domenica 12 febbraio 2012

Sorrisi di una mezza mattina siberiana



E adesso quel cumulo è ancora più alto: per dare l'idea delle proporzioni, l'ho fotografato di nuovo con la gattina che guarda verso l'alto per tentare di scrutare verso l'orizzonte, decisamente inaccessibile a una creaturina (teppa, ma pur sempre piccola) come lei. Però non ho ancora scaricato la foto, quindi ne ho riciclata una vecchia, si fa per dire, visto in che condizioni siamo a distanza di dieci giorni dalla prima bufera.
Giuliano il Muratore ci è salito sopra, passando dal nostro davanzale, per liberare la grondaia paurosamente appesantita dal ghiaccio. Il risultato qual è stato? Che il cumulo sottostante più quello di una trentina di centimetri buoni creato dall'ultimo blizzard (mortacci all'inglese) hanno prodotto un ammasso bianco alto praticamente come me. Vabbè, ci vuole poco, però non è molto simpatico dover prendere il panchetto poggiapiedi, che utilizzo per scaricare meglio il peso delle gambe quando sto al computer, per guardare lontano assieme alla mia gatta.
Ma qui volevo parlare della nevicata del '56, che io ben ricordo.
E come no? Me l'ha chiesto Giuliano il Muratore se ai tempi ero bambina.
Lo stesso che lo scorso maggio mi aveva domandato, vedendomi con lo zainone sulle spalle, se per caso stessi andando a "lu campu", forse per una gita con i lupetti. In quell'occasione, infatti, mi aveva chiamato "signorina", come fa praticamente sempre quando mi trova in casa da sola. Se invece c'è mio marito, allora, forse, si ricorda che devo avere una certa età. Giuliano il Muratore ha un senso del tempo piuttosto elastico.
D'altra parte, doveva trovare pure un appiglio per ritirare fuori la nevicata epocale, precedente all'attuale, almeno nei ricordi dei più anziani. Qualcun altro, invece, ha parlato di quella dell'85 e di quella del 2005 un gruppo ancora più sparuto, composto, per la precisione, dal tabaccaio precedente inquilino del nostro attuale appartamento, un ragazzotto tanto buono ma tanto, tanto, triste e dal nostro proprietario, un uomo un fermano. Quest'ultimo si è soffermato anche sulla qualità dei fiocchi della nevicata che ha inaugurato i miei anni in terra marchigiana, molto più grossi di quelli attuali, quindi capaci di fare volume assai più in fretta. In effetti, non avevo mai visto fiocchi così fini e così insidiosi. Quelli del 2005, invece, onestamente non li ricordo, ma gli credo sulla parola.
Però, lo confesso, queste chiacchiere meteorologiche mi annoiano mortalmente.
Succede un po' come con le foto o con il giornalismo: ti si parano davanti una serie di esperti da fare impressione. Ma dove avranno imparato così tanti segreti sulla luce più giusta o sulla vera fonte di una notizia?
Ma come faranno a dare un'opinione proprio su tutto con tanta sicurezza?
Beati loro, ma veramente. Chi è sicuro di sé, normalmente, vive meglio.
Per quanto ne so io, non ho ancora chiaro quando (e se!) ne usciremo: ora ha ripreso nuovamente a nevicare.
Certo, debolmente, ma quanta incertezza dà sentirsi del tutto in balìa della natura.
Un mio amico di Facebook dice che la neve ci ha imposto ritmi più lenti, che avvicinano le persone. La frase non è sua, ma di una sua amica, in vena di romanticherie. Considerazioni del genere da gente abituata a usare l'auto pure per fare cinque metri mi danno veramente noia, ma in questo caso non conosco bene il tipo né la sua amica, quindi gliele lascio passare.
Per me, che non esco abitualmente da casa per andare a lavorare da qualche altra parte, non è che sia molto cambiato il mio modo di vedere gli altri o la vita. Però riconosco che ci si sente un po' più sollevati, un po' meno in colpa di non poter fare di più.
Quando tutto questo sarà finito (perché un giorno dovrà succedere. Tutto arriva), torneranno i vuoti e l'irrequietezza congenita (ho rubato la parola alla mia amica scrittrice Loretta e al Chatwin cui avevano paragonato tre suoi racconti).
Perciò conviene godersi questo momento ancora un po'. Come diceva Greta Garbo in Ninotchka: "La rivoluzione arriverà, ma non subito, per favore".
Meglio sorridere.
Di noi, innanzitutto, e di quel che sarà.

