"In questo momento devo proprio dirlo: meno male che non ho figli, così posso stare qualche giorno in più per monitorare la situazione".
"Al di là dei figli, il mio problema è il lavoro: devo capire se posso prendermi dei giorni in maniera da poter partire più agevolmente".
La conversazione sopra riportata si è svolta stamattina: la prima a parlare ero io. La seconda mia sorella, dipendente con contratto a tempo indeterminato. Una delle poche privilegiate in questo Paese, anche se lei si è semplicemente limitata a brillare negli studi e a vincere un concorso. Oggi non è più così e lo sappiamo tutti. Il mio caso è atipico in tutti i sensi, ma resta pur sempre il fatto che, allo stato attuale, tra me e un neolaureato senza futuro non c'è alcuna differenza.
Le mie parole sopra riportate, del resto, sono illuminanti di come la pensa un disoccupato/semi occupato come me: nel considerare la facilità (relativa) con la quale posso restarmene al capezzale (metaforicamente parlando) dei miei genitori, non ho proprio citato i problemi di lavoro. Perché, di fatto, ora come ora e chissà per quanto tempo, non ne ho. Perciò ho parlato direttamente dell'assenza dei figli, il vero impegno per qualsiasi famiglia che debba occuparsi anche di parenti malati.
Ai gatti pensa mio marito, a sua volta, sfaccendatissimamente impegnato dietro alla mamma che si è rotta il polso destro proprio in questo periodo così faticoso.
E così passa le sue giornate a fare da badante alla madre, impedita in quasi tutte le attività quotidiane. Anche nel suo caso, se avesse avuto un lavoro (ai figli, in genere, pensa innanzitutto la mamma, soprattutto quando sono molto piccoli), di certo non avrebbe potuto essere così presente. Anch'io, come lui, peraltro, mi sono vista allungare un po' di denaro per far fronte alle spese impreviste. Alla fine lo stipendio ce lo vediamo passare proprio da chi ci ha dato alla luce. E' davvero paradossale. So benissimo che le nostre genitrici l'avrebbero fatto anche se fossimo stati due manager in carriera, però è tutto il contesto che ti fa sentire veramente senz'arte e né parte, a cominciare dai medici che ci chiedono che lavoro facciamo e se possiamo fruire della legge 104.
Nel mio caso, ho lasciato che parlasse mia sorella: lei, per fortuna, poteva mostrare di essere qualcuno per la società. Per un tipo di società in disarmo, destinata - salvo svolte impresse dai figli dei migranti, gli unici che potranno un domani far ripartire l'Italia - alla decadenza.
La burocrazia, però, è l'ultima ad accorgersi dei cambiamenti, seconda solo alla politica e alla classe dirigente tutta, che continua a ragionare in termini di lavoro dipendente, salariato e sicuro, benché di triadi così se ne vedano sempre meno.
E in ogni caso, lunedì dovrò ripartire e sistemare un po' di cosette lasciate in sospeso, una anche di tipo simil-lavorativo.
Sperando con tutto il cuore che si possa un giorno vedere la luce in fondo al tunnel (la metafora è consunta, ma pazienza, non mi viene niente di meglio a quest'ora e con la stanchezza che mi fa chiudere gli occhi), so che l'anno prossimo sarà tutto dedicato a sbloccarci da questo faticoso limbo.
Non c'è altra scelta, ma sono disposta a ogni svolta, anche la più amara, pur di non avvertire più questo senso, veramente mortificante, di inutilità.
Lo devo a me stessa e alle persone che mi hanno cresciuto.
Alla mia mamma l'abbraccio più forte. Dormi bene, ci vediamo domani.
sabato 1 dicembre 2012
lunedì 19 novembre 2012
Andare avanti, oltre le nuvole basse
Il paesaggio dietro la calza a rete (in verità si tratta di una zanzariera ormai fatta a brandelli dalla gatta Bice, che non so perché non abbiamo ancora rimosso) è solo un pezzetto di quanto ammiriamo dalla solita torre fermana. Ho scelto questo scatto per non riproporre il consueto (stupendo) tappeto di colline che ammiro tutti i giorni, tolti quelli di nebbia o nuvole basse, comunque si voglia chiamare la cappa che avvolge non di rado Fermo durante la brutta stagione. Vi dirò che certe mattine immerse nel bianco lattiginoso non sono affatto male, anche se, di certo, il cuore si allarga di più quando "calienta el sol".
