jazz degli anni Venti, posso solo credergli sulla parola quando si sofferma sulle differenze tra quel periodo e i decenni successivi.
Cita però Jelly Roll Morton, che ho ascoltato e apprezzato, o un tale (per me!) Tricky Sam, asso del trombone, al quale il Maestro si sarebbe ispirato.

Sapevo del suo desiderio di essere interpretato da Charles Aznavour, ma non che sarebbe stato contento se avesse scritto lui Ma l'amore no, di Giovanni D'Anzi.

Che l'habanera e il fandango fossero pasta per le sue note si capiva, ma non immaginavo che la mamma gli facesse ascoltare i tanghi tedeschi (esistono tanghi tedeschi?).

Della mamma parla anche in un'altra occasione, verso la fine, quando racconta di averle fatto ascoltare Celentano che interpretava Azzurro. Lei pianse e io con il suo ricordo.

Che cos'altro posso aggiungere, a parte il consiglio, accaloratissimo, di leggerlo se siete contiani come me  (i neofiti potrebbero aver bisogno di qualche ripetizione, a mio personalissimo avviso)?

Solo questo.
Per me, Paolo Conte è un uomo dolce, di una dolcezza che solo i veri uomini non nascondono di avere. Tanto più andando avanti con gli anni, quando si acquisisce il senso, come lui stesso dice, del durante.

Da giovane, spiega, non vedeva l'ora di farsi una bella doccia calda dopo una partita, di cenare con i suoi musicisti, dopo un concerto. Adesso gli importa solo di essere lì, a pestare di note il piano (o il vibrafono e il kazoo), felice se qualcuno lo segue o lo applaude con la foga che si destina agli acrobati e ai clown.

Pur essendo molto più giovane di lui, mi riconosco alla perfezione nelle sue parole.
Non le ho assolutamente fatte mie, nella quotidianità, ma, davvero, vorrei arrivare a un tale grado di riconoscenza nei confronti della vita da non nutrire più nient'altro che la gioia di essere, di esserci, su questa dannata terra.

Peccato che il Conte preferisca le brune, dimenticavo.
Ma, del resto, per me lui è un Maestro dell'anima, mica un immaginario amante.

E poi, se devo proprio dirlo, preferisco i bruni pure io.

Grazie a Massimo Cotto per il suo libro.
Rosico un cicinin per non essere entrata tra quelli da cui ha attinto per i suoi testi (il mio pezzo è uscito negli stessi giorni in cui c'era su Io Donna l'intervista della mia conoscente, bravissima, Giulia Calligaro, riportata nella bibliografia).

Ma cosa importa?
La fama non dura.

La musica del Maestro, sì.

lunedì 23 novembre 2015

L'amaxofobia e il cerchio delle nostre paure



La scorsa settimana ho fatto un sacco di cose. Diciamo meglio, alla Moretti, ho girato e visto gente.
In cima agli incontri più significativi, di sicuro, metto quello con la vicina di casa brasiliana. Abbiamo passato insieme un'oretta e più: da quel che ho capito, è abbastanza fuori di testa per riuscire a realizzare ciò che si è prefissa. Non scendo nei dettagli finché non si è chiarito che tipo di aiuto potrei darle. Mi è però molto piaciuto il suo sorriso, uno dei più belli che io abbia mai visto, e il suo gesto con cui ha disegnato, sul tavolino del bar dove eravamo sedute, un cerchio. Al suo interno c'era una persona che conosce: con il dito ha mostrato quanto il medesimo desideri saltare il bordo per uscirne fuori.

Se restiamo all'interno delle nostre vite, accerchiati dal peso delle nostre abitudini, mi spiegava questa bellissima donna, non possiamo combattere davvero le nostre paure. Per sconfiggerle, bisogna uscire (e qui il dito saltava da dentro a fuori) e guardarle da lontano. Da uno di quegli altrove che tutti, chi più chi meno, desideriamo sperimentare almeno una volta nella vita.

