lunedì 19 aprile 2021

Le rose di Vienna e il Venerdì Santo a Chieti: eterni come i nostri ricordi

 

Fino a pochi anni fa non avrei mai creduto possibile saltare un Venerdì Santo a Chieti. Ho ancora ben impresso nella memoria quell'anno in cui ho scattato le foto alla Processione, su incoraggiamento del Fotoclub, dove stavo frequentando un corso.


Era il mio ultimo anno di Liceo ed io andavo orgogliosissima della mia prima reflex, una Pentax che ho ancora oggi. 
Con uno scatto (anzi: due sovrapposti, una tecnica che mi avevano insegnato durante le indimenticabili lezioni) vinsi un premio.
Da allora la passione per la fotografia non mi è mai passata, anche se non ho mai pensato seriamente di poterla trasformare in qualcos'altro.

Perché questo momento di Amarcord?
Per due motivi.
Ho ripensato alla Processione del Venerdì Santo di Chieti rivedendo le foto (come quella che riporto sopra) che avevo scattato l'anno scorso alle rose del Parco di Schönbrunnprotette da sacchi di tela per difenderle dal lungo inverno. 

La prima volta che le ho notate stavo sicuramente correndo. Le foto non riescono del tutto a dare l'idea dell'effetto che mi hanno fatto in quel momento. 
Sono sicura di essermi fermata, di sicuro ho scattato qualcosa anche con il cellulare, ma poi devo essermi ripromessa di tornarci di nuovo con la mia oramai altrettanto vecchia Nikon.

Salto a quest'anno. 
Da pochi mesi ho creato il blog in tedesco, come forse qualcuno di voi già sa, e ho deciso di raccontare che cosa sono i "giardini del ricordo" di Vienna, come quello dentro il parco di Schönbrunn.

Se non avessi visto le rose così conciate, intendo chiuse ermeticamente in quei sacchi chiari, condannate all'oscurità come anime del Purgatorio, voglio dire, forse non avrei mai saputo che cos'era quell'angolo del parco.

Da poco i sacchi sono spariti e il roseto sembra, paradossalmente, molto più spoglio: 



Il senso di desolazione è acuito dall'assenza di colori di questa primavera che proprio non vuole esplodere (almeno qui a Vienna: in Italia, secondo me, dipende). Solo i cartellini bianchi appesi su ogni arbusto emanano un po' di luce.

Correndo, mi sono fermata a leggerne qualcuno:


Avevo già notato qualcosa del genere al Volksgarten, in centro, dove le piante di rose sono in proporzione molte di più. Quel che non sapevo è che dietro ciascuna di loro c'è un giardiniere provetto, che ha il compito di curarla, e un committente che gliel'ha affidata per omaggiare un parente o un amore scomparso o per celebrare una romantica ricorrenza.

Trovo l'idea bellissima e ho scoperto che le "adozioni" di questo genere riguardano non solo le rose, ma anche gli alberi e le panchine.

In definitiva, ho pensato, i colori mancano, è vero, ma se ci soffermiamo a guardare le cose più da vicino, ci accorgiamo che sono sempre lì, solo in altre forme.

Lo stesso succede con le persone che non ci sono più. Non le possiamo vedere, è vero, ma persino il suono della loro voce può, da un momento all'altro, risuonare nelle nostre orecchie.

Per questo, forse, amo il rito del Venerdì Santo nella mia città natale. Per questo mi hanno colpito, credo, le rose incappucciate.

Da piccolissima, in verità, quegli uomini con le tuniche a punta che sfilavano lenti sorreggendo grosse candele, mi facevano piangere. Molti anni dopo ho visto le stesse lacrime disperate negli occhi di mio nipote piccolo.

Morire, la consapevolezza della nostra e altrui mortalità, meglio ancora, è uno schifo. Inutile nasconderselo. 

Poi però un suono, una folata di vento inaspettata, un profumo, o un'etichetta bianca su una rosa addormentata, ci raccontano una storia. Ci riportano alla vita e al ciclo delle stagioni, eterno come i nostri ricordi e le tracce che in qualche forma un giorno lasceremo anche noi.