martedì 7 febbraio 2012

Fuga in rosa dall'Italia mammona (e sfigata)


Sapete che vi dico? Ha ragione Cancellieri. Che cosa? Come oso uscire dal coro di dissenso e scherno verso l'ennesima infelice uscita di uno dei nostri governanti?
Perché conosco i maschi italiani. Quelli medi e quelli speciali. Sì, perché la frase pronunciata da quella donna anziana, con la faccia da mamma nazionale, era sicuramente rivolta alle signore di pari ruolo (che poi molte di loro, compresa la ministra, ricoprano posizioni di potere in questo caso non c'entra).
Cancellieri, molto probabilmente, ha figli maschi; o, se non li ha, ce li ha sua sorella o qualche altro stretto consanguineo. I figli maschi vanno vezzeggiati fino a 69 anni, come direbbe Marco Presta (ma pure dopo, in caso di estrema longevità di mammà).
Ed è inevitabile, date queste premesse, che carni delle proprie carni cresciute così poi non abbiano alcun desiderio di allontanarsi (almeno non troppo) dal tetto natìo.
Tutt'altro discorso vale, invece, per le femmine italiane. Almeno, per quelle che hanno avuto la fortuna di andare a studiare fuori, grazie al denaro familiare (nel sud Italia, fino a pochi anni fa, funzionava in questa maniera anche tra le famiglie piccolo-borghesi come la mia) oppure per estrema cocciutaggine e perseveranza (ho una cugina, più povera di me, almeno nell'infanzia, che ha cominciato a lavorare a 19 anni in una banca toscana, ma, nonostante il monotono posto fisso, ha voluto a tutti costi laurearsi, riuscendoci a pieni voti).
E però, dall'altra parte, nella regione in cui sono venuta ad abitare, una magnifica area italiana del centro, fino a qualche anno fa non c'era granché necessità di emigrare per trovare lavoro. Qualcosa di simile succedeva anche in Toscana: non a caso, nella facoltà che ho frequentato io, una di quelle deboli che preparano futuri disoccupati, il grosso degli studenti era del posto o dei comuni limitrofi.
I "terroni", maschi e femmine, erano iscritti per la maggioranza alle facoltà scientifiche.
Se mi baso su quanto osservo qui, qualcosa mi dice che adesso sia cambiato tutto anche lì.
Per lavorare, bisogna per forza allontanarsi dalla mamma. Per andare dove? Di certo non a Milano o Torino, come si faceva una volta.
Chi ha coraggio ed energia dovrebbe imparare il cinese (l'indiano, l'arabo) e andare. Andarsene. Molti lo stanno già facendo.
Tornando in treno dal mio unico viaggio lungo degli ultimi tempi, ho incrociato due giovani, belle ragazze piene di progetti per il futuro. La bionda faceva esercizi di grammatica araba, la mora parlava di Sudamerica.
Ho provato una grandissima invidia per loro. Qualcosa di simile mi è successa di recente nei confronti di un giovane fotografo, da poco ripartito per il Brasile. Per me, quest'ultimo è un "eccezionale" maschio italiano, ma bisognerebbe vederlo alla prova del tempo.
Ne conosco molti altri, infatti, che non si sono mai spostati da casa propria, se non per temporanee, adolescenziali, escursioni verso la "vita vera".
Perciò, Cancellieri, hai ragione tu: visto lo stato deprimente in cui versa la patria, bisognerebbe andarsene via. Per la precisione, dovrebbero andarsene in massa le donne italiane, l'unico vero Made in Italy capace di "riprodursi" anche all'estero. Ho letto dell'idea di una mia cara amica di Milano di aprire un bar a Goa. So che l'ha scritto tra il serio e il faceto, ma penso, con tutta me stessa, che un paese come questo si meriterebbe se le donne che hanno ancora un po' di forza (soprattutto ideale) d'inventarsi un futuro se ne andassero tutte in luoghi in cui quest'ultimo sia ancora possibile.
Una volta partite loro, infatti, si trascinerebbero dietro i maschi italiani di ogni età. Con il rischio, certo, di ri-radicarli di nuovo nella patria adottiva e di tramandare i cattivi usi nazionali agli eredi (maschi).
L'ultima frase è scherzosa. Non c'è infatti niente di sbagliato nell'umano desiderio di mettere radici, per chi lo prova. Come mi ha detto un pediatra che ho intervistato tempo fa, è più che logico che le famiglie di nuova formazione vogliano stare vicino ai nonni: una volta si viveva tutti nelle grandi case familiari, dandosi vicendevolmente una mano nelle difficoltà. Oggi si abita in posti diversi, ma si ha l'identico bisogno di sostegno psicologico e materiale. Anzi. Oggi è anche peggio, mancando un Welfare adeguato a una società (bene o male) avanzata com'è quella italiana.
E quindi? Quindi nulla: la soluzione non cambia. Semplicemente, le donne italiane ancora dotate di coraggio ed energia dovrebbero emigrare e poi portarsi dietro nonne, zii e zie rimasti da soli.
Come si dice, scripta manent: chissà che non mi venga davvero voglia di comprarmi una grammatica cinese.
In ogni caso, spero, con tutto il cuore, che i giovani veri (di certo io non lo sono più: lo dicono le offerte di lavoro, sempre più umilianti, per tutti gli over 35. Peccato che non ne abbia già 55, almeno potrei concorrere per quelle. In verità, io non mi sento vecchia per niente. Anche per questo motivo, fanculo a questo paese che ti fa sentire tale) abbiano un sussulto di orgoglio vero e prendano atto che qui, in questo momento storico, per loro non c'è futuro. Per ricrearlo, dovrebbero mandare a casa questa classe dirigente vecchia (dentro e fuori), a tutti i livelli, compreso il cugino vigile urbano che ti toglie la multa o il sindaco di collequalcosa che ti trova un lavoretto. Finché non usciamo dalla logica dell'arrangiarsi a spese della collettività, infatti, non c'è alcuna speranza che le cose possano cambiare.
E chi non lo capisce (o fa finta di non capirlo) è sì sfigato e mammone.
Perciò, vecchia ciabatta di ministra, non scusarti. Semplicemente, fatti da parte. E con te, si facciano da parte tutti quelli che aspirano, semplicemente, a mettersi al posto tuo senza merito, bensì solo grazie alla spintarella giusta del barone/essa di turno.
Nell'attesa, imparerò tutti i segreti della cucina cino-pakistana.
Ma il curry mi resta un po' indigesto.