E comunque, il presente post è un tappabuchi tra il precedente non proprio allegro e i prossimi che temo non saranno tanto più frizzanti.
Ho riflettuto nei giorni scorsi, aiutata in questo dalla scrittura autobiografica e da una vera amica.
Curiosamente, mi scopro sempre di più affine alle persone di vari anni più di me di quanto non mi senta ai miei coetanei. E dire che per molti aspetti sono assai infantile. Infatti amo molto stare anche con i bambini. Chissà che dietro la mancanza (diciamo meglio: debolezza) delle amicizie nella fascia d'età cui appartengo non si celi anche un mio non confessato desiderio di mantenere un certo distacco dalla realtà.
Potrebbe essere.
D'altronde, il presente fa schifo e chi lo nega un po' m'infastidisce.
Con ciò non voglio denigrare l'importanza del sentimento della speranza: solo continuando a nutrirlo, si attivano virtuosi meccanismi anti-depressivi.
Sto soltanto dicendo che con i coetanei mi viene più naturale fingere perché leggo nei loro occhi l'identica disperazione che traspare dai miei, ma mentre io non ho paura di tirarla fuori, anche per riderne su subito dopo, il grosso delle persone (tra i trenta e i quaranta, anno più anno meno) che conosco preferisce appiccicarsi in faccia sorrisetti di circostanza, per smorzare una rabbia che forse temono di non saper governare.
Beh, io invece penso che arrabbiarsi ogni tanto faccia bene, per evitare d'impazzire di frustrazioni indotte.
Poi, certo, non bisogna fare due palle così agli altri (perché sennò poi è logico che scappano), ma perserverare in un percorso di auto-consapevolezza sui propri bisogni/aspettative, quello sì.
Detto ciò, sto per ingoiare l'ennesimo, indigesto, rospo relazionale (chiamiamolo così), dimostrando a me stessa (ma chi lo sa) di non essere la polemica adolescente del liceo.
Me lo disse una volta la prof di greco, commentando non so quale mia uscita. In analoga circostanza lo ribadì anche la prof d'italiano, chiamandomi "pungente".
E d'altra parte sono nata sotto il segno (veramente di m.) del cancro: qualche pizzicata ogni tanto non riesco proprio a trattenerla.
Per fortuna, ho l'ascendente leone, un segno forte e combattivo (a pensarci bene è un mix davvero micidiale: sono una grandissima scassapalle pure astrologicamente parlando).
Sia come sia, bisogna andare avanti. Non c'è scelta.
E domani la cappa sparirà. E se non fosse, sognerò di essere a bordo di un aereo, lontano lontano, molto lontano (citazione contiana, manco a dirlo), da qui.
giovedì 15 novembre 2012
Confusione, il mio karma
Sto contando fino a dieci, per non dire o fare parole e cose di cui potrei pentirmi.
E d'altra parte, i periodi o sono completamente di cacca o non lo sono affatto.
Per fortuna ieri sera abbiamo visto un vecchio film con Tyron Power che mi ha fatto molto riflettere (purtroppo non ne conosco il titolo, ma ho intenzione di cercarlo a breve. Magari ci scriverò anche su, se lo trovo).
Sono una persona inquieta e lo resterò per tutta la vita. Il che, ovviamente, comporterà sempre questo leggero (leggero?) scarto tra i miei sogni e la realtà, ma non mi cambierei con nessun altro, nessun'altra, per cui è bene che accetti la confusione che alberga nella mia testa piatta (giuro: è piatta, perfetta per trasportare giare) una volta per tutte.
E' proprio questa mia caratteristica, infatti, che mi ha fatto scappare da Milano svariati anni fa ed è sempre lei la responsabile delle mie scelte lavorative successive. Di nulla di cui ho fatto mi sono pentita. Anzi: le persone confusionarie come me cercano di accumulare sempre nuove esperienze, perché solo così si sentono vive. In questo periodo, per esempio, ho ripreso a studiare l'inglese e, ovviamente, ne sono entusiasta. Non a caso, peraltro, ho scelto come password per entrare nel mio corso online, la frase "leavingitaly". La confusione mi spinge infatti a percepirmi di nuovo in attesa del prossimo cambiamento, stavolta verso una non ben precisata, destinazione straniera.
