giovedì 19 ottobre 2017
George Winston, i gatti e la vita
E alla fine il posto in prima fila ce l'hanno sempre loro: gli amici a quattro zampe.
Sono mesi che non aggiorno il blog e non credo che tornerò a farlo in modo regolare, però ho proprio avvertito l'esigenza di ripassare di qua dopo aver letto un articolo dedicato a George Winston, pianista americano noto (soprattutto) per aver riarrangiato la musica di Vince Guaraldi da quest'ultimo composta per i film sui Peanuts.
Ignoravo quale ruolo avessero giocato i gatti nella vita di questo musicista, autore di un cd di commovente bellezza, intitolato Spring Carousel.
Nell'articolo si spiega come e dove l'abbia realizzato, ossia di sera nella sala musica dell'ospedale nel quale Winston era ricoverato dopo un serio intervento chirurgico.
Non so se questo pianista dal viso etereo e il sorriso rasserenante abbia sconfitto definitivamente il male, ma di sicuro i ventidue gatti che ha incontrato durante la sua esistenza dall'infanzia a oggi l'hanno aiutato a elevarsi al di sopra di ogni dolore.
Basta sentire la sua musica per capire di cosa sto parlando.
Ho corso con i brani di Spring Carousel nelle orecchie durante l'ultima dieci chilometri che ho affrontato in buona parte da sola. Era la prima volta che l'ascoltavo e ne ignoravo la genesi.
Eppure.
L'album è dedicato alla primavera, racconta sempre il musicista nell'intervista, ossia il periodo della sua convalescenza in ospedale.
Un'analoga primavera si è portata via mia madre, ma io non ho smesso di amarla, come stagione, né ho smesso di credere nel potere curativo dei gatti (ma anche dei cani, per chi li ha), che pure lei ha imparato a conoscere a partire da un certo momento della sua vita.
C'è qualcosa in queste creature che ti costringe alla contemplazione. La grigia che vedete sopra sulla radio, per dire, tutte le mattine mi miagola fortissimo finché non mi costringe a sedermi e a tenerla in braccio.
Non crediate che lo faccia per affetto: sono certa che voglia solo scaldarsi un po', ma non nascondo che il suo opportunismo mi piaccia davvero molto, perché è come se mi spingesse a fare altrettanto.
Molla gli ormeggi, biondina, sembra voglia dirmi, intiepidendomi le cosce.
Uno dei brani dell'album di Winston porta il nome di uno dei gatti più importanti nella sua vita (si chiama Pixie #13 in C - Gobajie).
L'intervistatore lo giudica particolarmente ispirato e in effetti ha ragione, forse anche perché anticipa bene i pezzi conclusivi dedicati all'amore, in tre diverse declinazioni, difficili da descrivere con le parole.
Se proprio devo sforzarmi, direi che nei brani di Winston (anche in quelli dedicati ai Peanuts) c'è sempre qualcosa che ti invita a lasciarti andare, esattamente come fanno i corpi di questi animali quando dormono.
Al contempo, una musica di così immensa grazia richiede un ascolto attento, così come fa la gatta grigia, quando mi assale con i suoi miagolii finché non mi trasformo nel suo scaldino.
Durante la corsa c'eravamo solo io, le mie gambe e le note di questo straordinario personaggio. Sono arrivata al traguardo quasi riposata. Qualcosa del genere mi capita dopo una seduta con la gatta sulle gambe, tolti gli scricchiolii delle giunture e lo stiramento sonoro molto poco felino.
Sono momenti di presente assoluto e di nostalgia.
Chissà se capisce quello che le dico. Perché, naturalmente, con i nostri piccoli amici si parla. In particolare, arriva sempre un momento in cui muovo un arto preceduto dal mio: "Ok, adesso è ora di scendere, forza". Di solito alza prima mezzo orecchio e solo al secondo o terzo micro movimento salta giù con un vago senso di fastidio. I cuscini umani non valgono una cicca, penserà.
La seduta mattutina mi costringe ad accettare lo scorrere del tempo, a spurgarmi, a volte, dai sensi di colpa per la mia protratta inattività.
La musica di Winston si adatta perfettamente a questo stato d'animo.
Intuisco la grandezza del privilegio che mi è capitato in sorte proprio durante attimi del genere.
Dov'è andata la rabbia? Perché, anzi, ero arrabbiata prima?
Poi, certo, il cd finisce e la gatta si accoccola nell'angolo del divano sulla sua copertina.
Io sono ancora in pigiama o in tuta, non ho nemmeno messo la crema sul viso e non so bene che cosa sarà della mia giornata, ma non è il caso di preoccuparsi.
La vita va avanti lo stesso.
E qualcosa accadrà.
Fino alla prossima seduta musico-felino-terapeutica.
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sabato 8 luglio 2017
Voglio di più, stop agli anni amari
Sto per scrivere parole di lagna e di dolore, ma ne ho bisogno, quindi passate oltre, se vi annoio.
Ho scoperto Chantal Kreviazuk grazie a mio marito, molto attento alla musica, tanto più se declinata al femminile.
Lei è un'artista canadese a tutto tondo: oltre a cantare magnificamente, scrive musica e parole, recita ed è pure madre, mi pare di tre figli. In più, è bella e di classe, insomma: una strafiga, almeno per i miei parametri.
La canzone "Into me" che linko sopra fa parte dell'ultimo album intitolato "Hard sail", dedicato al suo matrimonio (in estrema sintesi): il marito di Chantal, manco a dirlo, è un musicista come lei, è belloccio e ora che ci penso sto per avere un attacco di bile.
Scherzo: mai stata un tipo invidioso, io.
Il che porta al risvolto patetico della faccenda.
Non conoscevo il testo di "Into me" fino a pochissimo tempo fa, quando me lo sono scaricato.
Parla dell'inizio di una storia d'amore e dell'incredulità che prova lei, che al risveglio accanto a lui, si sente invadere dalla gioia quando realizza che lui, sì, proprio lui, non sta andando da nessuna parte.
Non capendone le parole (Chantal gorgheggia "you're not, you're not"), mi ero fissata sulla strofa in cui dice "I want more, I want more", seguito davari "more" in crescendo.
Correndo con la sua musica nelle orecchie, li ho gridati un sacco di volte, come un inno di guerra (non senza prima essermi guardata intorno: folle sì, ma in solitaria).
"Voglio di più, di quello che credi", diceva Pino Daniele in tutt'altra canzone, parlando, in questo caso, di "anni amari".
Ne ho vissuti parecchi, di anni amari. Ora basta.
Curiosamente, mi sono ricordata di un monologo che in tempi non sospetti mi avevano affidato nella compagnia amatoriale di Chieti Scalo che ho frequentato nel periodo di transizione tra l'università e la scuola di giornalismo, che fino a poco tempo fa ho creduto fosse il più buio della mia vita.
Non rammento più le parole precise, ma impersonavo una donna forse dell'età che ho adesso, che racconta i fatti suoi ad altra gente seduta come lei sulle panchine di un parco.
"Ho avuto anni buoni nella vita, diciamo pure cinque o sei", dicevo a un certo punto. Più avanti nominavo quel "tarlo" che all'improvviso ti entra nella testa levandoti la serenità.
Quel monologo mi ha portato una iella pazzesca o più semplicemente, devo rassegnarmi, io non sono predisposta al "successo".
Davvero non so spiegarmi altrimenti il perché di alcune scelte di vita, alcuni cambi di rotta e ora, a pochi giorni dal mio compleanno, perché mi ritrovi ancora a comportarmi come una vecchissima adolescente.
In verità adesso so che cosa mi farebbe stare meglio, ma purtroppo non posso ottenerlo perché non dipende solo dalla mia volontà.
La visione americana dell'esistenza rassicura e quando la vedi nei film ti pare di poterla inverare pure tu (mi riferisco a quelle atmosfere da "Fame" e ai sogni da afferrare al volo).
La visione americana dell'esistenza rassicura e quando la vedi nei film ti pare di poterla inverare pure tu (mi riferisco a quelle atmosfere da "Fame" e ai sogni da afferrare al volo).
La realtà è diversa, anche se, come si vede nel romantico video di Chantal, può capitare di avere "anni buoni" nella vita, momenti di gioia pura che poi non dimenticherai più.
La felicità insomma esiste, ne sono certa, ma è fatta di tanti "hard sails", duri viaggi come dice la bella canadese, da affrontare, se possibile, in due o più (in un'intervista parla con grande ironia e franchezza delle madri che diventano "bestie" pur di proteggere i loro cuccioli).
Non tutti abbiamo, però, uguale forza e fortuna per affrontare al meglio il lato "hard" della faccenda.
Sono scappata troppe volte spaventata non so bene da cosa, dalla città in cui sono cresciuta, dai lavori più strutturati. Persino la facoltà universitaria che ho scelto è indice della mia grande irresolutezza.
Ormai è tardi, troppo tardi, per molte cose, ma per lo meno ho imparato a godermi il più possibile gli attimi di leggerezza ogni volta che si presentano.
Vorrei solo scrollarmi di dosso del tutto questo senso di inadeguatezza alla vita che mi "pietrifica", come dice la Kreviazuk, parlando della paura che prova al pensiero che lui possa andarsene.
Al contempo, so che è giusto occuparsi del genitore in difficoltà, tirando fuori tutta la maturità di cui sono capace.
Si farà tutto quello che si deve, come sempre.
Spero solo di non arrivare alla fine della mia vita con quest'ombra di fallimento che mi porto addosso da troppo tempo.
Voglio di più, voglio di più.
Di più.
Un giorno imparerò a cantarlo per bene (la mia giovane insegnante di canto spero abbia abbastanza pazienza e pietà). E chissà se basterà questo per ottenerlo.
Crediamoci.
Non ho altra scelta, d'altra parte.
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mercoledì 28 giugno 2017
La ragazza del mondo e l'Arminuta, due a zero per l'umanità
Cercavo un collegamento tra "La ragazza del mondo", il film di Marco Danieli che ho visto venerdì scorso alla Comunità di Capodarco, per l'apertura dell'Altro festival, e "L'arminuta" di Donatella Di Pietrantonio.
Quando si dice il caso.
L'attrice protagonista che vedete sopra nella foto si chiama Sara Serraiocco ed è di Pescara.
L'autrice del libro che ha per protagonista una ragazza ancora più giovane vive a Penne. Forza Abruzzo, mi verrebbe da dire, ma solo perché sono una senza patria alla ricerca costante delle proprie radici.