domenica 5 febbraio 2012

La neve e la stupidità dell'uomo

A essere romantica è romantica. Però, francamente, adesso basta.
E invece pare di no.
Sembra che domani riprenderà a nevicare. E va bene, impareremo a conviverci.
D'altra parte, non ho molto lavoro, e quello che ho lo svolgo già normalmente da casa. Il frigo è pieno e di maglioni ne ho abbastanza. Ho rincollato i doposci, posseggo anche parecchi cappelli e paia di guanti.
Insomma, non mi lamento.
Sì, la mia vita è abbastanza monotona (di certo non per via del posto fisso), ma poi ci pensa il mio carattere a smuoverla un po'.
Non mi arrendo facilmente, ma davanti alla stupidità, la piccineria e la cattiveria, a volte, vacillo.
Hanno rubato il telo che copriva la vespa di mio marito. Ieri mattina, contenti di mettere finalmente piede fuori per la prima passeggiata sotto la neve, abbiamo fatto l'antipatica scoperta.
Perché l'hanno fatto? Ovvio: per scivolarci sopra. Abitiamo su una strada in discesa, bella lunga, cosa può esserci di meglio di un telo impermeabile? Peccato che costasse quasi cento euro e che la nostra situazione economica non riluca come l'oro. In verità, anche se fossimo stati Rockfeller, lo sconcerto per l'indebita sottrazione non sarebbe stato minore.
Io, noi, non prenderemmo mai qualcosa di qualcun altro oltretutto per un motivo così futile.
E non si può essere sicuri che si sia trattato di qualche sciocco ragazzino, dal momento che, durante la notte (hanno continuato a scivolare fino all'alba, impedendoci di dormire. Non mi pare che nessuno si sia rotto una gamba. Ma tutto può ancora succedere. Mi seccherebbe solo essere acusticamente ferita dalle sirene di un'ambulanza), abbiamo sentito mature voci bestemmiare per via di improvvide cadute (o scivolate troppo rapide) sul ghiaccio.
Insomma, ci hanno rovinato l'atmosfera siberiana, così carica di poesia.
Che fatica tenersi su.
Corro a controllare la carne in forno, che è meglio. Magari con una cenetta decente dimentichiamo lo sgradevole episodio.
Ve l'ho detto che sono una che non si arrende, no?