Su Facebook seguo il cammino di un tipo a occhio di una decina d'anni più di me, che sta viaggiando in Sudamerica: pubblica foto delle sue soste nei caffè e di paesaggi da favola. Soprattutto, si sente che è felice. Non lo conosco personalmente, ma sono veramente contenta per lui.
E insomma: è bene che continui in questo cammino di conoscenza interiore, accettando la mia integrale solitudine di essere umano qualunque. Un giorno potrei scoprirmi molto più capace di vederci chiaro di quanto non sappia fare adesso.
Oppure hanno ragione i Maya e il 21 dicembre finirà tutto: a che serve affannarsi, dunque?
E no, non voglio imbalsamare nessuna emozione, anche se è più che opportuno non farle trasparire con chi non potrà mai capire.
L'ultima (confusissima) frase è per introdurre questa bellissima canzone di Lucio Battisti, con cui mi accomiato, almeno per oggi.
E d'altra parte, i periodi o sono completamente di cacca o non lo sono affatto.
Per fortuna ieri sera abbiamo visto un vecchio film con Tyron Power che mi ha fatto molto riflettere (purtroppo non ne conosco il titolo, ma ho intenzione di cercarlo a breve. Magari ci scriverò anche su, se lo trovo).
Sono una persona inquieta e lo resterò per tutta la vita. Il che, ovviamente, comporterà sempre questo leggero (leggero?) scarto tra i miei sogni e la realtà, ma non mi cambierei con nessun altro, nessun'altra, per cui è bene che accetti la confusione che alberga nella mia testa piatta (giuro: è piatta, perfetta per trasportare giare) una volta per tutte.
E' proprio questa mia caratteristica, infatti, che mi ha fatto scappare da Milano svariati anni fa ed è sempre lei la responsabile delle mie scelte lavorative successive. Di nulla di cui ho fatto mi sono pentita. Anzi: le persone confusionarie come me cercano di accumulare sempre nuove esperienze, perché solo così si sentono vive. In questo periodo, per esempio, ho ripreso a studiare l'inglese e, ovviamente, ne sono entusiasta. Non a caso, peraltro, ho scelto come password per entrare nel mio corso online, la frase "leavingitaly". La confusione mi spinge infatti a percepirmi di nuovo in attesa del prossimo cambiamento, stavolta verso una non ben precisata, destinazione straniera.
Su Facebook seguo il cammino di un tipo a occhio di una decina d'anni più di me, che sta viaggiando in Sudamerica: pubblica foto delle sue soste nei caffè e di paesaggi da favola. Soprattutto, si sente che è felice. Non lo conosco personalmente, ma sono veramente contenta per lui.
E insomma: è bene che continui in questo cammino di conoscenza interiore, accettando la mia integrale solitudine di essere umano qualunque. Un giorno potrei scoprirmi molto più capace di vederci chiaro di quanto non sappia fare adesso.
Oppure hanno ragione i Maya e il 21 dicembre finirà tutto: a che serve affannarsi, dunque?
E no, non voglio imbalsamare nessuna emozione, anche se è più che opportuno non farle trasparire con chi non potrà mai capire.
L'ultima (confusissima) frase è per introdurre questa bellissima canzone di Lucio Battisti, con cui mi accomiato, almeno per oggi.
domenica 11 novembre 2012
Un video amatoriale (issimo!) scaccia-pensieri
E meno male che ho steso i panni dentro: piove orrendamente, come credo in quasi tutta Italia.
La giornata uggiosa dovrebbe ispirare pensieri nefasti ed è ben per questo che reagisco linkando al mio primo video realizzato con la sony hd (faccio pubblicità, ebbene sì) dedicato al mercatino estivo di Fermo.
Una roba più amatoriale di così non potevo farla, ma tanto, in un mondo di dilettanti, perché mai dovrei essere la sola che si censura? E in ogni caso, lo ribadisco: è un video scaccia-pensieri, a suo modo, nelle sue evidenti imperfezioni, persino (pateticamente) poetico.
E poi Paolo è proprio telegenico: e non lo dico perché sono di parte (su facebook seguirebbe faccina sorridente).