Dedico questo post alla mia mamma, nata il 4 aprile, e anche a zia Zita, nata il giorno prima di lei. 

Aprile è un bel mese per venire al mondo e per sposarsi, come ha fatto sempre mia madre, 55 anni fa. 

Idealmente, una delle rose che fioriranno di qui a pochi giorni (lo spero proprio: basta con questo grigiore) appartengono a lei.

Presto scoprirò qual è quella che le assomiglia di più. Mi verrà incontro, anzi, senza nessuno sforzo. 

Come la vita. 

martedì 6 aprile 2021

Omar Khir Alanam e la forza della scrittura


Fino a un paio d'ore fa non avevo mai sentito la voce di Omar Khir Alanam né avevo idea di come parlasse (bene) il tedesco. Del giovane scrittore e poeta di origini siriane, conoscevo solo il bel sorriso e i riccioli da pecora nera del ritratto che compare sulla copertina del suo ultimo libro. 

Ho letto Sisi, Sex und Semmelknödel qualche mese fa, ripromettendomi ancora prima di cominciarlo di dedicargli qualche parola. Come ho già detto in passato, mi incuriosiscono le storie "di successo" degli austriaci di nuova acquisizione. Particolarmente in linea con i miei interessi mi era sembrato il sottotitolo: "Un arabo esamina l'anima austriaca"

Naturalmente, in quella frase c'è molta ironia, connaturata, sicuramente, all'autore, ma espressa davvero benissimo in una lingua all'apparenza così poco ironica come il tedesco.

Per l'autore, nato a Damasco nel 1991 ed emigrato in Austria nel 2015, dopo un periodo piuttosto duro in Turchia, deve essere stato fondamentale arrivare prima possibile a un livello tale di conoscenza della lingua della sua patria adottiva che gli permettesse di esprimersi al meglio. 

Nella conferenza che linko sopra torna brevemente sui suoi giorni nel centro di accoglienza per rifugiati, durante i quali è stato capace di passare sette, otto ore seduto sulla brandina a studiarsi tedesco su Youtube, trascrivendosi le parole su un quaderno, come uno scolaretto. 

Impossibile non provare simpatia per lui e anche un po' di commozione, quando si descrive ragazzino al funerale di un bambino morto sotto le bombe. 
"Morgen ist schöner", letteralmente "domani è più bello" - domani andrà meglio, diremmo noi - ripete più volte nel video, e si avverte chiaramente che questo pensiero, unito alle poesie che è riuscito a scrivere ogni volta che si sentiva sul punto di mollare, l'hanno davvero guidato verso il futuro luminoso che un giorno lo ha raggiunto.

Prima di indagare l'anima austriaca, Alanam ha scritto Danke, il suo grazie all'Austria, che gli ha restituito un'idea congrua di patria.
Immagino che anche lì vi siano contenute pagine toccanti, dal momento che non sempre tutto è filato liscio, non sempre e non da subito l'autore si è sentito a casa.

Nel libro che ho letto io, la sua vita è andata avanti: ora Alanam è anche padre di un bambino piccolo e ha imparato in qualche maniera a capire la passione dei locali per gli animali domestici (le pagine dedicate al povero cane della suocera sono davvero magistrali) e per le "semmelknödel" - tipo i nostri canederli - e per altre abitudini alimentari obiettivamente difficili da comprendere (e digerire) anche per noi italiani.

Ho fatto, all'inizio, un po' fatica a capire la prosa dell'autore, per il grado di complessità che è riuscito a raggiungere (mi sono anzi chiesta più volte: ma come ha fatto in cinque anni a imparare il tedesco così!). 

Pagina dopo pagina mi sono però fatta trasportare dal suo ritmo spezzato, imparando a riconoscere le frasi chiave ripetute volutamente in vari punti. Bella anche l'idea di inserire ogni volta, a fine capitolo, una frase riassuntiva del racconto appena fatto, quello che noi chiamiamo "il succo della storia" e che in tedesco si dice - ho appreso dal libro - "Butter der Geschichte", il burro della storia. 