Per fortuna che mi ha chiamato, quella mattina. La sera prima, in teatro, mi ero sentita poco bene: poca aria, molta angoscia. Ho deciso di dedicare un breve passaggio al mio malessere, perché ho capito che è arrivata l'ora di uscire dal cerchio delle mie paure/abitudini. Se non le guardo da un'altra prospettiva, non posso annientarle.

Ci ho messo anni per tornare a uscire per strada (pure a piedi) senza temere incidenti mortali per la mia vita.
La prima esperienza in tal senso è in uno dei racconti del passato che trovate sopra.
Quando l'ho buttato giù, ero ben lontana da come sono adesso.
Se ci penso, anzi, ora non sarei in grado di riscriverlo.

C'è troppa letteratura, o presunta tale, in tema di attacchi di panico. Io, poi, non sono sicura di averne mai sperimentato uno.
La mia è angoscia, è morsa allo stomaco che mi fa perdere, per qualche istante, l'equilibrio.
Solo quando guido, ebbene sì, rischio davvero di farmi venire l'ansia. Anzi: mi è successo che mi sia venuta. Pochi anni fa ho scoperto che il mio disturbo è molto più comune di quanto immaginassi e si chiama amaxofobia. Chi ne sa di più di me, forse, saprà anche spiegarmi perché mi viene solo in determinate strade e solo se devo fare qualcosa che mi pesa.

Per dire: se devo andare a buttare la spazzatura alla discarica della cittadina in cui vivo, tutta pianeggiante e scarsamente trafficata, oppure fare la spesa, difficilmente mi succede di entrare in iperventilazione. Se, invece, mi si prospetta la possibilità di andare su in collina su un rettilineo che per tutti sarebbe una boiata, beh, lì c'è il rischio concreto che mi prenda malissimo.

In un paio di occasioni ho proprio cominciato a tremare e sono stata costretta a tirare giù il finestrino e a respirare più profondamente per calmare il battito accelerato, ma nella maggior parte dei casi non mi è successo proprio nulla: il problema è che ti resta sempre l'incertezza che possa accaderti di nuovo.
Per questo motivo, ma non solo per questo, vado in autobus in palestra.

Scavando un pochino di più, forse, potrei sconfiggere del tutto il mio disturbo (credo di essere davvero a un passo dalla soluzione definitiva), ma poi le abitudini e la pigrizia mi spingono a ripercorrere (pure letteralmente) le stesse strade e a usare gli stessi mezzi.
Molte volte, però, mi sono detta: ma se avessi urgente bisogno di partire usando l'autostrada (il mio spauracchio più grande), che cosa farei? Quanto ancora devo aspettare prima di affrontare in modo definitivo il mio problema? Un'altra domanda: è un vero problema o è un alibi per rinchiudermi in casa? Quanto mi fa comodo appoggiarmi agli altri pur di non guardarmi veramente in faccia?
Se trovassi (finalmente) un lavoro serio e dovessi raggiungerlo per forza con la macchina, che cosa farei?
A parole, a quest'ultima domanda, di solito mi rispondo che accetterei e che mi obbligherei a guidare.
Però, appunto, è tutta teoria.

E dire che molti mi considerano coraggiosa.
Ammetto, comunque, di aver già sperimentato di essere capace di accendere, imbroccare la marcia giusta e andare.
Le mie sono riflessioni piccine picciò magari a beneficio anche di qualcun altro.

Ma torniamo alla settimana appena passata.
L'incontro con la vicina brasiliana mi ha aiutato assai a non fissarmi sulle mie lagne autoreferenziali, ma anche a realizzare ancora una volta quanto siano essenziali gli incontri dispensatori di energia.