Buona visione (e per i non fermani: buona occhiata sulla bellissima piazza del Popolo, cuore del centro storico della cittadina marchigiana, uno dei molti gioielli di questo povero e depresso Paese).
La giornata uggiosa dovrebbe ispirare pensieri nefasti ed è ben per questo che reagisco linkando al mio primo video realizzato con la sony hd (faccio pubblicità, ebbene sì) dedicato al mercatino estivo di Fermo.
Una roba più amatoriale di così non potevo farla, ma tanto, in un mondo di dilettanti, perché mai dovrei essere la sola che si censura? E in ogni caso, lo ribadisco: è un video scaccia-pensieri, a suo modo, nelle sue evidenti imperfezioni, persino (pateticamente) poetico.
E poi Paolo è proprio telegenico: e non lo dico perché sono di parte (su facebook seguirebbe faccina sorridente).
Buona visione (e per i non fermani: buona occhiata sulla bellissima piazza del Popolo, cuore del centro storico della cittadina marchigiana, uno dei molti gioielli di questo povero e depresso Paese).
venerdì 9 novembre 2012
I giorni della chiarezza
Come cambia in fretta la vita. Aveva ragione mia nonna, quando parlava della strana velocità che prendono gli anni a partire da un certo momento. Eppure io mi sento più o meno identica a sempre, diciamo non troppo più matura della mia giovane compagna di palestra. Invece di certo lei mi darà la mia età, se non di più, chiedendosi anche come si faccia ad arrivare alla età adulta con quell’aria un po’ inconsapevole che metto su nelle chiacchiere tra un esercizio e l’altro.
Sia come sia, a un certo punto si è costretti – letteralmente – a svegliarsi e a guardarsi per bene.
Non mi va di essere annoverata come l’ennesima quarantenne ombelicale, perciò tralascio l’analisi impietosa che faccio quotidianamente su rughe e altre imperfezioni del mio corpo e punto dritta al problema vero.
Non sono felice. Qualcuno dirà: e chi lo è? Giusto: tutti
accumuliamo frustrazioni e soprattutto chi ha il privilegio (e l’onere) di
possedere un cervello, s’interrogherà sempre su ciò che non va, in noi e nella
realtà che ci circonda.
Alcune frustrazioni, in effetti, sono indotte da un presente
troppo opaco, a voler essere generosi.
Altre, invece, sono caratteriali.
Altre ancora, infine, scaturiscono dal caso, il destino, il
fato, la sorte. Comunque vogliamo chiamare quel curioso concatenarsi di eventi
che compone i nostri giorni.
Mi sto per l’appunto domandando se alcuni di questi ultimi
accaduti di recente non fossero già scritti nel mio personale cammino. E se
avessi potuto conoscerne il significato tentando di uscire da me stessa per
guardarli dal di fuori?
Perché, ad esempio, ho letto giusto ad agosto un libro in
cui si parlava di resilienza?
In ogni caso, adesso devo tirarla fuori con la grinta che
qualcuno mi attribuisce.
Perché possa esercitarla pienamente, però, ho bisogno di
avere intorno le persone giuste.
E ambienti favorevoli. Purtroppo su quest’ultimo fronte sono
un po’ sprovvista, o forse lo sono pure sul primo, diciamo la verità.
Di chi la colpa? Chi può dirlo. Anche ammesso che ne abbia
qualcuna anch’io (sono permalosa e ipersensibile), non posso recitare a vita.
Perciò stop alle ipocrisie.
D’ora in avanti sarò assolutamente me stessa. Tanto, la mia
popolarità non è cresciuta di un’unghia in tutti questi anni di buonismo a buon
mercato.
Potrò essere sgradevole, come so essere solo con chi mi
conosce profondamente. Al contempo, so che lo sarò solo con chi mi ha ferito,
mi ferisce con la sua indifferenza, noncuranza, e, a volte, proprio con la sua cattiveria.
D’altra parte, è difficile che la mia impetuosità non venga
fuori, prima o poi.
Ho capito che è meglio mostrarla per tempo, perché potrebbe crescere
in maniera disturbante, danneggiando innanzitutto me stessa e la mia vera – o presunta
– capacità di resistere alla sofferenza.
Insomma: basta con l’autopunizione. Adesso è giunto il tempo
della chiarezza.