Non posso dire di essermi spanciata dalle risate, perché, comunque, anche negli aneddoti più buffi, ho registrato sottotraccia la nostalgia per la famiglia rimasta in Siria. In analogia con il pensiero dell'autore, pure io ho trovato un tantino (appena appena) autoreferenziale la burocrazia asburgica e il magico mondo della formazione professionale, a partire dai corsi di lingua per stranieri (se ricordo bene, a uno come lui non volevano dare il B2, il mio livello. Un'autentica follia). 

Mi hanno invece molto divertita le sue fantasie su come i parenti rimasti in patria lo vedrebbero se un giorno tornasse a trovarli, magari con un pet al seguito e con la fissa per il biologico. Spassosi anche gli scambi, veri, con il padre e la sua diversa idea del denaro e di come guadagnarselo. In certi passaggi ho riconosciuto alcune abitudini della mia famiglia e del Sud Italia in genere.

Se avessi l'occasione, insomma, mi piacerebbe incontrarlo di persona: sono sicura che potrei imparare un sacco di cose da una persona speciale come lui.  

Meiner Meinung nach (secondo la mia opinione), Omar Khir Alanam è infatti ben più di uno scrittore emergente con "Migrationshintergrund", origini straniere: è invece un uomo e un artista che crede nella forza della sua scrittura, oltre ogni ragionevolezza.

Per questo, sono io che gli dico "danke", a nome di tutti quelli che pensano che, comunque sia andata finora, domani andrà meglio.

L'importante è continuare a scrivere.


sabato 20 marzo 2021

Stop scrauso, un round dopo l'altro, fino alla vittoria finale

 


Ci siamo portati dietro dalla casa di Fermo questa lavagnetta. Non ricordo più dove l'avevamo comprata. Forse nel negozio di casalinghi economici dove siamo tornati qualche giorno fa.

Pensavo, pensavamo tutti e due, che l'avessero chiuso. Sono anni che tappezzano la grande vetrina dell'ingresso con avvisi di svendite finali. Accorrete, gente, diamo tutto via a meno di niente.

E invece no. Era ancora là, con quegli articoli mezzo cinesi mezzo sovietici, tra i quali ogni tanto si nasconde qualche perla preziosa.

La lavagnetta era comprensiva di gessetti. Di questi, nell'appartamento marino, il nostro amato appartamento marino, non c'era più traccia.

Scomparso anche l'orologio a muro della cucina, comprato, questo sì, in un negozio di casalinghi più grazioso, pieno anch'esso, naturalmente, di articoli economici, ma almeno dal design più accattivante.

Molto probabilmente gessetti & orologio sono volati via verso qualche altra abitazione oppure, molto semplicemente, sono finiti nella spazzatura. 

Mi domando però che persone abbiano, davvero, vissuto a casa nostra. Chissà che cosa passava per la testa del bambino che ha scritto i nomi di tutti i membri della famiglia con uno dei gessetti svaniti nel nulla. Chissà da quando era lì, quella scritta, se addirittura da febbraio dell'anno scorso, quando sono entrati, felici, credo, almeno all'inizio, di aver trovato un nuovo alloggio.

Nel tempo, le cose devono essere peggiorate, e pure parecchio. L'unico a non aver troppo risentito della crisi portata dal Covid, è stato, credo, il cane, un pitbull pare. Chissà quanto si deve essere divertito a grattare una delle porte, da entrambi i lati, poi. 

E dire che i precedenti proprietari ci tenevano assai, a quelle porte: ricordo con quale orgoglio il vecchio postino, famoso in tutta la piccola cittadina adriatica, me le aveva mostrate, con quei vetri smerigliati e le decorazioni in rilievo colorate. 

Ho fatto del mio meglio per pulirle. In generale, ho fatto del mio meglio per ridare alla casa un aspetto dignitoso

Mi sforzo di trovare i lati positivi, l'ho sempre fatto, praticamente. Amavo molto la storia di Pollyanna, la piccola orfanella che aveva imparato a sorridere della vita, facendo il suo "gioco della felicità".