Il giorno prima dell'episodio in teatro ho conosciuto i membri del gruppo lettura organizzato da una piccola libreria/negozio di musica gestito da una coppia molto interessante.
Sono rimasta stupita dalla passione per la lettura dei partecipanti e anche dalla loro età.
Mi aspettavo di essere la più vecchia e invece, anno più anno meno, mi sono trovata in mezzo a un gruppo di coetanei, non solo di sesso femminile, che ha preferito passare un'ora e più della propria giornata per parlare di libri. L'ho trovato piuttosto stupefacente e ho ascoltato, nonostante la stanchezza, con molta attenzione, ogni loro parola. Proverò a leggere il nuovo libro (scelto dopo dibattito democratico alle undici e mezzo, tutti con la palpebra già a mezz'asta).

Per finire, ho partecipato, sabato scorso, a un incontro di giornalisti per giornalisti.
Sono andata, devo dirlo, con un certo scetticismo (rigorosamente in treno, sia chiaro), ma anche in questo caso, mi sono ritrovata, quasi senza rendermene conto, a prendere appunti, ma soprattutto ad ascoltare attentamente. C'è tanta gente che fa cose meravigliose anche nel mondo che sto cercando di lasciare.

A che servono tutte queste frasi? Solo a dire che per combattere i veleni delle nostre paure (quando capiamo che hanno fatto decisamente il loro tempo), uno dei sistemi è vivere esperienze coinvolgenti. E poi rielaborarle. Dandosi del tempo. Il che significa, in altri termini, imparare a distinguere tra incontri-paravento e incontri di sostanza.
Invecchiando, posso garantirlo, s'impara a riconoscere gli uni dagli altri. Almeno, a me sta succedendo così.

Se in tutti questi anni, bene o male, ho imparato a convivere con la maggior parte dei fantasmi che mi porto addosso, è perché non ho mai perso la curiosità verso tutto quello che c'è al di fuori del mio angusto cerchio. Spero, in definitiva, che capiti pure a voi, se siete nelle pesti peggio di me quanto a fobie e idiosincrasie.

Ieri ho raccontato a una mia vecchia amica le vicissitudini della scorsa estate: essendo poco social, non ne sapeva nulla. Ho davvero apprezzato il suo affetto e mi sono sentita leggera. E pronta a continuare in questa nuova vita, dovunque mi porterà.

Magari a bordo della mia macchina, da me medesima guidata.
Chissà chi incontrerò lungo la strada. Diritta e a quattro corsie.

Aiutooo...
;)

giovedì 19 novembre 2015

Billy Elliot e i sogni (si spera) contagiosi dei ragazzi


Prima di tutto, una piccola confessione: non sono un'esperta di musical. Sarà per questo che ieri sera, a un certo punto, diciamo intorno alle 23, ho cominciato ad agitarmi vieppiù sul seggiolino alto del palchetto dell'affollatissimo Teatro dell'Aquila di Fermo, dal quale ho assistito alla messa in scena di Billy Elliot, tappa esclusiva regionale dell'allestimento curato da Massimo Romeo Piparo, con le musiche di Elton John tradotte in italiano.

A essere bravi, erano tutti bravi e in parte: in particolare ho apprezzato Mrs Wilkinson, l'insegnante di danza di Billy, interpretata da Sabrina Marciano. Mi ha poi molto divertito il personaggio di Michael, l'amico del cuore del protagonista, per il cui ruolo di sicuro è stato rubacchiato qualcosa a Elton.

Credibilissimo il fratello maggiore di Billy, il sanguigno minatore difensore dei diritti della classe operaia, che non riesce a capire, insieme con il grosso degli uomini-machi della piéce, per quale motivo un ragazzino preferisca la danza al pugilato.

Forte anche la nonna, anche se un po' troppo caricaturale, per i miei gusti.

Che cosa non mi è piaciuto?
A mio personalissimo avviso, a parte l'eccessiva lunghezza, i balletti non erano eccezionali, a parte quelli a base di tip tap e i volteggi del Billy grande con quello giovane.
La musica, mi spiego meglio, molte volte era troppo potente e troppo energica, mentre lì, sulla scena, il leggiadrissimo protagonista Alessandro Frola, continuava a roteare su se stesso, anche quando, sempre secondo me, avrebbe dovuto tirare fuori più fervore.