Tolto l'orgoglio regionale, comunque, tra i personaggi visti e letti più o meno negli stessi giorni il legame c'è e ha a che fare con l'identità.
"Arminuta" vuol dire "ritornata" ed è il soprannome che viene affibbiato alla ragazzina al centro della storia dagli abitanti del paese nel quale torna a vivere, quando viene restituita alla famiglia biologica da quella adottiva, per ragioni che verranno spiegate durante la narrazione.
La ragazza del mondo è invece ciò che diventa Giulia-Sara, la diciannovenne testimone di Geova, che finisce per essere "disassociata", quando si scopre il suo legame d'amore con un ragazzo "di fuori" dalla comunità religiosa.
Al di là degli aspetti sociali delle due vicende (che pure sono significativi, altrimenti non si capirebbe granché della tensione narrativa che le pervade), sono rimasta colpita dalla forza di queste due giovani donne, capaci, ciascuna a modo proprio, di ricomporsi pezzo dopo pezzo dopo pesantissime fratture.
Alla fine del film (no spoiler, promesso) verrebbe da chiedersi che adulta diventerà Giulia, se riuscirà un domani ad amare nel modo giusto chi è dentro e chi è fuori dal mondo dal quale si è dovuta (o voluta?) allontanare.
Nel caso dell'Arminuta, invece, si sa che la trama si avvia quando la protagonista ha più o meno trent'anni, per cui già si intuiscono i mutamenti prodotti dalla scoperta tardiva di avere due mamme o forse nessuna.
In entrambe le storie, il dolore resta lì, muto e galleggiante, come quando si è smesso finalmente di piangere, ma si è ancora spossati dalle lacrime.
E tuttavia uno spiraglio c'è ed è molto femminile sia per i personaggi che lo rappresentano sia per il modo in cui viene espresso.
Mi colpisce, anzi, a pensarci adesso, che il regista della "Ragazza del mondo" sia un uomo: è proprio vero, allora, che quando ci si mettono quelli che stanno dall'altra parte del cielo sono capaci di grande sensibilità, epurata, direi, dalla retorica in cui spesso, ahimè, noi donne finiamo per cadere.
Donatella Di Pietrantonio, al contrario, sa dare voce anche agli uomini, ai maschi direi meglio, nel modo giusto, ma pure per lei la salvezza della protagonista è declinata al femminile.
Il film con la magnifica Sara Serraiocco e la terza opera edita di una - a mio avviso - delle migliori scrittrici italiane contemporanee non sono perfetti ed è anche questa una ragione della loro bellezza.
L'innamorato di Giulia poteva pure non essere un tossico-spacciatore, mentre qualche dialogo del libro poteva essere ancora meno esplicito di come è stato stampato, per aumentare la meravigliosa asciuttezza della prosa adottata dall'autrice. E tuttavia, ho amato tutti i personaggi principali di entrambe le opere: nel libro mi è piaciuto Vincenzo, il fratello-non fratello dell'Arminuta, e ancora di più la mamma ritrovata, con quell'incapacità apparente di compiere gesti d'affetto.
Nel film, invece, nonostante quello che ho scritto prima, mi sono immedesimata nella disperazione di Libero, il ragazzo di Giulia interpretato da un assai convincente Michele Riondino.
Sono storie alle quali ti affezioni, insomma, capaci di riscuoterti dal torpore di giorni troppo identici a loro stessi. Già solo per questo motivo, non posso che dire grazie a chi ci ha lavorato con tutta la passione e la competenza che ci vuole.
Non basta una vita, probabilmente, per capire chi siamo e che diavolo ci facciamo qui: qualcuno, però, ha almeno il dono di fornire un po' di senso al nostro vagare.
L'umanità ha ancora qualche chance.
Voglio crederci, fatelo pure voi.
giovedì 15 giugno 2017
Fenomeno Gabbani e il segreto del successo
Sono incappata nel fenomeno Gabbani per questioni di lavoro.
Ora: non credo sinceramente che mi procurerò tutta la sua discografia, ma devo ammettere di esserne rimasta conquistata.
Mi piace su tutto la sua grande ironia non stronza, ossia di quelle che non virano verso il sarcasmo, bensì del genere sagace e divertente.
Nella full immersion che ho fatto nei giorni scorsi, tra l'altro, ho ascoltato anche pezzi poetici e riflessivi. Io però sto parlando soprattutto dei testi, mentre so benissimo che un buon ottanta per cento del successo di questo trentaquattrenne carrarese dipende soprattutto dalla grande energia che trasmette la sua musica.
Di base gli arrangiamenti sono radiofonici, concepiti per far ballare (o comunque ballonzolare) le persone mentre fanno la spesa (o stirano, come farò io forse tra poco), e questo, per una pallosa come me, è un limite.
Almeno in generale.
In questo caso, invece, intendo nella canzone che linko sopra, il connubio tra testo, musica e commercio è perfetto e a me non viene che inchinarmi per tanta professionalità.
Perché diciamocelo: ci sono tanti bravi musicisti e discreti interpreti, ma nel successo, quello che ti rende un nuovo Celentano o Battisti, voglio dire, contano, oltre alla fortuna personale, una cazzutissima preparazione (anche fisica), idee e staff qualificato che curi ogni minimo aspetto del personaggio che aspiri a diventare.
Qualche anno fa, se ho visto bene cercando i suoi pezzi sul web, Gabbani non era così in forma come è apparso ieri sera sul palco di Fermo. Avrà di certo pure un personal trainer.
Anche il look, quel ciuffo scolpito e quelle t-shirt semplici ma curate, la barbetta disegnata sopra quel magnetico sorriso sono studiatissimi.
Più invecchio e più capisco, insomma, che se vuoi sfondare non puoi lasciare niente al caso.
E la spontaneità, direte?
La spontaneità la usi anch'essa come marketing se lo sai fare, altrimenti cerchi di nasconderla con l'aiuto di un insegnante di public speaking o con la respirazione yoga, se sei uno che va in panico a contatto con la folla.
Molto probabilmente Gabbani ha doti naturali di comunicatività, però non è così per molti aspiranti artisti, pur bravi e talentuosi.
Oltre una certa età, detto ancora meglio, se non si è riusciti a governare la propria emotività o al contrario il proprio eccesso di ego, è piuttosto improbabile che il successo alla fine arrivi.
Per riuscire non basta il talento, insomma. Bisogna invece pure avere l'umiltà di farsi rivoltare come calzini da chi ha visto qualcosa in noi, purché, naturalmente, questo qualcuno sia un professionista con le contro-palle.
Diffidate dai dilettanti della comunicazione e delle arti in genere, voi che credete ancora di avere qualcosa da lasciare ai posteri.
Una scrittrice che ho intervistato tempo fa e che rivedrò stasera in una conferenza, mi ha parlato dell'importanza della sua agente letteraria nel farla salire di livello quanto a casa editrice con cui pubblicare.
Per arrivarci, la stessa si è fatta un mazzo così nella scrittura, innanzitutto, ma anche in tutto quello che comporta diventare un personaggio pubblico. I vestiti sono tutto, il modo di atteggiare il corpo anche, l'uso della voce, etc etc.
Con questo, ovviamente, non voglio dire che ci si debba imbalsamare, anche perché, se il risultato finale è troppo giustapposto, poi il pubblico se ne accorge e ti bastona.
Sto dicendo però che non bisogna aver paura di farsi un po' modellare, quando chi lo fa ha chiaro con te l'obiettivo di farti brillare, non di trasformarti in un clown.
Gabbani riluce, insomma, e persino una criticona come me l'ha capito.
Tutto sta a vedere come saprà gestire nel tempo la sua fama. In conferenza stampa si diceva tranquillo per la consapevolezza che, comunque, cambiando lui come accadrà nel corso del tempo, cambierà anche la sua musica. Da parte sua continuerà a scrivere canzoni. Meno male.
Oh my darling, che simpatica scoperta.
martedì 13 giugno 2017
La storia non siamo noi, ma trattateci comunque da cittadini. Lettera ai vincitori delle amministrative
Se fosse stata in bianco e nero, o di colori meno metallici, la foto che pubblico sopra sembrerebbe provenire direttamente dagli anni Settanta-Ottanta.
Invece no: l'ho scattata ieri sera, al termine dei festeggiamenti per la rielezione del sindaco di Porto San Giorgio, Nicola Loira, uno di cui, secondo lo slogan elettorale, ci si potrebbe fidare.
A sventolarla, è un anziano, verso il quale non si può che provare un misto di tenerezza e malinconia.
Era dai tempi dell'università, a inizio Novanta del secolo scorso, che non vedevo una bandiera con la falce e il martello. Di sicuro sarà comparsa mille altre volte in analoghe manifestazioni, ma credo davvero che risalga a inizio Duemila l'ultima volta che ho preso parte a qualcosa di tinta rosseggiante, pur se in circostanze completamente diverse.
Non sono tipo da folla né amo, in linea generale, le sfilate di protesta con tanto di canti e tamburi (se sei incazzato, che ti canti, mi viene sempre da pensare). Mi sentivo fuori tempo massimo già a vent'anni, quando me ne andavo con la fotocamera analogica a immortalare i manifestanti che furono. Ho ancora da qualche parte un album con gli scatti raccolti a Firenze in occasione di una protesta anti-Berlusconi. Alcuni si erano messi in posa, esattamente come fanno i partecipanti a maratone e altre amenità di massa.
Credo che stare dall'altra parte dell'obiettivo protegga anche un po'. Che ci faccio qui? Ma è ovvio, scatto foto: mica crederete che la penso come voi?
Eppure.
Era già caduto il muro di Berlino quando frequentavo le feste dell'unità e simili. Anzi: ricordo anche vagamente un comizio di Fausto Bertinotti in un prato della periferia pisana. Ci si andava per stare con gli amici (toscaneggio pure, per l'occasione), ma evidentemente il mio cuore militava da quelle parti. Di certo non sono mai stata a un'analoga kermesse missina o post-non so cosa (c'era Fini, giusto. Le mie coinquiline un giorno sono tornate a casa con le bandierine italiane e me le hanno sventolate davanti alla faccia per provocarmi. Ci sono riuscite. Lo ammetto).
Insomma, dentro di me alberga una piccola comunista, amica dei deboli e degli sconfitti.