A pensarci adesso, mi sono spesso piaciute storie così, sono cresciuta, come molte altre bambine della mia generazione, con storie così. Amavo molto anche Il giardino segreto, forse, anzi, mi piaceva anche di più di Pollyanna. Trovavo bellissimo che questo ragazzino rifiorisse alla vita curando il "suo" giardino.

Avevo trovato anch'io, il mio giardino.

Era la mia casa marina, in un paese tanto anonimo quanto prezioso. Per me, solo per me. Mi sono innamorata di quel posto, Porto San Giorgio, ancora prima di andarci a vivere. Non so spiegare bene il perché, ne parlavo con un'amica con cui ho camminato con grande piacere sul lungomare, comunque solo lì, tolta la casa dei miei genitori, mi sento davvero bene.

Per questo, e non solo per questo, mi ha fatto molto male vedere l'appartamento in quelle condizioni, le lampadine fulminate o assenti, piena di rozze scarpe tacco 12 che però non ho avuto il coraggio di gettare direttamente in discarica (le ho infilate in quei contenitori per i poveri: chissà chi finirà per indossarle. Forse è meglio non saperlo).

Non ho buttato neanche i "Diari di una schiappa" del ragazzino che ha giocato sulla mia scrivania da bambino, macchiandola di colla o qualche altro materiale che non se ne va più. La prossima volta che torno li porto alla scuola elementare vicina: almeno potranno rivivere, come il giardino del romanzo.

Rivivere, ecco, ai mobili di mia nonna avevo dato questa possibilità, portandoli prima nella casa-torre, in cima alla collina del Girfalco, e poi nel mio appartamento, comprato con tanta fatica e gioia.

Al posto del letto in legno chiaro, l'inquilina mi aveva lasciato il suo, laccato bianco. Le avevo dato il permesso io, ignara del fatto che mi sarebbe toccato smaltire diversi pezzi di mobili smontati, più una rete matrimoniale e un'altra singola richiudibile. 

Praticamente un magazzino. Un magazzino malmesso, le tapparelle lasciate su, alcuni vestiti e una vecchia gomma da masticare (non ancora mangiata, per fortuna) giù, sulla coperta del mio letto. E dire che nella telefonata di commiato la giovane non so quanto inconsapevole distruttrice mi ha detto che ci teneva a restituirmi la casa come gliel'avevo consegnata, piuttosto trepidante, tredici mesi fa.

A pensarci bene ora, solo il tavolo da sei di legno scuro, solido e indistruttibile, mi ha trasmesso un segno di speranza. Da quel tavolo bisognava ripartire. Lì abbiamo fatto colazione, contrariamente alle nostre abitudini di un tempo, per diversi giorni.

Andarsene via è stato triste, ma mi sentivo carica, ricaricata, e pronta ad affrontare una nuova fase, non so quanto lunga, qui in terra asburgica, dove ci aspettavano i gatti. Il gioco della felicità mi diceva che, sì, ero, sono stata fortunata, perché almeno adesso ho riavuto il mio luogo del cuore, chiuso e sbarrato in attesa del nostro rientro. Ma la mia vita, la nostra vita, al momento, è in questa fredda città del Nord Europa. Fredda, meteorologicamente parlando soprattutto, e non solo.

Amici e parenti (alcuni) ci dicono di resistere e il loro sostegno mi aiuta. Persino il mio dolce padre mi manda messaggi d'incoraggiamento, a dirla tutta un po' formali, ma teneri come solo un vecchio schivo come lui potrebbe scrivere.

Durante le quattordici di ore di viaggio, però, ho avvertito una fastidiosa incrinatura.

Mentre ascoltavo Mark Knopfler, e i suoi vecchi album dei vecchissimi tempi, mi è comparso sul cellulare il nome della mia proprietaria. Tuffo al cuore. Oddio, è successo qualcosa ai gatti. A lei ne avevo affidato la cura, ben sapendo che sarebbe stata in grado di occuparsene, vivendo al piano sopra il nostro e avendone anche lei due.

Kein Problem mit den Katzen, nein.

Il problema era un altro. Anzi, è un altro. 

Caldaien rotten, ja. Fino a mercoledì prossimo (si spera non oltre) no acqua calda no riscaldamento. 