giovedì 2 febbraio 2012

Fisica o chimica, il telefilm spagnolo che mi aiuta a guardare al futuro


 Ieri pomeriggio, in preda a una crisi di cervicale provocatami anche dagli esercizi di ginnastica (accidenti alla mia mania di strafare!), ho fatto un po' di shopping.
Vestendomi, ho scelto di tirare fuori dal cassetto la mia camicia di marca "Desigual", coloratissima, mettendoci sopra il maglione giallo senape e ornandomi con gli orecchini a tre pallini rossi, fatti a mano da un'artista locale. Sotto, ci ho abbinato i jeans a zampa di elefante e gli scarponcini vecchissimi ma griffati.
Conciata così (con un po' di trucco, compreso il rossetto Yves Saint Loraint di mia madre), sono entrata in un negozio del centro commerciale e mi sono lasciata abbindolare da una spagnoleggiante commessa con visino furbo. Volevo comprarmi solo un paio di pantaloni, invece sono uscita anche con un vestititino di lana quasi amaranto e un maglione marroncino caldo e luminoso. Più (dimenticavo!) una cinta molto modaiola, di quelle alte, che si mettono sopra i maxi pull per sottolineare i fianchi.
A parte i capelli elettrizzati e l'aria imbarazzata che provo sempre quando mi osservo negli specchi dei negozi, ero molto soddisfatta. Rimirandomi, mi sono vista per un secondo molto simile a Paula (anche se vorrei dire Ruth!), una delle attrici (la piccolina...) che recita in "Fisica o chimica", un telefilm spagnolo che guardo da un mesetto tutti i pomeriggi, ambientato in una scuola d'arte.
Sono perfettamente consapevole che si tratti di roba per adolescenti (se non fosse che la Rai l'ha fatto precedere da un'ipocrita scritta "adatto a un pubblico adulto"... ma perché?), però mi piace. Un sacco, aggiungo.
Perché? Me lo sto chiedendo da un po' e forse oggi ci sono arrivata.
Innanzitutto, perché mi fa pensare a un periodo della vita indimenticabile, in cui tutto deve ancora accadere ma al contempo in cui tutto ciò che accade sembra enorme, anche quando, come si vede nel telefilm, si tratta di cotte passeggere. In più, gli sceneggiatori hanno avuto l'idea intelligente di inserirvi discussioni sull'intolleranza, sull'omofobia, sulla droga, sul sesso e sulla religione. Insomma, le vicende narrate (a parte qualcuna, obiettivamente un po' troppo esagerata) sembrano vere o comunque verosimili.
Interessante è anche il confronto tra le vite degli studenti e quelle dei loro professori, questi ultimi a volte più infantili dei primi. Il prof d'arte, ad esempio, con quegli occhioni neri neri, mi ricorda un mio amico che lo fa nella vita e che, come quello del telefilm, consuma maria... insomma, a turno tutti i personaggi mostrano le loro fragilità o il loro coraggio, sprizzando una vitalità che li rende molto accattivanti.
Mi sono chiesta: ma gli spagnoli saranno tutti così? Perché, se fosse, sarebbe da trasferirsi nel paese dei nostri cugini latini prima possibile.
Ragionandoci su, naturalmente, capisco che sia un'illusione, simile a quella che si prova quando si guarda un film in bianco e nero e si crede che ai tempi davvero tutti indossassero panama e impermeabili alla Bogart.
Eppure, è bello sognare, partecipare alle loro vicissitudini (ma davvero Julio è diventato un naziskin e davvero quel bel faccino di Quino ha fatto voto di castità fino al matrimonio? E la bellissima Irene troverà pace finalmente? E i miei capelli sono proprio uguali a quelli di Clara?).
Addirittura, più di una volta mi sono messa a piangere, giuro! Sarà la menopausa incombente, chi lo sa, fatto sta che mi trasportano lontano e insieme risvegliano la mia parte emozionale, così bisognosa di novità, di colore e sì, anche d'intensità.
Sarà che il presente è difficile e che il futuro non pare promettere molto di buono; comunque sia, guardandoli, sorrido di com'ero un tempo e di come sono diventata. Come sono diventata, direte voi (i pochi che mi leggono)?
A parte la somiglianza attuale con Susanna (dei formaggini), sono diventata fatalista e meno ansiosa (ma sì) e con una gran voglia di prendere in mano davvero le redini della mia vita.
Davvero. Non ho più paura: avrei solo bisogno di una spinta iniziale, da parte di qualcuno che sia disposto a darmi credito, qualcuno che mi aiuti a ributtarmi nel presente. Potrebbe non arrivare mai, lo so bene, ed è per questo che intanto guardo il telefilm: almeno, mi aggrappo a una possibilità di futuro. Un futuro più simile a me e ai miei sogni, se possibile. Lo è? Lo è ancora, nonostante tutto?
Me lo auguro con tutta me stessa.