Mi dispiace sempre assistere al rammarico di chi ha perso: mi scatta istintivamente un istinto materno difficile da controllare.
Mi immedesimo più facilmente negli sfruttati e maltrattati di rinogaetaniana memoria.
Capisco, però, che dalla tristezza altrui occorra anche difendersi per non confondere le proprie con le altrui frustrazioni.
E poi ho realizzato un'altra cosa: bisogna anche saper gestire le vittorie.
Sedersi sugli allori è, come dicevano gli antichi, l'errore più grave che si possa compiere.
L'omino che agita la falce e martello probabilmente non lo sa, ma quel partito in cui hanno riposto le speranze generazioni e generazioni di italiani è diventato ostaggio di una classe dirigente che ormai gli allori ce li ha per biancheria intima.
Non sto parlando nello specifico del piccolo comune nel quale sono venuta a vivere, ma a giudicare dalle molte facce non più giovani presenti anche tra i neo consiglieri comunali del posto in cui ho comprato casa, investendovi denari e progetti per il mio futuro di persona altrettanto anzianotta, ci vorrà ancora un po' prima che, davvero, questo Paese (non solo Lu Portu) si riscuota dalla stasi in cui è piombato ormai da troppo tempo.
"La storia siamo noi", diceva la canzone di Francesco De Gregori utilizzata per aprire la festa per la vittoria, anche quella un classico dei miei anni verdi.
Mi intenerisco e provo anche un po' pena per me stessa pensando a quando, in sella alla bici con i freni a bacchetta, troppo alta per me e pericolosissima per come la guidavo, mi avviavo verso un altro quartiere periferico di Pisa, più o meno nello stesso periodo di adesso, per andare a servire al ristorante della festa di Rifondazione comunista. Per un bel pezzo sulla canna dell'improbabile mezzo di locomozione è rimasto appiccicato un bollino con il simbolo sovietico.
Ricordo pure un cuoco, forse quarantenne, uno anzianissimo per una come me fin troppo pischella per l'età che avevo, nell'atto di avvicinarmi al busto il suo forchettone per la carne. Broccolava un po', credo, ma se ce l'ho ancora fisso davanti agli occhi è solo per il senso di vergogna che ho provato. Polla da infilzare, ingenua e sognatrice come i tanti che negli ideali propagandati dal Pci e i suoi eredi ci hanno creduto davvero.
Poi gli anni passano e la storia, per l'appunto, prende nuovi corsi e tu te ne senti ogni giorno di più meno parte.
"Siete finiti!", dicevano dei giovinastri da un'auto in corsa che passava accanto alla festa pisana.
Qualcuno forse li avrà rintuzzati, ma sinceramente non so cosa avessi pensato io in quel momento.
Sotto sotto, però, ho sempre saputo che di quel mondo mi piaceva essenzialmente la vera o presunta veracità dei compagni di una volta, quelli che dopo aver mangiato i fagioli all'uccelletta si buttavano tutti in pista a ballare il liscio.
Mi parevano autentici, incapaci di scorrettezze o peggiori nefandezze.
La cosiddetta base tanto mitizzata pure nei programmi di Guzzanti e Dandini di quegli anni, gli eroi pasoliniani che in verità io non avevo mai frequentato, piccola borghese com'ero di famiglia.
A distanza di tanto tempo che cosa è rimasto di quella specie di ideale di purezza?
Lo incarnano forse solo i semplici come quell'anziano che sventola la bandiera nella foto o è possibile essere per lo meno credibili pur nel crescendo di amarezze che ti riserva l'età adulta?
Come proteggersi da volgarità e meschinità, nonostante tutto?
Non ho una risposta precisa, o forse una mi viene in mente.
E la indirizzo a chi ha vinto questa tornata: abbiate rispetto degli altri, fateci sentire parte del vostro progetto di città, non a chiacchiere, non ad amarcord musicali, ma con le opere.
Siate degni del vostro essere vincitori: siate condottieri di questa nave piena di rattoppi e cercate con il massimo dell'abnegazione di rimetterla in sesto.
Voglio sentirmi vincitrice anch'io, per una volta: non voltate la faccia a chi non fa parte della vostra famiglia. Abbiate rispetto per il ruolo che vi siete assunti.
E' già un miracolo, voglio dire, che chi ha accolto l'eredità di quel partito fortemente novecentesco possa ancora fare numeri importanti, non solo nella piccola città de Lu Portu.
Agite da amministratori, non da feudatari.
E' l'unica preghiera che vi rivolgo da cittadina, con la fotocamera al collo, dall'altra parte del palco.
Lasciate che alla fine dai miei scatti di fotoamatrice venga fuori anche la vostra anima. Mostrateci di averne una.
mercoledì 7 giugno 2017
Ti aspetto nei miei sogni
Tre anni fa, più o meno a quest'ora, mia mamma se n'è andata. Ho sempre il timore (e il terrore) di scadere nella retorica, per cui perdonatemi se non scriverò molto di più su quel momento.
Erano però vari giorni che pensavo di buttare giù qualche riga, partendo dal presente.
In tre anni la mia vita è cambiata quasi totalmente.
Ho la sensazione che mi si sia seccato il cuore, da una parte; dall'altra, di aver sgombrato la mia pur sempre confusionaria e velleitaria testa da un mucchio di ciarpame.
Come vorrei dirlo a lei, che pure, se lo sapesse, mi guarderebbe ancora con un misto di amore e scetticismo.
Quante volte ci siamo ritrovate in cucina, io seduta nella sedia di lato alla credenza, lei su quella che ora uso sempre io quando resto lì a guardare la tv la sera, spesso anche quando papà se ne va a letto.
Prima non vedevo l'ora che quest'ultimo sgomberasse per potermi piazzare sul divano a fare zapping sul mega-schermo (pure negli anni Ottanta il salotto era il luogo deputato all'apparecchio più grande).
Di ritorno dall'università mi fermavo a lungo, di solito dopo pranzo, a raccontarle i fatti rilevanti dei giorni passati lontano da lei. Qualche volta scendevo pure più sul personale, come quella volta - ce l'ho davanti ancora chiaramente - in cui le ho svelato di essermi fidanzata.
Conoscendola, doveva impazzire di gelosia e di rabbia: "chi sarà mai quest'ennesimo scansafatiche?" Di certo si augurava solo che non facessi qualche leggerezza, anche se, sul fronte sesso, in verità, sapeva essere piuttosto esplicita. "Guai a voi se fate la pizza". O qualcosa del genere, di solito riferito a qualche figlia di sedicente amica di collega, che, per l'appunto, l'aveva fatta e addio scuola e altri progetti.
Voleva proteggermi dall'amore, una parola così abusata la maggior parte delle volte in cui la si associa al rapporto sentimentale.
Lo sapete: non sono madre, per cui quella roba strappa-budella che ti succhia sangue ed energia da dentro la conosco solo per sentito dire.
So però che in molti casi aveva ragione lei: non c'è quasi nessun legame che duri per sempre, ma quando ne incontri qualcuno che vale la pena alimentare e far fiorire non c'è genitore che ti possa trattenere.
Mi dispiace di averlo capito troppo tardi, cioè di non averglielo potuto dire. Ma forse non avrei dovuto usare le parole: mi avrebbe sgamata guardandomi in faccia.
Per amare bisogna avere rispetto di sé, curarsi profondamente, ascoltarsi davvero.
Tu hai saputo amare me e Linda perché ci hai saputo parlare a volte con brutalità elefantiaca, ma insieme con rispetto.
"Sembri proprio una giornalista", commentavi leggendo qualche boiata che vi costringevo a sciropparvi. Mi è sempre piaciuto questo sano ridimensionamento del narcisismo da prima della classe e anche se faccio tuttora quotidianamente i conti la mia scarsa soddisfazione professionale, so che quella è l'unica strada per diventare persone equilibrate.
E' insomma come se, perdendoti, tu ti fossi installata stabilmente dentro di me aiutandomi quasi minuto per minuto a non sprecare energie in operazioni fallimentari, in relazioni inutili e altre cretinerie.
Non ho ancora la forza che hai dimostrato tu nell'ultima fase della tua vita né so nulla di quasi nulla su perché diavolo di ragione io sia piombata sulla terra.
So di più sulla fragilità umana, anche sulla tua e, se possibile, mi manchi ancora di più anche per questo. So pure che le lacrime non vanno sparse al vento come gocce di caligine.
Quando piangerò di nuovo, sul serio, sarò da sola: quelle lacrimucce di commozione che facevo fatica a mostrare da adolescente e che, invece, ogni tanto spuntano fuori adesso che mi avvio ai cinquanta, non sono altro che piccole melensaggini.
Dentro, sono un gigante, cara mamma, ma sto ancora crescendo, le articolazioni scricchiolano per questo (sì, come no).
Mi sono accorta di essere passata dalla terza persona al tu, parlando di lei. Parlando di te.
Perdonami per non aver capito tutto il dolore che provavi mentre te ne andavi. Per aver avuto così tanta paura della vita per lunghi, lunghissimi anni, da seguire alla lettera le tue raccomandazioni maternamente rigide anche quando non sarebbe stato necessario.
La verità è che io non ero in grado di amarti come tu hai fatto con me, ora lo so.
L'amore non si sceglie, l'amore arriva e basta, come io (e mia sorella) siamo arrivate da te.
Non so come chiudere: la banalità chiama.
Ti aspetto nei miei sogni.
Erano però vari giorni che pensavo di buttare giù qualche riga, partendo dal presente.
In tre anni la mia vita è cambiata quasi totalmente.
Ho la sensazione che mi si sia seccato il cuore, da una parte; dall'altra, di aver sgombrato la mia pur sempre confusionaria e velleitaria testa da un mucchio di ciarpame.
Come vorrei dirlo a lei, che pure, se lo sapesse, mi guarderebbe ancora con un misto di amore e scetticismo.
Quante volte ci siamo ritrovate in cucina, io seduta nella sedia di lato alla credenza, lei su quella che ora uso sempre io quando resto lì a guardare la tv la sera, spesso anche quando papà se ne va a letto.
Prima non vedevo l'ora che quest'ultimo sgomberasse per potermi piazzare sul divano a fare zapping sul mega-schermo (pure negli anni Ottanta il salotto era il luogo deputato all'apparecchio più grande).