Queste cose succedono, lo so. Anche a Milano rimasi due settimane nelle medesime condizioni. 

La proprietaria, peraltro, ci ha anche procurato una stufa, un madonno pesantissimo, come piace tanto ai popoli nordici, che però la sua sporca funzione la fa.

Il problema è un altro, dicevo.

Il problema è lo scrauso.

Was ist scrauso?, mi ha chiesto un'amica austriaca che parla bene l'italiano.

Parafrasarlo significa togliergli la scorza onomatopeica, così essenziale in tutte le lingue del mondo, persino in tedesco. Sì, sì, amici, è così: non faccio ironia in questo momento.

Tornando allo scrauso, insomma, è una parola che incarna alla perfezione il fantasma, molto materiale, contro cui ho ingaggiato la mia personale battaglia.

Di più: lo scrauso è il nemico da sconfiggere assolutamente e in maniera definitiva. Non di battaglia si tratta, allora, ma di guerra.

Stop scrauso, stop scrauso, stop scrauso... Me lo ripeto come un mantra tutti i giorni, per vari minuti di seguito. Davvero.

E che cosa succede? Sentendo di essere in pericolo, lo scrauso, come qualsiasi altra creatura viva, si ribella. E mena pugni, buttandomi giù.

Io però non ci sto a restare a terra, mentre parte il countdown, e, in genere, a - 8 sono già in piedi. A Porto San Giorgio credo di essermi rialzata un po' dopo, forse a - 5, ma ce l'ho fatta e ho ripreso a recitare la mia preghiera. Hop hop hop, stop scrauso, stop scrauso, STOP. Rieccomi qua, barcollante ma in piedi. Tiè.

Fine ennesimo round. 

Dopo il break, sono arrivata qui, consapevole di trovarmi all'inizio di un round ancora più duro. 

E infatti. Banghete. Con meno tre gradi nel luogo in cui si depositano i bisogni primari, obiettivamente, la botta mi ha lasciato senza fiato.

Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro... Non ci provare. Non mi avrai, scrauso, NON MI AVRAI.

Prima del colloquio con la consulente del lavoro su skype, perciò, ho scaldato due pentole d'acqua e mi sono lavata pure i capelli. 

Non so come ho fatto, ma ho riso con la tizia e l'ho anche fatta ridere più di una volta. Mi sorprendo ancora quando capitano cose così, ma ormai dovrei saperlo: con gli sconosciuti riesco a simulare bene la fatica che faccio per respingere lo scrauso. Forse, anzi, la leggera agitazione che lascio trasparire fa anche personaggio. Mi dà quella spolverata buffoncella bastevole a dare l'impressione di essere una personcina a modo. 

Sarà il tempo a dire se il nuovo curriculum, preceduto da un Kurzprofil (un profilo in breve) in cui metto in luce il mio amore per la scrittura, la fotografia e la mia predisposizione a dare fiducia alle persone (anche a quelle che ti sfasciano casa) servirà davvero nel mondo del lavoro austriaco.

Mi ha fatto piacere, certo, che la consulente, alla fine della nostra chiacchierata, mentre in cucina il proprietario e lo spazzacamino pianificavano l'eutanasia per la caldaia, abbia detto che il mio curriculum farà sicuramente un'ottima impressione, adesso che l'abbiamo riscritto un'altra volta.

Ha usato anche una metafora lusinghiera su come le sono apparsa: una specie di fiore all'apparenza compatto, in verità composto di tanti petali, uno dentro l'altro. O qualcosa del genere.

Di là si combatteva per me, per qualche minuto almeno, contro lo scrauso, e di qua, dentro allo schermo, una donna pressoché sconosciuta faceva altrettanto, rassicurandomi. 

Da questi segnali capisco che non devo mollare. Lo so che è così.

E infatti non lo farò. Non è possibile che io molli. 

La guerra è fatta anche di momenti di riposo. Le ferite hanno bisogno di qualche giorno per risanarsi. Solo in casi di urgenza si compie lo sforzo estremo di rialzarsi per assestare qualche pugno come si può, pur di sopravvivere.