A ben guardare, per buona parte dello spettacolo è giusto che Billy non sveli a noi del pubblico tutto il suo talento, ma a me è sembrato che non l'abbia fatto neanche nella canzone danzata davanti alla commissione del Royal Ballet, nella quale ci stava, per l'appunto, spiegando perché ama così tanto ballare. Ma può anche darsi che fossi semplicemente stanca morta e che a mancare d'energia fossi solo io.

Nel complesso, comunque, è stata un'esperienza interessante: davanti a me c'erano due ragazzi più o meno della stessa età dei due protagonisti e del grosso delle ballerine sul palcoscenico. Uno dei due teneva segretamente il tempo e canticchiava le canzoni dello spettacolo. Dall'accento ho dedotto che non fosse di Fermo, ma non ho capito bene se facesse parte anche lui della compagnia. Di certo lui e il suo amico (o il fratello?) con i capelli lunghetti avevano l'aspetto di ballerini. Solo nell'intervallo mi sono resa conto che il teatro era strapieno di adolescenti così ed è stato davvero straordinario osservarli tutti insieme. Quanti talenti, quanto entusiasmo, quanti sogni.

Nelle interviste della Rai che ho guardato ieri alle due piccole star del Billy Elliot nostrano, mi ha colpito proprio quello che entrambi dicono sul loro futuro: tutti e due vogliono diventare "artisti completi". Lo affermano con una sicurezza dalla quale ci si vorrebbe far contagiare, come capita alla già citata Mrs Wilkinson, la fascinosa e disillusa insegnante di danza che è la prima ad accorgersi di quale etoile in potenza abbia davanti a sé.

Il vero spettacolo, in definitiva, erano proprio i giovanissimi attori in scena e quelli intorno a me, immersi nei loro progetti a tutto tondo, bisognosi, però, di tutto il sostegno dei grandi.
Ed è poetico, e si vorrebbe credere anche vero, che il maschilista papà di Billy (l'attore Luca Biagini) addirittura metta da parte la sua aspra battaglia sindacale pur di stare accanto al figlio "diverso".

Il potere delle storie più amate dai noi esseri umani è, concludendo, proprio questo: trasmettere sentimenti di speranza e spiragli di vita nuova. Quindi, onore a voi, artisti e ragazzi innamorati di Billy Elliot.
E soprattutto, buon futuro.

Ps guarderò presto il film che ha dato vita a tutto ciò e, nel caso, ne parlerò. Vi toccherà tornare a trovarmi :)

mercoledì 18 novembre 2015

Umorismo sotto assedio: strategie di resistenza


Sono giorni che rimugino sull'umorismo e sulla sua importanza. Lo stavo facendo, a dire il vero, da prima dell'ennesima barbarie parigina (che viene dopo quella libanese, quella giornaliera della Siria, quella degli studenti keniani di qualche mese fa, quelle periodiche di Boko Haram, etc etc. Così siete tutti contenti, ok?).

Ci rifletto, a dirla tutta, da sempre.
Subito dopo il terremoto dell' '87, mia sorella ed io, guardandoci in faccia nel cortile del palazzo, tra gli altri condomini atterriti, abbiamo fatto qualche battuta idiota su come eravamo conciate. Magliacce da casa, ciabatte schiantate e, conoscendomi, pure un vago unto nei capelli.

Non so più, per amor di verità, se era quello l'argomento che ci aveva aiutato ad allontanarci almeno per un attimo dal dramma collettivo del momento, ma in generale ho sempre pensato, quella volta e in molte altre, che chi non ride mai è piuttosto inquietante.
E di gente che vorrebbe eliminare una delle poche facoltà che ci distinguono dal grosso degli altri animali (ma pare che ridano pure loro), ahimè, ce n'è fin troppa, non solo tra i bastardi del terrore mondiale.