Di ritorno dall'università mi fermavo a lungo, di solito dopo pranzo, a raccontarle i fatti rilevanti dei giorni passati lontano da lei. Qualche volta scendevo pure più sul personale, come quella volta - ce l'ho davanti ancora chiaramente - in cui le ho svelato di essermi fidanzata.
Conoscendola, doveva impazzire di gelosia e di rabbia: "chi sarà mai quest'ennesimo scansafatiche?" Di certo si augurava solo che non facessi qualche leggerezza, anche se, sul fronte sesso, in verità, sapeva essere piuttosto esplicita. "Guai a voi se fate la pizza". O qualcosa del genere, di solito riferito a qualche figlia di sedicente amica di collega, che, per l'appunto, l'aveva fatta e addio scuola e altri progetti.
Voleva proteggermi dall'amore, una parola così abusata la maggior parte delle volte in cui la si associa al rapporto sentimentale.
Lo sapete: non sono madre, per cui quella roba strappa-budella che ti succhia sangue ed energia da dentro la conosco solo per sentito dire.
So però che in molti casi aveva ragione lei: non c'è quasi nessun legame che duri per sempre, ma quando ne incontri qualcuno che vale la pena alimentare e far fiorire non c'è genitore che ti possa trattenere.
Mi dispiace di averlo capito troppo tardi, cioè di non averglielo potuto dire. Ma forse non avrei dovuto usare le parole: mi avrebbe sgamata guardandomi in faccia.
Per amare bisogna avere rispetto di sé, curarsi profondamente, ascoltarsi davvero.
Tu hai saputo amare me e Linda perché ci hai saputo parlare a volte con brutalità elefantiaca, ma insieme con rispetto.
"Sembri proprio una giornalista", commentavi leggendo qualche boiata che vi costringevo a sciropparvi. Mi è sempre piaciuto questo sano ridimensionamento del narcisismo da prima della classe e anche se faccio tuttora quotidianamente i conti la mia scarsa soddisfazione professionale, so che quella è l'unica strada per diventare persone equilibrate.
E' insomma come se, perdendoti, tu ti fossi installata stabilmente dentro di me aiutandomi quasi minuto per minuto a non sprecare energie in operazioni fallimentari, in relazioni inutili e altre cretinerie.
Non ho ancora la forza che hai dimostrato tu nell'ultima fase della tua vita né so nulla di quasi nulla su perché diavolo di ragione io sia piombata sulla terra.
So di più sulla fragilità umana, anche sulla tua e, se possibile, mi manchi ancora di più anche per questo. So pure che le lacrime non vanno sparse al vento come gocce di caligine.
Quando piangerò di nuovo, sul serio, sarò da sola: quelle lacrimucce di commozione che facevo fatica a mostrare da adolescente e che, invece, ogni tanto spuntano fuori adesso che mi avvio ai cinquanta, non sono altro che piccole melensaggini.
Dentro, sono un gigante, cara mamma, ma sto ancora crescendo, le articolazioni scricchiolano per questo (sì, come no).
Mi sono accorta di essere passata dalla terza persona al tu, parlando di lei. Parlando di te.
Perdonami per non aver capito tutto il dolore che provavi mentre te ne andavi. Per aver avuto così tanta paura della vita per lunghi, lunghissimi anni, da seguire alla lettera le tue raccomandazioni maternamente rigide anche quando non sarebbe stato necessario.
La verità è che io non ero in grado di amarti come tu hai fatto con me, ora lo so.
L'amore non si sceglie, l'amore arriva e basta, come io (e mia sorella) siamo arrivate da te.
Non so come chiudere: la banalità chiama.
Ti aspetto nei miei sogni.
domenica 21 maggio 2017
Non sono più giovane, che sollievo
Era un pezzo che pensavo di eliminare la pagina "Gli sfaccendati". Non perché adesso sia molto più affaccendata di quando l'avevo creata, ma perché ho capito che il messaggio che lanciavo era sbagliato.
Il giovane che vedete nella foto sgranata è Jack London, morto suicida a trent'anni dopo aver lasciato alla storia della letteratura libri famosissimi soprattutto tra i ragazzi che furono fino a qualche anno fa.
Ho regalato a Natale Zanna Bianca al mio nipote maggiore, ma credo non l'abbia ancora letto, visto che è rimasto a casa dei miei genitori. A breve glielo prenderò in prestito (sono una fautrice dei regali boomerang), orfana come mi sento tuttora di Martin Eden, non so se l'ultimo romanzo di questo tormentato autore statunitense vissuto a cavallo tra Otto e Novecento.
L'impressione che mi ha lasciato addosso (lui sì che era uno che andava dritto al sodo) è ancora fortissima e temo non se ne andrà più.
Il suo alter-ego letterario raggiunge la fama (con le valanghe di denari che ne conseguono) quando per lui è "troppo tardi", la frase che lui medesimo usa per titolare il libro che gliela procura, aperta metafora della condizione probabilmente provata davvero da London. Eden, in altri termini, non regge al peso di essere arrivato dove voleva, dopo anni e anni di autentiche privazioni per di-rozzarsi e imparare a scrivere davvero (mica gli articoli? Quelli "gli avrebbero rovinato lo stile", dice a un certo punto), e solo per effetto di "lavoro già eseguito".
Il protagonista dell'imperdibile romanzo è proprio ossessionato da queste ultime parole, non riuscendo a capacitarsi che all'improvviso, senza alcuna ragione apparente, a qualcuno interessino le sue opere appena un attimo dopo che lui ha smesso di crederci.
Non voglio rivelarvi il finale, perché, davvero, vale la pena immergersi in questa fondamentale storia, scoperta grazie a un amico negoziante mentre ne acquistavo un altro per il gruppo lettura di cui faccio parte. Ho tentato, anzi, in tutti i modi di proporlo agli altri membri, ma in fondo in fondo sono gelosa dell'effetto che ha avuto su di me e mi addolorerebbe se qualcuno di cui ho stima non lo capisse.
Troppo tardi per un fare un sacco di cose anche per me.
Non sono più giovane, non lo sono più da un pezzo, ma la vergogna che provo per la mia condizione di precarietà mi ha spinto ancora troppe volte a fingere di essere alla ricerca di occasioni ed esperienze nuove, come se tutto quel che ho fatto finora non fosse "lavoro già eseguito", ossia tempo usato da me intensamente (pagato o non pagato, non importa) per crescere (e invecchiare).
Martin Eden mi ha permesso di capire con chiarezza semplicemente questo: non ho bisogno di nascondermi e cedere all'imbruttimento del tempo, ma neanche di apparire garrula e felice per forza.
Sembra una conclusione banalissima, di certo lo sarà, ma per me ha un grande valore.
Troverò una maniera più stabile per campare, ne sono certa. Ma non sarà quello a regalarmi la serenità, come il magnifico Eden-London aveva capito. A differenza sua, però, non sono più giovane, per cui non sarà necessario compiere gesti estremi per marcare la mia totale estraneità al mondo dei vincenti.
Mi basterà trovare il mio posto nel mondo, aperto e accogliente quanto basta per le persone che avranno la pazienza di non aspettarsi nulla da me.
Mi attende un duro lavoro. Finalmente.
domenica 14 maggio 2017
Auguri, mamme (e in bocca al lupo alla mia bouganville)
Staremo a vedere. Il motivo per cui ho scelto proprio questa graziosa piantina è molto infantile: si chiama come me, con una x al posto delle due s. Cercando una foto per questo post, ho letto giusto ora qualche consiglio per coltivarla. La vedo dura.
Non sto scrivendo, per la verità, solo per aggiornarvi sui miei propositi green, ma anche perché domani è un giorno che in altri tempi mi avrebbe messo allegria.
Non riuscivo a guardare tutti quei cuori e quei cartelli che richiamavano la festa mobile dedicata alla mamma.
Nei giorni scorsi ho parlato con otto diverse madri di bambini e ragazzi di età ed esperienze diverse. Il risultato uscirà domani (ormai oggi) sul quotidiano per cui collaboro, ma quello che non ci sarà è proprio l'effetto che hanno prodotto su di me, che mamma non sono, le loro parole e i loro sguardi.
Avevo fatto un lavoro simile per i papà, ma in questo caso sapevo già prima di buttarmi a capofitto nell'organizzazione di un incontro dopo l'altro (faticosissimo incastrarsi con gli orari contingentati delle mamme!) che ne sarei riemersa un po' cambiata.
E se sento di non essere più esattamente la stessa di prima già al solo ascolto delle loro profonde trasformazioni, figuriamoci che cosa mi sarebbe successo se l'avessi provato anch'io personalmente.
Ve lo posso dire, non me ne vergogno: le donne che hanno il coraggio di fare figli sono imbattibili. Certo, esistono casi difficili, orribili addirittura, ma se non si è psicopatiche o particolarmente in bolletta oppure - certo - impossibilitate per motivi di salute, dalla maternità si ha solo da guadagnare.
Attenzione, però. Il miglioramento personale che ne viene fuori può essere pure totalizzante e determinare la fine di ogni romanticismo.
Se non si ha affianco un partner che a sua volta comprenda appieno che diavolo di miracolo è vedere una creatura che ti spunta come dal niente, che abbia la forza sovrumana di innaffiarla, potarla e fortificarla più o meno come viene naturale alla mamma, non c'è unione che tenga.
Per fortuna ce ne sono tanti che hanno queste caratteristiche, ma le donne che nutrano dentro se stesse l'ardito desiderio di dare la vita devono scegliere con attenzione il seme che le feconderà.
Non sto scherzando: a meno di incidenti fortuiti o di colpi di fulmine incontrollabili, bisognerebbe prendere l'uomo che ti corteggia e intervistarlo per bene: tu che intenzione c'hai? Mi metti incinta e poi sparisci? Cos'è tua mamma per te? Vuoi viaggiare? Sei un fan di Erode? Etc etc.
Capisco benissimo che sia complicato e che potrebbe sembrare un po' calcolatore, ma chi glielo dice, poi, al piccino che papà non sa fare niente, che si sente messo da parte proprio da quest'alieno in miniatura e che la playstation proprio non la vuole cedere?
Ma probabilmente al grosso delle coppie che decide di riprodursi (o che si sorprende della novità in arrivo) basta uno sguardo d'intesa di massima per capire che ci si va a genio l'uno con l'altra (cambiate pure le declinazioni di genere, se vi pare).
Io, comunque, ho la massima stima per chi si è imbarcato in questi straordinari viaggi.
E comprendo sempre di più quanto sia per loro complicato dialogare con chi non li sta affrontando.