Oggi non è uno di quei giorni. Ne ho vissuto qualcuno così in diversi momenti dei miei quasi primi 50 anni. Ne vivrò anche altri, di sicuro.

Oggi è il giorno del silenzio. Domani, dopodomani, bisognerà gettare un nuovo piano d'azione, avendo però sempre chiara la strategia di fondo. 

Solo così lo scrauso sparirà.

A voi faccio quest'unica seguente preghiera, in vista degli imminenti Europei di lotta allo scrauso che mi accingo a combattere: credete in me, fate il tifo per me, fate la ola per me. E ripetete con me, se possibile a squarciagola, mentre assesto colpi definitivi: 

Stop scrauso, stop scrauso, stop scrauso...

domenica 28 febbraio 2021

Le donne, il lavoro e la gioia di fare ciò che ci piace

 


Ho scattato la foto che vedete sopra a una fermata dell'autobus che incontro quando vado a correre al parco di Schönbrunn.
Nei giorni seguenti ho scoperto che buona parte delle pensiline nel mio quartiere espone la stessa immagine.
Si tratta di una campagna a favore delle donne promossa dal Partito socialista austriaco, in vista dell'Otto Marzo.
Nel titolo in alto a sinistra c'è scritto: "Donne. Campionesse della crisi. Da sempre".

Lo slogan è semplice e facilmente condivisibile, almeno a parole.
Chi è che osa negare che le donne, noi donne, siamo state abituate da generazioni di madri e di nonne a gestire la quotidianità con tutte le sue grane come macchine da guerra?

A parole, dicevo, non c'è, credo, nessun partito che potrebbe affermare il contrario.
Nella scritta piccola in basso a sinistra, si specifica infatti che:
"Non è solo dal 2020 che noi donne ci opponiamo con tutte le nostre forze alla disparità di trattamento".

Intelligente, e per niente casuale, anche la scelta delle testimonial.
La giovane di pelle più scura è una mamma di due bambini, la bionda affianco, a occhio coetanea, una maestra elementare, la donna più matura un'assistente sanitaria (tipo, penso, le nostre Oss o badanti qualificate), la ragazza a destra una parrucchiera, definita per la precisione "lavoratrice autonoma".

Le quattro non sorridono, men che meno ammiccano. Hanno sguardi che ti scavano un po' dentro, a mio parere, come a dire: "Non arretreremo mai". Certo che no. 

Sono andata a leggermi il testo della campagna dell'Spö.
L'incipit recita: "La pandemia da Corona rende chiaro che le donne vengono ancora trattate sempre in modo diseguale". A loro, prosegue il testo, toccano i lavori peggiori, oltre al lavoro non retribuito di cura dei bambini e di assistenza ai malati. A ciò si aggiungono, si sottolinea, le esperienze di violenza subite già da prima della crisi attuale, ma diventate decisamente più visibili nell'ultimo anno.

Per tutti questi temi, asserisce la campagna Spö, è arrivato il momento di trovare rapide soluzioni e supporti adeguati alle donne colpite. Non solo: in vista della Giornata internazionale delle donne, si chiede un cambiamento di sistema. 

Da qui in avanti il testo si fa meno interessante, almeno per noi italiani abituati da sempre alle polemiche politiche, oltre che alla disparità di trattamento di genere.

Perché racconto questa storia? 
Ovviamente, perché mi riguarda, come donna e come straniera sbarcata in un Paese di cui non conoscevo nulla.

Vista dall'Italia, l'Austria sembra, o sembrava, una terra felice, ricca di opportunità.
Per qualcuno, e qualcuna, lo è davvero, lo è stata e lo sarà.

Sono certa, per esempio, che la ventenne afgana che ho conosciuto al secondo corso di tedesco, se non si mette a sfornare un bebè dopo l'altro, riuscirà a diventare una maestra d'infanzia, come diceva di voler fare.

Idem per la giovane bulgara, arrivata a Vienna un annetto fa, che con una laurea in tasca e molta attitudine allo studio (del tedesco, e non solo), di certo riuscirà a lasciare la cucina del pub dove lavava i piatti, per un lavoro migliore.