ps Per favore, caro il mio atteso deus ex machina (maschio o femmina, non importa), potresti indossare qualche bel vestitino spagnolo con calzature adeguate (magari un bel paio di Camper?). Dai, dai... muchas gratias y hasta suerte (?), amigo/a.

martedì 31 gennaio 2012

Muccino e il masochismo

Diceva il saggio che bisogna piangere solo se stessi quando si è causa del proprio mal.
Non esiste frase più appropriata di questa per commentare le due inutili ore che ho trascorso ieri sera davanti alla tv, a guardare che cosa? "Ricordati di me". E dire che ormai, in certi ambienti, quelli più radical-snob, si usa proprio citare i film di Muccino per descrivere situazioni inverosimili o surreali riferite, naturalmente, sempre a qualcun altro. Perché nella nostra vita quotidiana, consideriamo, quando mai ci sono capitati fatti anche solo lontanamente simili a quelli rappresentati sullo schermo?
Quel che mi fa più tristezza, però, è che temo che da qualche parte, al contrario di quanto sosteniamo noi, "fini intellettuali" (veri) proletari, vicende similari a quelle raccontate dal nostro italico regista, succedano davvero.
Sì, perché le famiglie con madre e padre professionisti, una bella casa e figli adolescenti dall'encefalogramma piatto, esistono sul serio. Esistono ancora. Altrimenti, non si spiegherebbero neanche "Un posto al sole" o il redivivo "CentoVetrine", quest'ultimo in particolare capace di farmi sganasciare dalle risate per quanto è brutto. E però, le soap opera non hanno la pretesa di proporsi come cinema d'autore e hanno il pregio della brevità, un elemento che rende davvero spassosi i pochi minuti che ogni tanto trascorro nell'annotare per l'ennesima volta l'improponibilità delle loro sceneggiature e le canidiche interpretazioni.
Nel caso di Muccino, invece, quel che mi turba è che lo si spacci per buon cinema italiano. "Il" buon cinema nazionale, anzi.
Ora, siccome so di essere tremendamente selettiva, per una volta, devo essermi detta, proviamo a vedercelo questo Muccino (lì per lì pensavo fosse Virzì, a dirla tutta): magari mi ricredo. Magari mi convinco anch'io che sì, Muccino è davvero un grande e io sono la solita rompipalle altezzosa.
Il risultato? Sono andata a dormire con un fastidio in tutto il corpo e pure con una leggera nausea.
Mi sono ricordata di quando, da ragazzina, ho passato qualche tempo a leggermi un racconto d'amore su "Intimità della famiglia", una rivista che circolava a casa mia, quando mia madre aveva, credo, all'incirca l'età che ho io adesso. Era terribile, anche se adesso non rammento più di che cosa trattasse. Ho solo ancora nella memoria quel certo abbrutimento che si prova quando si passa del tempo in un'attività oziosamente dannosa.
Ecco. Ieri sera mi è successo qualcosa del genere. E pensare che avevo un bel libro da leggere, magari cullata da un piacevole sottofondo musicale. Da dove viene tanto masochismo? E' anch'esso un retaggio dell'educazione cattolica che a volte mi appesantisce passo e pensieri? Chi lo sa.
Se però ho deciso di fissare questi rovelli sulla carta, è proprio per cercare un antidoto alla mia connaturata tendenza a farmi del male.
Meglio, di gran lunga, qualunque telefilm americano (ma pure una fiction tedesca, all'occorrenza) di un "buon film" italiano. Se poi, per pura casualità, dovessi incapparne in uno decente, non mancherò di riportarlo.
Ma per il momento, direi che ho già dato.