Chi mi ama – lo so - mi seguirà.
Fanculo a tutti gli altri.
mercoledì 31 ottobre 2012
In biblioteca a scrivere e fotografare, la giusta pausa tutta per me
Biblioteca Mozzi Borgetti, Macerata |
Comunque vada a finire, ne è valsa davvero la pena.
Parlo della mia esperienza di ieri pomeriggio, le quattro ore più piacevoli della mia vita recente, non esaltanti, giovanilisticamente parlando, però assai rasserenanti.
Sto parlando della mia partecipazione a Storie da biblioteca, un concorso o gioco (a seconda di come lo si voglia vedere) per scrittori/fotografi incentrato sulla valorizzazione dello splendido patrimonio librario delle Marche. Volendo, si poteva partecipare a tutte le dodici tappe del viaggio letterario e fotografico condotto in altrettante biblioteche regionali, anche perché il tutto si è svolto gratuitamente, senza limiti d'età né presentazione di curriculum. Prima di iscrivermi, mi sono giusto informata se fosse il caso che una tardona come me non fosse proprio fuori luogo. Rassicurata dalla gentilissima organizzatrice, mi sono detta: ma sì, perché no? Ed è andata. Anzi: è andata benissimo.
In fondo, non ho dovuto fare altro che rinverdire una mia antica frequentazione: dal liceo alla laurea, ho sempre bazzicato le sale lettura e ancora oggi, quando vedo uno scaffale ricolmo di libri, provo una grandissima fascinazione.
L'esperienza di ieri me ne ha peraltro richiamato alla memoria un'altra, risalente ai tempi della scuola di giornalismo. Qualcuno, non so più se Tabloid, il mensile dell'Ordine della Lombardia, o una testata interna all'Ifg, mi aveva spedito alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, nel cuore del centro storico della metropoli lumbard, per ricavarne un articolo. Ricordo l'esaltazione (in quel caso sì, l'ho provata) nell'aggirarmi tra teche, incunaboli, tavoli massicci e suoni ovattati. Se non vado errata, anche in quel caso ho scattato qualche foto, con una delle prime digitali all'epoca in commercio, dotata, pensate un po', di porta per il floppy disc.
Ai tempi della Voce, poi, mi è toccato di calarmi nel ruolo di un immaginario utente colto di spalle intento a sfogliare un volume qualunque (un'altra volta ho fatto la donna vittima di violenze domestiche e un'altra la cercatrice di lavoro interinale... che si doveva fare per campare). E ogni tanto, soprattutto da quando ho ripreso a fare foto, prendo in prestito qualche volumone di fotografia nella bella biblioteca Romolo Spezioli di Fermo.
Però un concorso, no, non l'avevo fatto mai e se anche non dovessero mai prendere in considerazione il raccontino che ho buttato giù con un certo divertimento infantile e se pure le foto scelte (dovevamo selezionarne solo cinque: quella che vedete in alto è stata sacrificata, non senza fatica) non convincessero la giuria, beh, chi se ne importa. Speriamo piuttosto di avere altre occasioni per nuovi giochi di ruolo, innocenti e stimolanti per anima e, sì, gambe.
Perché accidenti se pesa portarsi appresso pc, fotocamera e cavalletto!
Sarà il caso, piuttosto, che mi attrezzi con uno zaino adeguato: ieri sono arrivata con un borsone da pendolare decisamente poco professionale. E d'altra parte, era giusto presentarsi così, un po' sprovvisti e dimentichi di se stessi. Sì, era proprio giusto così.
lunedì 29 ottobre 2012
Sentirsi come un albero d'autunno
Sono nata e cresciuta in una città di provincia. Ma questo è assodato. E digerito, direi.
Per scelta, nel lontano 2005 sono venuta a vivere in una omologa cittadina posta sulla cartina poco più a nord. La piazza che sta alle spalle di questo scatto è magnifica e conservo ancora il ricordo della prima volta in cui l'ho percorsa, ai tempi del secondo anno della scuola di giornalismo. Era inverno, anzi, autunno inoltrato, probabilmente era venerdì sera, e ci stavamo dirigendo verso quello che vari anni dopo ho scoperto chiamarsi auditorium San Martino. Quella sera Alessandro Bergonzoni dava uno spettacolo proprio per noi aspiranti pennivendoli dalla pelle ancora liscia (qualcuno un po' meno) e il curriculum ancora da riempire (almeno per quanto mi riguardava).