Illuminante è, in questo senso, un articolo dello scrittore Jonathan Coe comparso sul Guardian, che il settimanale Internazionale ha tradotto nel numero di questa settimana, cambiandogli il titolo in La morte dell'umorismo, ben più diretto per il pubblico non britannico dell'originale Is Martin Amis right?.
Nel pezzo, Coe commentava la recente uscita del suo collega Amis, il quale giudica Jeremy Corbyn, il nuovo leader labourista, "un ignorante privo di senso dell'umorismo", una colpa, per lo scrittore, gravissima, quasi più del fatto che si esprima per frasi fatte.

Coe sospende il giudizio su Corbyn (e io, che non so nulla né di Corbyn né di Amis, mi unisco a lui), ma utilizza la storia per parlare della sempre più diffusa abitudine mutuata dai social network di avere sui fatti del mondo due sole opinioni, una positiva una no, su modello dei mi piace/non mi piace di Facebook.

Per suffragare la sua tesi, parla di Charlie Hebdo e delle vignette "anti" Islam all'origine della strage d'inizio gennaio (e del mancato premio americano per la libertà d'espressione per via delle medesime) e poi di un'altra, su Aylan, il povero bambino ritrovato senza vita sulla spiaggia turca, di certo di difficile digestione, forse ancora di più di quella che vedete sopra. 

Sinceramente: in molte di queste vignette io non mi riconosco, ma voglio poterle vedere e semmai giudicarle apertamente oppure, semplicemente, ignorarle. Non accetto, né mai lo farò, però, la censura da parte di chi saprebbe (forse) ridere solo davanti all'idiota che fa che le boccacce su Youtube (che, comunque, per me, ha diritto di starci. Basta non me l'impongano un giorno o l'altro pure sulla pubblicità come hanno fatto con il facciotto di Pif).

Temo tuttavia che Coe abbia ragione. Temo che, davvero, ci sia sempre meno gente in grado di riconoscere i meccanismi dell'umorismo, ossia, riassumendo quanto scrive lo scrittore inglese, quell'evidente contrasto tra due diversi piani di realtà per cui, per esempio, smetti di piangere e cominci invece a ridere perché qualcuno ti ha fatto notare che ti sta calando il muco sul collo, oppure, come con Crozza quando fa De Luca, perché l'imitazione diventa talmente iper-reale che non puoi non ridere anche se ci sarebbe da piangere.

E dire che Crozza non è neanche uno dei più raffinati o, per meglio dire, ha un umorismo abbastanza diretto e popolare. E' proprio il De Luca reale, invece, a dimostrare quel che Coe vorrebbe facesse Corbyn,  ossia l'essere dotato di notevole presenza di spirito: dalla Gruber, quando se n'è uscito con una battutaccia sulla Bindi, che ha scatenato l'ufficiale sdegno governativo, poco prima aveva detto che ogni tanto si trattiene per non essere troppo crozziano. Ci ride su, in definitiva, come Coe spera per il leader labourista che, certo, ha problemi ben più importanti da risolvere che quelli di rispondere agli attacchi di Martin Amis.

Tornando a noi: come fare per non perdere il gusto di ridere? Come resistere al clima di conformismo e di censura/demonizzazione in salsa social? 
Coe cita un libro: The philosophy of humor di un tale Paul Mc Donald. Chi volesse tentare, lo legga e poi lo diffonda.
Mi pare che c'era qualcosa di analogo pure di Pirandello: ma io, mo' ve lo dico, Pirandello non riesco più a leggerlo.

Che altro fare? Innanzitutto, secondo me, usare quella cosa che sta sulla sommità del corpo, appena sotto la pelle della testa (per i pelati) e dei capelli (pochini ma biondini, per quanto mi riguarda).
E poi, lavoro duro, amici miei, cioè training quotidiano, né più né meno che se stessimo esercitando i bicipiti femorali (ahiai...) e il lato B, troppo, davvero troppo, preso di mira da varie, diciamo così, fonti indesiderate (Crozza e il suo InCool8 lo spiega piuttosto bene).