Andrà bene, credo, anche alla slovacca che voleva diventare infermiera, alla quale mancava solo il certificato B2 di conoscenza della lingua per potersi iscrivere a un corso triennale.

Idem succederà, penso, anche a chi di loro vorrà e potrà fare solo la mamma, perché nella maggior parte delle donne che ho conosciuto in quest'ultimo anno, ho visto comunque il desiderio fortissimo di mettere radici qui. Oltre ogni nostalgia per la patria lontana.

In tutto ciò, io dove mi colloco?
In comune con le compagne di corso, e con le signore della foto in alto, ho la determinazione a dare sempre il massimo.
Lo sa anche la mia nuova consulente del lavoro, che appartiene a una società di sole donne che cercano di dare un futuro migliore ad altrettante signore con alto profilo scolastico. E qualche anno in più sulle spalle.

Esemplare è anche la storia della suddetta consulente.
Di origine polacca, a occhio e croce, tra i trenta e i quaranta, si è trasferita qui da bambina con la famiglia. Nel nostro primo incontro si è presentata, raccontandomi del suo periodo all'estero, prima della decisione di tornare in quella che considera la sua patria per un lavoro più stabile, probabilmente, anche se non particolarmente ben pagato.

Di storie come la sua Vienna è piena. Gli uffici pubblici traboccano di signore con cognomi slavi, facile beccare anche qualche turca di seconda, o terza, generazione. 

Di italiane, nel grande mondo dell'Arbeitsmarketservice, ossia la mitica agenzia del lavoro che tuttora mi assiste (eh sì: ora mi assiste, sono ormai annoverata tra le disoccupate di lungo periodo), invece, pochissime tracce. Almeno fino a quest'anno. 

Tra i miei contatti, praticamente, non c'è nessuna che ha un'esperienza non dico uguale, ma almeno simile alla mia.
Un po' lo capisco. 
Il grosso delle mie connazionali lavora, o lavorava, nella ristorazione, da dipendente o titolare di attività, presumo con compagni e mariti. Ci sono poi le insegnanti di lingua, le artiste, le ricercatrici, e quelle che, magari, hanno un partner austriaco e/o varie proprietà in patria per cui il lavoro, o l'assenza dello stesso, non è un grande problema.

Dimenticavo le ragazze con una laurea tecnica e scientifica, come la giovane e simpatica napoletana, che, almeno l'anno scorso, prima dello smart working al quale è condannata da tempo immemorabile, era entusiasta della città.

Non ho dati statistici, insomma, ma a naso le italiane a Vienna, nel resto dell'Austria non so, sono giovani o se non lo sono più, hanno trovato qualche motivo davvero solido per restare oltre confine.

In qualcuno di voi, a questo punto, sarà sorta spontanea la domanda:
cara Madamatap, che diavolo ci fai ancora lì?

La risposta è sospesa, un po' come i caffè per i bisognosi e gli altri articoli che adesso si sono aggiunti alla lista delle necessità non più finanziabili.

Ringrazio però la consulente austro-polacca in particolare per un motivo.
Nel nostro ultimo colloquio mi ha suggerito di andare oltre il curriculum nudo e crudo, invitandomi ad interrogarmi su quello che mi dà gioia fare.

In tedesco si fa distinzione tra "Beruf", lavoro, nel senso di qualifica che si è raggiunta con studio e pratica, e "Berufung", che in senso stretto si traduce con "vocazione", in senso lato il mix di esperienze, interessi e attitudini personali, che fanno di ciascuno di noi un essere umano, una risorsa, se vogliamo chiamarla così, unica e insostituibile.

A questa domanda posso rispondere, o comunque non mi sottraggo.
Scrivere e fotografare. E poi leggere, studiare e correre. E conoscere la gente e farmi raccontare chi è e che cosa fa, provando a descriverla, e se possibile a illuminarla. 

E sti cazzi. Che fannullona
Ho anche qualche predisposizione al lavoro manuale, dimenticavo. Dovevate vedermi l'altro giorno, mentre aiutavo la mia amica austriaca a montare la poltrona dell'Ikea.