domenica 29 gennaio 2012

Faccia da formaggino

Ho ritagliato i capelli.
Nel mio intento originario, avrei dovuto darmi una spuntatina o scalatina, se vi piace di più.
Invece, che è successo? Ho visto su "La Repubblica" la fotografia di una disegnatrice francese, ora ultrasettantenne, all'apice del suo splendore di giovane donna.
E ho fatto la cazzata.
Innanzitutto: io NON sono più una giovane donna, o, se lo sono, è solo perché, per fortuna, l'età media si è allungata e vivo in Occidente.
In secondo luogo, anche sforzandomi un po' di più di come già faccio, non sono chanteuse come la disegnatrice di cui sopra, che, a proposito, si chiama Claire Bretecher.
Infine, anche ammettendo (come in effetti ammetto) di dimostrare meno dei miei anni e di poter ancora, tutto sommato, mascherare le zampette laterali e le rughine all'attaccatura del naso anche grazie agli occhiali, non c'è niente da fare: non ho ottenuto il risultato sperato.
E la colpa non è della mia parrucchiera, che ha seguito, scrupolosissimamente, le mie indicazioni. E' proprio del mio faccino e della mia piccola statura. Con i capelli corti, insomma, anziché sembrare una fascinosa quarantenne, ho finito per essere pari pari a Susanna, non Camusso (non esageriamo), bensì quella dei formaggini.
Di qui l'immediata rimozione del mio primo piano su Facebook, non più veritiero.
Lo dichiaro apertamente: aveva ragione mia madre. Stavo meglio con i capelli lunghi. Magari non quanto li avevo prima dello scalpo (cominciavo in quel caso a somigliare a una invecchiata "madonnina infilzata", una definizione che mi è stata davvero affibbiata una ventina d'anni fa dalla nonna, oggi buonanima, del mio, ai tempi, amatissimo fidanzatino pisano), ma almeno un po' di più di adesso.
Devo tuttavia essere fiera del mio coraggio: un tempo non ce l'avrei mai fatta, segno, anche questo, temo, dell'età che avanza.
Per fortuna, il mio gentilissimo (e sicuramente innamorato) consorte mi fa tanti complimenti (persino la suocera è concorde e, come dice lui, lei non fa sconti a nessuno), ma sono io a sentirmi a disagio.
No. Con questo faccino di pochi centimetri quadrati e la mia scarsa statura, sembro un pulcino spennato, un effetto accentuato anche dalla sottigliezza estrema dei miei capelli.
E d'altra parte, non sempre si è in armonia con se stessi, ma in tempi in cui non lo si è neanche con il mondo e la realtà, probabilmente, siamo maggiormente portati a guardarci il nostro ombelico.
A chi mi chiede "ma come ti è venuto in mente?" anche solo con gli occhi (ma chissà che non sia il mio sguardo incerto a rimandare nel loro la domanda muta che continuamente vado rivolgendo a me stessa), ho deciso di rispondere così: "le artiste portano i capelli corti".
Si tratta, ovviamente, di una risposta scherzosa, di quelle che improvviso per togliermi dall'imbarazzo.
E no, non è solo una questione di insicurezza (chi è del tutto sicuro di sé, per me, è un imbecille. Senza appello), è proprio che gli azzardi a volte si pagano.
Pazienza. So di aver fatto bene: bisogna provare un po' di disorientamento per ricentrarsi e per uscire da se stessi.
Tra l'altro, la mia esperienza artistica (piccola e imperfetta) è quanto di più piacevole mi sia capitato negli ultimi tempi. Chi se ne importa di un po' di ciocche bionde (ahia) spazzate via dalla mia Nives (così si chiama l'efficiente e simpatica parrucchiera che mi ha fatto la bella acconciatura del matrimonio) e dei giudizi tiepidi (o proprio inesistenti. Fanculo ai silenti snob, non ai semplici timidi) su quel che ho prodotto nell'ultimo periodo?
Meglio un anonimato fertile che una popolarità superficiale.
Meglio capelli spenti e spennati piuttosto che meches scolorite e spaventevoli doppie punte.
Però, accidenti che fatica restare ancorati a terra in mezzo alle tempeste del presente.
E che freddo al collo!
Le sciarpe, però, non mi mancano.
Basterà sceglierne una particolarmente calda per i prossimi mesi.
Per fortuna, la primavera è più vicina di quanto sembri.
E per quell'epoca i miei capelli saranno ricresciuti. Almeno un po'.
Speriamo che nel frattempo si vedano anche altri frutti.
Io ce l'ho messa tutta, e di questo sono veramente molto fiera.
Semmai, mi procurerò una lacca a tenuta fortissima contro le sfighe e le ambizioni frustrate.
E andrò dritta (la schiena sarà corta, ma accidenti se è dritta!) per la mia strada. Alla ricerca dei raggi di sole che mi schiariscano i capelli e ridiano luce anche al mio cuore.
Avanti così.