La nuova resistenza passa da cosette così, insomma.
Amanti della risata, unitevi.

lunedì 16 novembre 2015

Valeria Solesin, mia sorella. Grazie, mamma



Valeria Solesin mi somiglia. Soprattutto, somiglia a molte donne tra la sua e la mia generazione che continuano tutti i giorni a lottare per affermare e mantenere il proprio ruolo sociale nel mondo.
Da pochissimo mia sorella maggiore ha cominciato un dottorato di ricerca. Ebbene sì: alla sua veneranda età (48 anni) ha fortemente voluto sfruttare l'opportunità che le offre il suo datore di lavoro pubblico (ah, questi statali) di darsi alla ricerca.
Per riuscire in questo intento, ha studiato tutta l'estate, fino a tarda notte, dopo essersi occupata dei figli, della casa e anche del padre in difficoltà.

Si è sentita pure fare delle battute sciocche (non dico da parte di chi, non vorrei metterla nei guai) sul fatto che, ma come, ti rimetti a studiare tu, che c'hai una famiglia e vari anni sulle spalle? Alla faccia dei cretini di ogni religione e (sub) cultura, lei è riuscita a superare uno scritto e un orale e ora avrà a che fare, forse, anche con giovani come Valeria, una sua possibile sorellina minore, quasi figlia volendo, una di quelle che doveva vivere e continuare a studiare come mai in Italia le donne con figli (ma purtroppo non solo loro) spesso stanno a spasso o sono (troppe volte) semplicemente sotto pagate e in generale sotto valutate solo perché portano tacchi e smalti colorati.

Giusto qualche ora prima che questa splendida mia sorellina minore (volendo mia figlia, se fossi stata una di quelle spose bambine di cui tanto si chiacchiera spesso a sproposito) venisse barbaramente cancellata dalla Terra, mia sorella vera mi stava appunto esponendo le sue indecisioni in merito all'argomento che dovrà trattare nella ricerca: l'istinto la stava conducendo verso la sociologia politica, ma, molto appropriatamente, si domandava se non sarebbe meglio proseguire nei suoi studi condotti quando Valeria andava ancora alle elementari, anno più anno meno, ossia il diritto amministrativo e le sue procedure.

Non so quale scelta farà alla fine, ma potete stare certi che a qualunque cosa si dedicherà, l'affronterà con la stessa serietà ed entusiasmo presenti nell'articolo che la giovane dottoranda italiana alla Sorbona aveva inviato due anni fa a una rivista francese, vedendoselo pubblicare pur essendo un'illustre sconosciuta.
Un fatto che in Italia capita molto, molto di rado.

Colpisce, non solo me, la dignità con cui la madre parla di sua figlia, la voce rotta, ma presente a se stessa. Mancherà, dice questa signora, alla società, Valeria, perché era una persona meravigliosa.
Una madre non dovrebbe mai piangere per la morte dei propri figli.
Se la mia fosse stata ancora qui, sarebbe stata così orgogliosa di mia sorella e se mia sorella ce l'ha fatta a dimostrare ancora una volta quanto sia meravigliosa, il merito è anche suo.

Non è una consolazione, non può esserlo, ma vorrei tanto che la mamma di Valeria lo sapesse: se sua figlia aveva quel gran talento, ma soprattutto se lo stava mettendo in pratica in modo così brillante, il merito è anche suo.

La mia tesina per diventare giornalista professionista riguardava il Libro Bianco di Marco Biagi, ucciso da vigliacchi bastardi non musulmani: i signori colleghi della commissione, nel 2002, mi fecero i complimenti per l'argomento e per lo stile.
Alla tesi di laurea, idem, applausi, per il mio stile di scrittura giornalistico.

Se ho ancora qualche chance di uscire dal guado, lo prometto solennemente in questo momento, lo farò anche in nome di Valeria.
E in nome di mia madre, che per fortuna non ha assistito alle tragedie di questi ultimi tempi.

Aggiungo solo un piccolo, patetico, grazie.

E ora, forza, sotto a lavorare, donne.