Ci metto però sempre del mio, con un'energia a tratti eccessiva (l'amica mi ha definita "hektisch", frettolosa. E meno male che la stavo aiutando, mortaccen suen. Però ci ha visto giusto, lo ammetto), per cui non credo sia il caso di farne parola con la consulente del lavoro.

Insomma, in un mondo ideale, una donna come me sarebbe perfetta in un sacco di contesti, soprattutto quando c'è da cazzeggiare in modo creativo, da prenotare viaggi (per l'Italia, soprattutto: ah sì, che bellezza), da sorridere garrulamente a più gente possibile. E da stringere qualche vite.

Dite che Vienna si accorgerà presto di questa perla matura (per usare un eufemismo)?
Staremo a vedere.
Basta andare avanti, a testa alta e la solita ironia, che non svanisce, nonostante tutto.

Ps W le donne!  

sabato 30 gennaio 2021

Madamatap compie dieci anni... mille di queste pipe!


Si stava meglio quando si stava peggio. 
Personalmente, non credo di aver mai pronunciato una frase così terribile, eppure, a pensarci bene, è strano.

I nostalgici, in genere, si torcono e contorcono (citazione per adepti dell'Avvocato) nel rimembrare i tempi andati.

Tra loro mi ci metto pure io, anche se (forse) ho imparato a separare i ricordi belli da quelli brutti. 
E infatti piango molto meno.

Insomma: non arriverò mai a dire "si stava meglio quando si stava peggio", ma l'anno Domini 2020 qualcosa di buono, in fondo, l'ha portato.

Cosa? Direte voi, trasecolando un po'.

Per esempio, la foto con le pipe del Bipede che vedete sopra, sulle presine bruciacchiate. 
Anzi, per essere più precisi, chiamasi, detta foto, Natura morta con pipe su presine bruciacchiate.
La denominazione non è mia, bensì della sorella, mia coach e guru di fiducia.

Il battesimo ufficiale è avvenuto però qualche giorno dopo, ossia quando la suddetta si è accorta dei quotidiani scatti alla nutrita collezione di pipe del consorte, scorrendo i miei stati whatsapp.

Uno, per la precisione, per ogni giorno di lockdown.
Parlo del primo lockdown, che qui in Austria è cominciato una settimana dopo quello italiano, per finire 54 giorni dopo.
CINQUANTAQUATTRO giorni? Accidenti, non me lo ricordavo più... 

La prima foto, sinceramente, è stata piuttosto casuale, ma a selezionare e comporre le pipe nel modo che vedete ci ha pensato direttamente il Bipede. A lui è toccato, ovviamente, scegliere e comporre anche la seconda, poi la terza, la quarta, finché... lampadina, ideona.

Chiamerò questa serie (hanno detto i miei affaticati neuroni al paziente consorte fumatore di pipa) "Die Corona-Pfeifen", ove la seconda parola va pronunciata "pfaifen" che in italiano si traduce con... pipe, natürlich.

Ricominciamo, quindi, daccapo.

Rullo di tamburi, ruggito del leone Universal, musica dell'Eurovisione, scegliete voi il tappeto musicale che vi piace di più...

Signore e Signori, con immenso piacere sono lieta di presentarvi Die Corona - Pfeifen

L'esposizione nasce dalla proficua collaborazione tra i coniugi migranti con gatti al seguito e si compone di tre principali sezioni.

Partiamo con la prima, altrimenti detta Presine:


















Continuiamo con la seconda, chiamata Custodie

































Per finire, la terza, denominata Omaggio a Magritte

















Che senso hanno le Corona Pfeifen?

Tolto il loro indubitabile valore artistico, consideratele un messaggio di speranza per il futuro. Se dopo otto mesi di lockdown (e dieci anni di Madamatap: a proposito, sto festeggiando il decennale. Fatemi gli auguri!) mi va ancora di cazzeggiare, vuol dire che ce la possiamo fare tutti, ma proprio tutti



Herzliche Danke für eure Aufmerksamkeit (grazie di cuore per la vostra attenzione) e... Baci da Vienna!