Mi piacerebbe, vi confesso pure questo, che non facessero sentire noi non genitori come delle povere creature incomplete, come si percepisce negli occhi condiscendenti di alcuni di questi meravigliosi avventurieri.
E tuttavia, nel profondo del mio cuore, mi sento di dar loro ragione pure ai compatenti: se non hai figli, sai davvero molto poco della vita e del perché, accidenti, ti servano denari per campare.
In una società rurale, magari, bastava avere almeno il pane e un tetto e di tablet, scarpe di marca e zaini fighetti non se ne parlava proprio.
Ma il punto è sempre lo stesso: si fa di tutto e di più per i figli perché è giusto e bello.
E terribilmente commovente.
E se l'avessi capito diversi anni fa, sarebbe stato tutto più semplice.
E dire che ho avuto un esempio straordinario di mamma. Forse persino troppo.
Magari è stato così grande da farmi sentire protetta e coccolata ben oltre gli anni in cui avrei dovuto organizzare serrate interviste ai miei possibili fecondatori.
O semplicemente dovevo diventare adulta in un'altra maniera, con la sua perdita.
Non si torna indietro, per cui quel che fatto è fatto, ma di quell'energia assoluta che ho visto in lei e nelle mamme che mi hanno aperto il loro cuore sull'infinito amore di cui sono state capaci, farò tesoro. Sempre di più.
Auguri a tutte le mamme, di ieri, di oggi e di domani.
venerdì 28 aprile 2017
Ewwa e il concorso di scrittura per le tastiere fumanti
La signora in maglia verde che firma il libro è la scrittrice Loretta Emiri, amica mia e degli Indios della foresta amazzonica, con i quali ha vissuto per una ventina d'anni tra gli anni Settanta e Novanta.
Non sono riuscita a intervistarla anche sul suo ultimo lavoro, ossia "A passo di tartaruga", ma per sua fortuna Loretta ha ottenuto articoli e recensioni certamente più importanti di quelli che avrei potuto scrivere io.
Ho scelto di pubblicare (o forse ripubblicare) la foto che le ho fatto durante l'incontro alla Casa della Memoria di Servigliano (Fm) nel febbraio dell'anno scorso per parlare di donne che usano la penna come modo per stare al mondo.
Loretta è una di quelle cui riesce particolarmente bene, considerati i non trascurabili sacrifici cui si sottopone ogni giorno per restare incollata alla tastiera e/o per non soccombere a quella vocina disfattista che ronza nelle orecchie di tutte le persone naturalmente portate a non prendersi troppo sul serio. Per fortuna, quel fastidioso Grillo parlante non ha avuto la meglio, per cui possiamo godere delle sue parole.
Oltre a lei, ce ne sono in giro di valenti, ciascuna nel proprio ambito di competenza.
Sono dispiaciuta, per dire, di non poter ascoltare domani alle 18.30, alla sala Castellani di Porto San Giorgio, Alice Basso che parlerà del mestiere di ghost-writer.
Non vi nascondo che ho pensato spesso che avrei potuto buttarmici pure io, anche se, ovviamente, bisogna che ci sia uno scrittore-scrittore che mi ritenga in grado di prendere i suoi panni.
Sono sicura che verranno fuori dettagli interessanti dall'incontro di domani, l'ultimo della serie di cinque (se non vado errata) organizzato dall'associazione European Writing Women (Ewwa) con il patrocinio dell'assessorato comunale alle Pari opportunità, intitolato "Non solo rosa".
Oltretutto, dalla foto del comunicato stampa che mi hanno inviato, Alice Basso pare abbastanza giovane da poter dare a chi è più vecchietto di lei la giusta riverniciata alle proprie idee sulle insidie e le opportunità offerte dal mondo editoriale. Chi può ci vada, insomma.
A proposito di dritte per le tastiere fumanti (mamma mia che brutta metafora), segnalo la novità offerta proprio dalla rete delle scrittrici, blogger, sceneggiatrici e traduttrici di cui fanno parte anche le promotrici della rassegna letteraria sangiorgese, ossia Christina Assouad ed Eleonora Vagnoni, rappresentanti per Ewwa delle regioni Marche e Abruzzo.
Si tratta del loro primo concorso letterario nazionale (aperto a donne e uomini) destinato alle storie di rinascita al femminile, con particolare attenzione a quelle riguardanti donne che hanno subito violenza. Oltre ai premi principali assegnati alle prime tre classificate, in altri termini, Ewwa ha previsto cinque menzioni speciali per articoli, reportage, saggi e trasmissioni giornalistiche che si sono occupate di violenza di genere.
Non ci sono soldi, questo è bene saperlo, ma non si paga per partecipare e in ogni caso già essere pubblicati in cartaceo e digitale (per chi ottiene il primo premio) e ricevere un e-reader per leggere in maggiore scioltezza non è affatto male.
Per ulteriori dettagli c'è un link: qui vi basta sapere che c'è tempo fino a fine anno per mandare i propri lavori.
A mio modesto parere, chi ha qualcosa di significativo da raccontare conviene che si butti a prescindere. Datemi retta: non esiste l'occasione della vita, ma tante mini-chance da... sbranare.
Roar.
Alla prossima.
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martedì 25 aprile 2017
Dal mare a Fermo. E ritorno
Sono un tantino stanca, quindi perdonatemi per il tono un po' dimesso.
Le ultime due giornate sono state piuttosto strane.
La mattina di domenica ho partecipato alla Camminata delle donne con un po' di amiche di palestra e, oltre a fare la figura dell'idiota con lo speaker della manifestazione, con quella storia della colazione sbagliata come causa probabile della mia nausea dopo appena dieci minuti che correvo, ho rischiato pure di mettermi a piangere mentre ascoltavo la testimonianza di una donna che ha scelto di rasarsi a zero piuttosto che mettersi parrucche o fazzoletti per nascondere gli effetti della chemio. Una tizia affianco a me mi ha abbracciato e mi ha sussurrato: "Anche io ci sto passando". Mi sarei voluta sotterrare. Ma da un altro lato, se posso esserle stata di aiuto come spalla, va bene così.
Mia madre non ha perso i capelli, le si erano giusto un pochino diradati. Ma anche questo non è il punto.
Volevo esserci a quella Camminata, che ho scoperto essere legata al reparto di oncologia dell'ospedale di Fermo la scorsa edizione, l'ultima (almeno credo) a Porto Sant'Elpidio, dopo lo spostamento a Lu Portu, la cittadina in cui vivo.
Forse ero in ansia anche per questo motivo e poi perché, in fondo in fondo, sono una persona competitiva. Ho in mente almeno due episodi della mia infanzia che testimoniano il mio desiderio, sempre negato verbalmente, di primeggiare. Ma ve li risparmio.
Spero che la piantina grassa che ho comprato allo stand dell'Anpof (associazione Noi per l'oncologia del Fermano) attecchisca e diventi grande. L'aloe sul balcone dei miei sta magnificamente.
Spero ancora di più che quell'atmosfera gioiosa dell'altra mattina produca effetti duraturi in chi lotta ogni giorno, non solo per via della malattia.
Riesco solo a lanciare preghiere monche e banalotte, ma non ho ricette né strategie generali per affrontare il dolore.
Nella serata di domenica ho saputo della morte di Teo Tini, un bibliotecario di Fermo che ho solo sfiorato negli anni passati, ma che era riuscito a lasciarmi una forte impressione.
Difficile incontrare tutte insieme umanità, intelligenza e ironia: quando capita, non te lo scordi più.
Molto sentiti i ricordi dei suoi amici stamattina durante il funerale: mi ha colpito anche il sacerdote, che ne ha parlato come si farebbe tra intimi, non da un pulpito.
Ho anche avuto la sensazione che nessuno avesse bisogno di nascondersi nel parlare di lui.
Teo evidentemente sapeva leggere negli altri e il risultato si è visto nell'autenticità ritrovata in un rito che troppe volte suona stucchevole.
Il funerale di mia madre non è stato così vero, anche se il parroco, che ne raccoglieva le confessioni e che la conosceva da molti anni, non credo fingesse. Semplicemente non la conosceva davvero perché mia madre era schiva, molto schiva, molto, troppo forse, trattenuta. Non amava fare esibizione di sé, in altri termini, ma spesso finiva per censurare il suo innato istinto da leader.
Mi resterà sempre il dubbio che sia andata davvero così: che si sia ammalata per non aver creduto a sufficienza nella sua naturale capacità di primeggiare. Ma non so, forse proietto e basta quel che leggo in me. Che leader non sono: ho un altro temperamento, nutrito di chiaroscuri come il suo, ma molto più superficiale.
Tornando al bibliotecario e all'immagine che mi hanno restituito i tanti volti afflitti che lo salutavano, penso che lui fosse di una pasta speciale, silenziosa e attenta, che in qualche modo resterà.
Pur nella tristezza della circostanza, sono stata contenta di essere lì e di rivedere vari volti noti dei miei anni trascorsi a Fermo.
Verso il comune sul colle nutro sentimenti ambivalenti: non riesco a non associarlo ai fatti più dolorosi (è inutile negarlo) della mia vita marchigiana, ma d'altra parte, proprio per la loro estrema importanza, ogni volta che ne ripercorro le vie del centro storico, me ne ridiscendo al mare diversa, con un peso specifico maggiore.
Dicevano che Teo si era innamorato del mare di queste zone la prima volta che le vide durante il militare. Qualcosa di simile è successa anche a me durante la scuola di giornalismo.
Mi domando ogni tanto se davvero non sia tutto scritto.
Poi vado avanti, com'è ovvio.
Avverto però, lo ammetto, un legame con i volti, i suoni e le pietre di quelle salite e discese. Sto cercando di metterlo a fuoco, forse per farci pace o per chissà quale altra ragione.
Staremo a vedere.
Per il momento, meglio guardare il mare il più possibile da vicino, sotto quei fuochi che la notte scorsa l'hanno illuminato a giorno, costringendo i miei gatti a nascondersi in fondo al letto.
Ne ho sentito uno con un piede, andando a dormire.
E ho sorriso.
venerdì 21 aprile 2017
La vita che ho deciso arriverà: grazie, Paola Turci
Ho fatto una full immersion nella musica di Paola Turci per motivi di lavoro.
Mi ricordavo perfettamente Bambini che, non so dirvi perché, ma mi ha sempre colpito.