Quel paesaggio era così simile al mio, eppure così esotico. Un anno a Milano vale doppio: già dopo un giorno che ci trascorri, tutto il resto sembra evaporare e ti ritrovi all'improvviso in un presente eterno, senza memoria e senza futuro. Almeno, era questo l'effetto che mi faceva vivere in quella città, forse proprio perché sono cresciuta in posti in cui percepisci lo scorrere delle stagioni, nei colori delle colline, nelle rughe del cielo e nell'aria che si fa all'improvviso pungente. Ogni volta che torno a Chieti, per dire, ritrovo gli odori della mia infanzia e adolescenza e come Proust con la madeleine mi torna in mente chi sono. A Milano, invece, finisci per dimenticartelo e se può andar bene per i maniaci del lavoro o per chi ha ferite dell'anima da curare con il distacco, non può essere adatta a chi, viceversa, vuole, almeno ogni tanto, ritrovarsi. Specchiarsi e riconoscersi. Parlare a cuore aperto con qualcuno, osservare un tramonto, ascoltare il vento. Non che tutto questo non ci sia anche a Milano, è solo che passa in secondo piano, coperto dai rumori, dai volti, dai mezzi e dai continui stimoli, spesso davvero eccitanti, di una città dei balocchi arida e tentatrice.
Non che io non ami scoprire cose nuove, aggiornarmi sulle ultime tendenze (rammento ancora la lezione della mia amica Cristina sulle differenze tra kitsch e camp. Se volete ve le spiego), fare shopping, andare alle mostre e chiacchierare con le mie ex coinquiline, ma non è possibile passare la vita in questo modo: di fatto non lo fa nessuno, neanche chi ci vive contento.
Con il passare degli anni, poi, è logico aspettarsi anche altro, magari un po' meno smog, magari un po' più di calore nei rapporti, un po' più di spessore. L'ho constatato l'ultima volta che ci sono tornata: nessuna di quelle ex ragazze che passavano con me per la bella piazza di Fermo è rimasta identica a come era in quei giorni. C'è chi è diventata mamma, chi ha cambiato lavoro svariate volte, chi ha proprio smesso di fare la giornalista (una a caso?), chi ha scoperto l'India. Per fortuna, si cambia, insomma, anche in quella città così unica, nel bene e nel male.
A distanza di anni, insomma, finisci per dirti: ma perché me ne sono andata? Anche qui, alla fine, i rapporti sono ugualmente superficiali, la grettezza e la disorganizzazione dilagano, e pure il paesaggio, certi giorni, è piatto e squallido e l'aria puzza. Che cos'è che mi ha fatto dire, un giorno di tanti anni fa, mentre passeggiavo in bicicletta sul lungomare di Porto San Giorgio, sì, voglio trasferirmi qui?
Ufficialmente, mi hanno condotto qui il lavoro e l'amore. Poi, però, il primo è finito e con quello gli anni dorati della mia giovinezza. Di questo, ahimè, sono davvero convinta: smembrato il piccolo gruppo brancaleonesco con cui ho passato giornate indimenticabili, è finita anche la mia lunga, prolungatissima, adolescenza.
Il carattere, certo, resta quello, ma dentro qualcosa si è rotto. Qualche illusione di troppo, qualche idealismo da manifestazione scolastica, qualche legame che reputavo importante.
Era ora, probabilmente, ma vi assicuro che un po' fa male, perché ti guardi nello specchio (di tempo in questo periodo ne ho fin troppo per osservare la mia faccia un po' così) e ti chiedi, di nuovo: ma io chi sono e che ci faccio qui?
Così guardo la foto che ho scattato l'anno scorso, sotto Natale, in giornate intense, di quelle che piacciono tanto a una ex bambina come me, e penso di essere come un albero che sta perdendo le foglie (mi sono appena resa conto di aver copiato Giuseppe Ungaretti. Giuro che non l'ho fatto apposta). La primavera è lontana, ma tornerà: conviene risparmiare energie per allora, indurendo la corteccia quanto basta contro il gelo shakespeariano.
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