giovedì 12 gennaio 2012

I libri che non ho letto e le contraddizioni dell'animo umano

Quei copridivani malamente adagiati dicono molto; altrettanto i cuscini poco sprimacciati e il cavo della stufetta che tenta di riscaldare la stanza in teoria dedicata agli svaghi creativi.
Eppure, le sedute sarebbero comode e l'illuminazione adeguata agli amanti delle parole scritte (e della musica, da ascoltare e da suonare).
Ciò non toglie che non abbia ancora letto tutti quei volumi in primo piano.
Ebbene sì, come mi ero ripromessa nel precedente post, alla fine l'ho fatto: ho ripescato dalla libreria alle spalle di questo scatto tutti i libri rimasti ancora intonsi, alcuni da un certo tempo, altri (e me ne consolo un po') da meno.
Adesso li ho riposti sullo scaffale, però tutti di seguito e in bella vista, in maniera tale che mi stimolino, per via della loro stessa presenza fisica, della loro materiale esistenza, direi meglio, ad aprirli uno dopo l'altro, prima di tornare in libreria a fare un'altra inutile scorta.
Oddio. I libri quasi mai sono superflui o peggio, dannosi. L'unico momento in cui ho detestato averne abbastanza (assolutamente non troppi) è stato durante i traslochi, questi sì, in effetti, piuttosto numerosi negli ultimi sette anni.
In teoria, da questa casa, non dovrebbero cacciarci almeno per altri due anni (rinnovabili per altri quattro, salvo imprevisti, che, come insegna il Monopoli, possono essere anche positivi. E meno male!).
Posso farcela a leggerli tutti per tempo ed eventualmente decidere di regalarli a qualche biblioteca o mercataro prima di rimpacchettare tutto?
Ma sì, in teoria è possibile.
Già so che non accadrà.
Il desiderio di acquistarne di nuovi, potenzialmente più interessanti di quelli che ho già, a volte è incontenibile.
Passando per Milano, per esempio, non ho potuto fare a meno di fare un salto alla Feltrinelli della stazione centrale, un luogo veramente pericoloso per le mie tasche. E infatti ho comprato due storie a fumetti. Una l'ho già bruciata, l'altra staziona ancora sul mio comodino, in attesa del giusto momento per essere sbranato (almeno lo spero! Quando ci metto troppo, vuol dire che la storia non mi ha preso abbastanza, soprattutto se si tratta di un fumetto. Per altre forme letterarie, invece, le partenze lente non significano per forza tiepidità).
Insomma, vedremo.
Stasera, per esempio, dubito che leggerò qualunque cosa: la ristampa Dago l'ho già divorata, il numero a colori preso ieri in edicola (ahiaiai: ecco perché i libri restano a fare la polvere... il "mio" rinnegato è peggio della mela di Eva) è troppo impegnativo per il sonno che ho.
Però almeno ho fissato sulla carta i miei buoni propositi.
Scripta manent, come si dice.
Ma le contraddizioni fanno parte dell'animo umano.
No, non ce la farò.
Buonanotte.