Quasi quasi mi vergognavo ad ammettere che mi piacesse, per quella forma di snobismo di sapore universitario dalla quale faccio ancora fatica a liberarmi.
Ebbene: ora lo dico.
Paola Turci fa un ottimo pop, nutrito tra l'altro da una grande voce e una notevole professionalità.
Ce ne fossero di cantautrici così in questo Paese di dilettanti.
Non che abbia nulla in contrario sul legittimo desiderio di cimentarsi con le arti: l'importante è sapere che c'è una bella differenza tra chi conosce il mestiere grazie anche alla lunga gavetta che la medesima Turci dice di aver fatto, e chi ne fa il più appassionato degli hobby.
Ho scelto questa canzone dell'album uscito lo scorso 31 marzo intitolato Il secondo cuore perché ne cita le parole in un verso. Avrei voluto metterci direttamente l'omonima che ha scritto per lei Enzo Avitabile, ma non sono riuscita a trovarla.
La Turci mi ha spiegato che cosa significhi per lei questa espressione (lo sta dicendo a tutti i media che la stanno intervistando in questo periodo, per la verità), ma io gliela rubo per i miei tristi scopi da blogger.
Non si rinasce, almeno, non si rinasce una volta sola, considera la cantautrice, ma tutto ciò che siamo è frutto di ciò che siamo stati, quindi di continue trasformazioni. O rinascite, se ci piace di più.
Cambiamo, rinasciamo continuamente, fino alla fine, insomma.
Bella scoperta dell'acqua calda.
Può essere. Però è vero che ci sono alcuni momenti speciali in cui avvertiamo più profondamente il processo di cambiamento. O di liberazione da inutili fardelli.
Sento molto questo genere di messaggio nell'album della Turci, indipendentemente dagli arrangiamenti che non sempre mi convincono, in qualche caso usati (a mio avviso) per strizzare l'occhio ai consumatori di radio commerciali.
Mi piace la sua energia, mi ci riconosco, o forse aspiro a qualcosa di simile pure per me.
Credo dipenda dalla sua maturità come donna, penso davvero che il suo "fatti bella per te" possa significare molto per chi sta facendo i conti con il tempo che passa.
Il messaggio sarà anche semplice, detto diversamente, ma funziona, proprio perché detto da questa professionista dello spettacolo.
Il messaggio sarà anche semplice, detto diversamente, ma funziona, proprio perché detto da questa professionista dello spettacolo.
Vent'anni fa, esattamente in questo giorno, mi sono laureata.
Doveva essere una data felice, di quelle che ti proiettano nel futuro.
Ci ho messo almeno una decina d'anni per superare il grosso delle conseguenze della mia prima vera crisi di crescita.
I dieci successivi mi sono serviti per recuperare il sorriso, lo stesso, ebbene sì, che ho visto nelle interviste e nelle clip di questa signora della musica.
I dieci successivi mi sono serviti per recuperare il sorriso, lo stesso, ebbene sì, che ho visto nelle interviste e nelle clip di questa signora della musica.
Non si guarisce mai del tutto, ma niente, davvero niente, resta com'era. Per fortuna.
E' proprio questo passaggio della canzone che le ha scritto Avitabile ad avermi colpito di più.
In questo, secondo me Turci & co ci hanno visto giusto.
Quando capisci che va bene così, in conclusione, ossia quando lasci cadere illusioni e falsi miti, è proprio allora che tiri fuori il meglio di te.
Certo: ci vogliono denari o altro genere di risposte concrete, ma mi sono convinta da sola, già da prima di incrociare Paola sulla mia strada, che predisporsi al cambiamento porta qualcosa.
Ti aspetto al varco, vita che ho deciso.
mercoledì 12 aprile 2017
Mirkoeilcane e i gggiovani (resistenti) dell'Italia di oggi
Vedi i casi della vita.
Intervisto un'artista famosa romana per un'occasione speciale che si è tenuta a Recanati una decina di giorni fa e mi ritrovo impallinata ad ascoltare la musica di Mirkoeilcane.
A parte il nome d'arte che mi lascia un po' perplessa (nel trascrivere i nomi dei sedici finalisti di Musicultura 2017, l'occasione speciale di cui sopra, avevo cancellato proprio il suo, convinta che fosse il titolo di un pezzo, mica un autore in carne ed ossa), di questo cantautore trentunenne romano che nella vita si chiama Mirko Mancini mi convince praticamente tutto.
Perché, ok, non so nulla di musica, suonavo male pure il flauto delle medie, ma è riuscito ugualmente a lasciarmi di stucco il suo talento mischiato a una notevole intelligenza.
Mirko mi ha passato gli Mp3 del primo album omonimo fatto in casa, quindi, secondo quanto dice lui, imperfetto. I suoi testi sono in rima baciata, vagamente rappeggiati in molti casi, in altri dal sound anni Ottanta che fa molto mia adolescenza (e sua nascita).
Ci deve essere anche una ragione inconscia sul perché la sua musica mi abbia colpito così tanto, per farla breve.
La canzone che ascolterete sopra racconta comunque una generazione che non conosco.
Quasi tutti i suoi testi non mi riguardano da vicino, se non per un punto: quel senso di invisibilità che l'autore si sente addosso o che affibbia ai suoi alter ego in musica e che sovente si mescola alla precarietà del lavoro.
A Musicultura Mirkoeilcane ha portato, come tutti gli altri partecipanti, due canzoni: a colpire la giuria è stata la seconda che si intitola Per fortuna, che, obiettivamente, è molto originale. La prima si chiamava Salvatore.
Ed è proprio di questa che volevo parlare.
Il protagonista della favola suonata è un cassiere di un supermercato, uno che batte i prezzi senza un'oncia di entusiasmo, mentre la gente e la vita gli scorrono davanti.
Nel grigiore generale, Salvatore si lascia però ancora un piccolo margine per sognare una via d'uscita, fosse pure solo ideale, componendo le sue canzoni.
Una storia minima, triste e demotivante, direte. Eppure in quelle poche parole c'è tutta la poesia della nuova Italia, fatta di ragazze e ragazzi che, magari il sabato sera, si mettono gli stessi pantaloni e fanno conversazioni banali, ma che in verità sono solo lo specchio di un Paese che vorrebbe distruggerli e basta. Perché tra loro ce ne sono tanti, ne sono certa, che non vorrebbero affatto passare da una serata uguale a un'altra con lo stesso risvolto e mocassini senza calze, a parlare di piastre per capelli o di nuovo look da postare sui social.
Mirko me l'ha detto: è un tipo polemico. Io avrei voluto rispondergli: e meno male.
Peccato che oltre a questo non avrei comunque potuto dirgli altro, se non, forse, di non mollare. Oppure avrei potuto suggerirgli di buttarsi prima possibile sul suo piano B, ossia fare il cittadino del mondo, pagandosi i viaggi lavorando qui e là.
Ma non lo penso davvero.
Secondo me, quel ragazzo, come gli altri (e le altre, ovvio) dotati di qualcosa da dire devono prendersi lo spazio che meritano non dico subito, ma almeno in tempi ragionevoli per non passare direttamente dall'infanzia alla tomba.
Ce la farà, non ce la farà?
Detto diversamente: ce la faremo, non ce la faremo?
Mi sta scoppiando la testa a forza di pensarci, ma temo di non conoscere la risposta.
E se la conoscessi sarebbe sbagliata, come avrebbe detto Quelo.
Ma la stagione non è adatta alla depressione.
Meglio tornare a parlare di rinascite etc etc.
In bocca al lupo a tutti noi.
sabato 8 aprile 2017
Nega, ridi e ama, il consolante (e autentico) libro di Rossella Boriosi
La mia settimana si è aperta all'insegna della confusione e così è andata avanti almeno fino a ieri pomeriggio. Il merito del mutamento in corso (un po' confusa lo sono ancora e d'altra parte lo sono sempre) è del libro "Nega, ridi e ama", di cui vedete sopra la copertina, scritto da Rossella Boriosi.
L'ho acquistato al primo dei cinque appuntamenti di "Non solo rosa", una rassegna di letteratura al femminile organizzata a Lu Portu da un'associazione di scrittrici, blogger e semplici appassionate di parole (European writing women association) con il patrocinio del Comune e dell'assessorato alle Pari Opportunità.
L'avevo preso sospinta da un'istintiva simpatia per l'autrice e per il coraggio, in verità molto naturale, con il quale ha scelto di parlare della sua menopausa.
Il giorno che l'ho vista, peraltro, non avevo idea di che cosa trattasse il suo libro, ma una vocina interiore mi stava dicendo da giorni che avrei fatto bene a leggerlo.
Ieri l'ho divorato.
Al di là dell'argomento in sé, che non nascondo mi spaventi alquanto, ho apprezzato la faccenda delle fasi attraverso le quali dovremmo affrontare tutti i passaggi più difficili della nostra vita.
Rossella raccontava di essersi ispirata alla teoria di Elizabeth Kubler (con l'umlaut sulla u) Ross sull'elaborazione del lutto, un'esperienza che conosco da vicino e che mi fa a tratti ancora male.
Quando ci capita di perdere qualcuno (o, nel caso della fertilità, qualcosa), dice la Boriosi, innanzitutto neghiamo il problema. Poi ci arrabbiamo (seconda fase), quindi cominciamo a farci i conti (negoziazione, terza fase), ci deprimiamo (quarta), ci ripigliamo (accettazione, quinta) e infine, se tutto va bene, rinasciamo.
La sesta fase, se non vado errata, è stata aggiunta dall'autrice.
Avendo scritto per anni su un blog aziendale che parlava di terza età e stili di vita, ho usato (e forse abusato) della parola "rinascita", soprattutto in periodo pasquale. Dopo la morte c'è la resurrezione, appunto una rinascita, una metafora usata non solo nel Cristianesimo per raccontare la ciclicità dell'esistenza.
Sono abbastanza sicura che questa cosa abbia un senso, soprattutto per noi donne. Ed è altrettanto plausibile che una volta superata la fase fertile della vita si vivano altri tipi di ciclo.
Mi piace la visione orientale non medicalizzata della menopausa, di cui parla Rossella. E pure io, in generale, trovo spesso più affascinanti le donne anziane delle giovani. Capisco però quanto sia complicato accettare età e fallimenti veri o presunti quando capisci che tra le gambe, accidenti, il sangue non uscirà più.
Ci si mette un po' ad abituarsi di essere uscite dall'infanzia, il pensiero di essere passate dall'altra parte della vita non è granché confortante, credo, nemmeno per chi pratica il Q Gong con grande impegno occidentalissimo (divertente il racconto che ne fa l'autrice che tenta di sperimentarlo, addormentandosi di brutto, su una spiaggia salentina).
Ragiono sul tempo che passa praticamente da sempre. La perdita di mia madre mi ha dato una scrollata non da poco, ma se negli ultimi due anni ho per lo meno fatto chiarezza su ciò che non voglio diventare di qui a qualche anno, temo di essere ancora lontana dalla rinascita di cui parla Rossella.
Occorre che mi prepari al cambiamento che verrà (ho assistito all'incontro con l'autrice il primo giorno di fiume rosso, ne ho letto le cronache il mese seguente il quarto già in remissione), ma intuisco che sarei davvero una persona nuova se la smettessi di farmi sovrastare dall'ansia.
Anche perché, quando eccedo con la finta organizzazione che do alle mie giornate, succedono cose come quella di ieri, ossia andare a un convegno una settimana prima di quella stabilita dal calendario. Ci rido su, ovvio, ma è stato in quel momento, dopo una passeggiata al sole con le tempie pulsanti per il raffreddore, che ho scelto di infilarmi sotto una coperta e di finire il libro di questa brillante e intelligente scrittrice.
Non si ride a crepapelle: almeno a me non è successo, perché ne avvertivo comunque la sottile nota drammatica. Invecchiare fa schifo, suvvia. Al contempo, mi sono lasciata andare alle sue parole con gentile senso di resa. Se un giorno un'estetista dovesse dirmi le stesse tremende verità sulle clienti post-climateriche non credo che ci tornerei mai più. Anzi: sono ben felice di farmi i peli da sola da tempo immemorabile. Sono ancora traumatizzata da quanto ebbe a dirmi la placida Oriana in merito alle mie cosce forti e un po' ballonzolanti in anni ancora verdissimi: "Mica vuoi diventare come quelle vecchie con le gambe che fanno deleng deleng?". Credo sia stata l'ultima volta che mi ha visto. W il silkepil.
Detto questo, sono grata a Rossella Boriosi per avermi ricondotto alla ragione.
Qualunque cosa farò negli anni prossimi, andrà bene, purché vi sia arrivata con la giusta dose di serenità.
A tutte noi, buone rinascite (alla faccia della retorica).
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martedì 4 aprile 2017
Quello che rimane di te è tanto. Sempre di più (grazie, Julico)
Stamattina ho passato due ore piacevolissime in compagnia di Julian Corradini, alias Julico, un musicista e cantante italo-argentino che ho incontrato per un'intervista che devo ancora scrivere.
Lo ammetto: mi ha conquistata soprattutto per la sua intelligenza e (certo) anche bella presenza. Mi rendo conto che i due aspetti sono profondamente intrecciati in tutti noi, ma in questo trentenne biondo dalla pelle dorata, gli occhi grandi e il fisico ben piantato a terra spiccano particolarmente. Vi assicuro che direi lo stesso se si fosse trattato di una donna: basta vederlo muoversi e parlare per capire di che cosa sto parlando.
Detto ciò, ho scelto questa canzone che già mi aveva colpito prima ancora di conoscerne la genesi per un motivo molto preciso.
Oggi avresti compiuto 75 anni. Stavo quasi per sbagliare il numero, cosa non strana per me, ma piuttosto scioccante lo stesso.
Julian (che bel nome: lo stesso del mio nipote maggiore) mi ha detto di averla dedicata alla sua nonna paterna, cugina del calciatore Omar Sivori.
Quello che rimane è negli occhi, nelle mani e nei colori di chi resta.
Nei miei colori c'è molto di te e più invecchio e più capisco quanta parte di te sia in me.
Nei miei colori c'è molto di te e più invecchio e più capisco quanta parte di te sia in me.
Però la musica che accompagna questo testo a pensarci bene molto malinconico è leggera, ariosa, come eri tu, segno di fuoco di primavera.
Amavi le telenovelas sudamericane e negli ultimi anni ti piaceva pure guardarle in spagnolo.
Mi è venuto in mente proprio adesso mentre scrivo.
Ti avevamo anche regalato un vocabolario e mi pare pure un manuale di questa bella lingua. O forse erano ricette.
Eri curiosa, avresti viaggiato di più, o comunque hai sognato di farlo.
Ho già parlato del bizzarro ritrovamento tra le tue carte più segrete di un poster dell'attore di Cuore Selvaggio, quello che interpretava Juan del Diablo, un uomo scomparso prematuramente, i capelli lunghi e lisci come questo artista oriundo marchigiano.
Ti sarebbe piaciuto conoscerlo, avresti provato la stessa istintiva simpatia che ho sentito io.
La vita è una gran cosa, cara mamma. Non dovevi andartene così presto, ma so che sei stata capace di viverla fino all'ultimo, con una dignità che mi sta ancora insegnando tanto.
Non posso andare avanti.
Quello che rimane è intorno a me, più forte che mai.
Buon compleanno.
sabato 1 aprile 2017
Ciclone Montanini: arrivederci a mai più
Sto cercando di fare ordine tra le sensazioni che mi ha
provocato lo spettacolo di Giorgio Montanini visto ieri sera nel teatro di
Porto San Giorgio.
Ho avuto almeno un paio di volte la tentazione di andarmene
via: del resto, Montanini in persona, comico nato a Fermo nel dicembre del
1977, come si legge nella nota biografica sul sito della Rai per il suo
programma "Nemico pubblico", aveva esortato a farlo nel caso in cui
le sue parole fossero risultate troppo urticanti.
Però non so bene a cosa si riferisse lui, se al cosiddetto
turpiloquio (una parola che amava molto la mia mai giovane prof di greco) o al
senso di superiorità nei suoi confronti capace obiettivamente di indurre in chi
non si scandalizza o finge di non farlo.
Da brava autistica quale sono, se dovessi analizzare
passaggio dopo passaggio il suo show, sarei costretta a dargli ragione su
tutto.
Sul maschilismo dell'Italia, sui luoghi comuni a proposito
dell'esperienza della paternità, sui danni causati da Papa Bergoglio
all'anticlericalismo in particolare dei comunisti (ma direi a tutto il mondo
radical chic nel quale per molto tempo ho creduto di poter entrare pure io),
sul razzismo e la mediocrità della massa e via discorrendo.
Resta però il fatto che ascoltarlo e guardarne il corpo
appesantito sulla scena non mi ha dato alcun piacere.
Anzi. Mi ha reso triste e incazzata. O forse l'ordine è alla
rovescia.
Alla fine sono rimasta, facendo barchette di
carta con i pezzi del biglietto, sovrastata in certi istanti dalla disperazione di essere lì e non da tutt'altra parte.
Sono sicura che abbia fatto tanta gavetta e che meriti di
avere una chance, ma alla conclusione buonista sono arrivata solo a chiusura
dello spettacolo quando ha ringraziato il pubblico parlando finalmente in italiano
(il comico Francesco Capodaglio, con il
suo sketch in sangiorgese stretto, mi ha fatto ridere più di lui, detto tra noi).
Mentre lo ascoltavo concionare in vernacolo, mi domandavo se
lo stia usando anche nel tour nazionale in cui è impegnato in questo periodo.
Per carità: è pieno di gente di palcoscenico che usa il dialetto ed è anche
vero che certi concetti passano meglio se espressi nella lingua madre.
Resta pur sempre il fatto che un intero spettacolo in
fermano (ma per me sarebbe stato lo stesso se fosse stato in abruzzese, la mia
lingua madre) mi ha dato il colpo di grazia.
Sì. Credo che su tutto quel che più ha ferito la mia idea di
bellezza demodé sia la rozzezza modernissima di questo esponente della stand up
comedy all'italiana. Si capisce che ha talento e professionalità e non posso
negare che abbia qualche ragione a sottolineare l'ipocrisia di chi gli ha
chiesto di mettere l'avviso vietato ai minori come sottopancia al suo show, al
contrario di quanto capita con politici e portaborse di ogni risma liberi di dire
impunemente qualsiasi oscenità.
Però mi sono sentita violentata e stamattina ho pianto come
non mi capitava da un po'. Sarà colpa del ciclo o del climaterio incombente
(femmina, pure anziana, eh lo so, triste destino nascere in Italia), ma non
prevedo di rivederlo a breve.
Ho bisogno di bellezza, lo dicevo prima, e soprattutto di
speranza. Cerco ogni giorno di vincere il dolore e la morte concentrandomi sui
segnali di vita che vedo intorno a me.
Di sicuro lo farà nel suo privato anche questo comico
quarantenne con la figlia e la compagna: per fortuna la realtà non ha mai una
sola faccia. E so anche, o comunque lo immagino perché ci sono passata pure io,
che perdere un genitore quando sei ancora abbastanza nelle pesti è un colpo
piuttosto duro.
Le sue battute ciniche sul cancro ne allevieranno un po' la
rabbia.
Solo che l'ha passata a me.
E questo proprio non glielo posso perdonare.
sabato 18 marzo 2017
Letteratura e ironia in rosa a Lu Portu: una rassegna che merita
Ho scattato la foto che vedete sopra in occasione dell'inaugurazione della "Panchina rossa" contro la violenza sulle donne voluta dall'amministrazione comunale di Porto San Giorgio (in collaborazione con il liceo artistico e la Pro Loco della città) come colorato ammonimento a tutto il genere maschile a tenere mani (e altri arnesi) a posto.
Ho scelto l'immagine per introdurvi il pezzettino che vi riporto pari pari sotto, dedicato a una rassegna di letteratura al femminile chiamata "Non solo rosa", in corso in questi giorni nella località adriatica in cui ho scelto di vivere. L'avevo scritto per il Corriere Adriatico che poi non l'ha pubblicato per ragioni di spazio.
Mi pareva brutto che andasse sprecato visto che giusto stasera alle 18.30 si tiene il secondo incontro.
Magari a qualcuno fanno comodo le noterelle della sottoscritta.
Guardate sotto e, se vi va, andate. Buon fine settimana, amiche e amici.
Chi l'ha detto che
le donne non sappiano ridere di loro stesse? Se ancora ce ne fosse bisogno, a
dimostrarlo sono le cinque autrici invitate a Porto San Giorgio per la rassegna
<<Non solo rosa>>, curata dall'assessorato comunale alle Pari Opportunità
in collaborazione con l'European writing women association, di cui sono
responsabili per le Marche Christina Assouad ed Eleonora Vagnoni. Dopo la
simpaticissima Rossella Boriosi e il suo racconto tragicomico sulla menopausa,
oggi, alle 18.30, approda alla sala Castellani Federica Bosco, con la sua cura
<<detox>> per disintossicarsi da un'emergenza d'amore. Alla
sceneggiatrice e scrittrice milanese, classe 1971, tocca quindi il compito di
erudire la platea sulle migliori strategie per liberarsi da questo sentimento
così zavorrante (e altrettanto, ahinoi, indispensabile). Si tratterà, c'è da
scommetterlo, di tecniche fondate sull'ironia, vera e propria cifra stilistica
della Bosco, autrice di bestseller come <<Il peso specifico
dell’amore>>, <<Non tutti gli uomini vengono per nuocere>> e
<<Pazze di me>>, quest'ultimo diventato un film con la regia di
Fausto Brizzi.
Dopo la scrittrice
milanese, la rassegna proseguirà il prossimo 25 marzo con Stefania Bertola e il
suo <<La ragione e il sentimento nelle donne di oggi>>. Poi, sabato
1 aprile è la volta di Sara Porro con <<Prenotazione obbligatoria: vagabondaggi
di gusto A/R>>. Infine, il 29 aprile la chiusura è affidata ad Alice
Basso che parlerà di <<Scrivere è un mestiere pericoloso soprattutto se
si è donna>>.
Tutti gli incontri
sono fissati alle 18.30, ospitati sempre nella sala Castellani di corso Castel
San Giorgio, appositamente rinnovata per la rassegna, come ha sottolineato
l'assessore Catia Ciabattoni durante l'apertura dello scorso otto marzo. Al
termine delle conferenze è previsto un piccolo rinfresco. Ulteriori
informazioni al numero 347/7208544.
martedì 14 marzo 2017
Sì al crowdfunding per Mise en Abyme!
Non mi piace auto-promuovermi (sono la donna anti-marketing per eccellenza), ma in questo caso lo faccio per una buona causa.
Ho scritto l'articolo che vedete sopra per aiutare i due giovani miei concittadini espatriati a completare la raccolta fondi online per lanciare il cortometraggio intitolato - misteriosamente e fascinosamente - Mise en Abyme.
Sono rimasta molto colpita innanzitutto dalla combattività e dall'entusiasmo del regista Edoardo Smerilli e del suo coproduttore nonché amico d'infanzia Riccardo Gaspari. Fossi stata così io a venticinque anni avrei spaccato il mondo. O forse no. Ma questa è un'altra storia.
Ho però deciso di ripubblicare qui il testo originale del pezzo per dare la possibilità a chi vorrà sostenerli di andare direttamente da qui sul link della loro campagna. C'è tempo fino al 31 marzo per portarla a termine (e, magari, superarne il limite minimo).
Coraggio: sosteniamoli tutti. Se lo meritano. E noi ci meritiamo di andarli a vedere al cinema!
Surreale e super-tecnologica è la farfalla protagonista di
"Mise en Abyme", il cortometraggio del venticinquenne sangiorgese
Edoardo Smerilli, volato a Praga per un master in sceneggiatura in una
prestigiosa scuola di cinema (la Famu), dopo la laurea al Dams di Bologna. Per
poterne apprezzare le oniriche evoluzioni e scendere nell'abisso con il
protagonista del film, serve un ulteriore sforzo economico da parte di tutti,
volendo anche dei concittadini del giovanissimo regista. Smerilli ha infatti
attivato una campagna di raccolta fondi online - meglio nota come crowdfunding
- per raggranellare gli ultimi ottomila euro che gli serviranno per ultimare la
costosa post-produzione. Per seguirne l'evoluzione (e dare il proprio
contributo) basterà cliccare su Mise en Abyme.
<<Siamo già arrivati al 70% della raccolta: c'è tempo fino al 31 marzo
per completarla>>, precisa Riccardo Gaspari, l'altro venticinquenne
sangiorgese coinvolto nell'avventura di Smerilli, manager a Dubai per
un'azienda tedesca di e-commerce. <<Amo il cinema e sono molto amico di
Edoardo, così ho deciso di mettere a disposizione le mie competenze
universitarie e lavorative per aiutarlo a realizzare il suo progetto>>,
precisa Riccardo. Chiaro che il sogno di entrambi è di andare ben oltre
l'obiettivo minimo fissato dal crowdfunding: <<Con quegli ottomila euro
le sette-otto persone impegnate nella post-produzione prenderanno giusto
qualcosa di simbolico>>, sottolinea a sua volta Edoardo, che non riesce a
spiegarsi come mai in Italia siano ancora così poche le persone che fanno
ricorso alle campagne online di raccolta fondi. <<Nella mia scuola di
Praga siamo stati selezionati in venti: quasi tutti hanno usato il crowdfunding
per i loro progetti>>. Sulla stessa lunghezza d'onda è Riccardo, che
parla di <<start-up>> partite proprio con questa via, oltre che di
<<campagne che hanno raggiunto anche il doppio di quello che avevano
chiesto>>. Se accadesse così anche a Mise en Abyme, ammettono i due
ragazzi, <<potremmo andare oltre il cortometraggio>>. Tutti e due,
in ogni caso, restano saldamente ancorati a terra quando spiegano che cosa si
andrà a finanziare con il denaro raccolto: oltre a quello per le risorse umane
coinvolte e per avviare una strategia di distribuzione <<efficace e
pervasiva, ciò che ci manca sono i finanziamenti per le render farm>>,
scrivono nella pagina Web della loro campagna. Più nel dettaglio, Edoardo
precisa che con quel denaro sarà possibile <<processare e rendere realistici>>
tutti i dettagli della città vista dall'alto costruita totalmente in 3D, come
la farfalla blu che dà il via alla storia: <<Render farm significa
letteralmente 'fattoria per processare', ossia veri e propri palazzi pieni di
computer impegnati a restituirci tutti i particolari della città>>,
aggiunge il regista. Un lavoro enorme, insomma, che Edoardo e il suo team
complessivo di una trentina di persone, comprese le società Maxman Soc. Coop e
Bloomik Creative & Post Production Studio, che stanno partecipando alla post-produzione,
hanno avviato quasi un anno fa e che si spera li porterà a debuttare nei
festival del cinema più importanti. <<Fino a quel momento non possiamo
mostrare nulla del film, anche se i feedback che ci sono arrivati anche via
Facebook su quel che abbiamo potuto diffondere sono tutti positivi>>,
racconta Edoardo, convinto, tanto quanto Riccardo, di aver fatto un grande
lavoro, dalla sceneggiatura (ispirata a una novella di Philip K. Dick) alla
tecnologia: <<La nostra - concludono - è sicuramente una novità
interessante nel mondo dei cortometraggi, in Italia e all'estero>>.
domenica 12 marzo 2017
Libri, teatro e persone: che spettacolo!
E rieccomi qui dopo mesi e mesi. Vi sono mancata? Ne dubito.
Ho deciso di usare il mio vetusto blog per parlare di alcuni incontri davvero speciali.
La signora bionda sulla sinistra della foto che sta scrivendo un autografo a uno dei suoi numerosi lettori è Cinzia Tani. Quella a destra è Mirela Di Chiara, la libraia di Porto San Giorgio che mi ha permesso di conoscerla.
Come è stato possibile? Presto detto. La scrittrice e giornalista romana (ma, ho scoperto, con sangue abruzzese nelle vene) era stata invitata a presentare il suo nuovo romanzo "Il Capolavoro" nel Mondadori Bookstore gestito dalla mia amica, a sua volta coinvolta in "Libro, che spettacolo!", una manifestazione nata dieci anni fa per promuovere la lettura e il teatro.
A mancare nell'immagine è proprio l'ideatore dell'iniziativa, ossia Pier Paolo Pascali, il funzionario dell'Associazione generale italiana dello spettacolo, che ha aperto il pomeriggio con Cinzia.
Il momento che ho immortalato è però successivo all'incontro da Mirela.
Dopo un aperitivo tanto buono quanto rapido, noi tre donne siamo corse in negozio per recuperare i libri da portare nel foyer del teatro comunale, giusto dieci minuti prima che il fantastico Pier Paolo prendesse la parola sul palcoscenico per presentare di nuovo Cinzia, cui era affidato l'arduo compito di spiegare in dieci minuti in che cosa consistesse il suo nuovo libro.
Sono rimasta attaccata alla parete in fondo alla platea per vedere come l'avrebbe fatto.
Ho cercato di carpire ogni parola e gesto di questa donna alta e longilinea dal sorriso energetico.
Cinzia è partita dal 1947, l'anno in cui si apre il romanzo, scelto, guarda caso, anche dalla compagnia di Davide Anzalone per la propria, originalissima, rivisitazione di "Arlecchino servitore di due padroni".
L'Italia è un paese piccolo e stanco, capace però inspiegabilmente di partorire ancora menti vivaci e generose.
"Zanza" era venuto in libreria per parlare del suo "Arlecchino", dicendoci che è giunta l'ora di tornare al racconto corale: basta con tutti questi monologhi tristi.
Non ho avuto il tempo di parlarci, ma ringrazio tanto anche lui per il coraggio con cui porta in scena le sue braccia svirgolanti e la sua straordinaria simpatia. Bravissimi davvero tanto anche i suoi attori.
Mi fermo perché vorrei evitare di scadere nella retorica.
Concludo solo dicendo di aver imparato molte più cose in un pomeriggio/sera di quante ne ho apprese in anni e anni da blogger.
Ed è questa una delle ragioni per cui ho diradato moltissimo i miei scritti ombelicali.
Ho capito di avere bisogno di accumulare vita per poter scrivere in modo diverso.
Per poter fare sul serio.
Mio padre oggi mi ha detto una frase bellissima: "Il vento sta girando e finalmente è a tuo favore".
Non so se sia un suo auspicio di padre e basta, ma comunque mi ha fatto molto bene sentirlo da lui.
Farò di tutto per assecondarlo, caro papà.
Dovunque mi porti.
Vi lascio con una canzone dei Simple Minds che accompagna molte mie corsette di questi giorni (a proposito: correre, che gran cosa).
Qualcuno arriverà, qualcosa accadrà.
In summertime.
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