giovedì 31 ottobre 2013
Viaggio nella biblioteca Romolo Spezioli di Fermo: che esperimento!
Bando alle insicurezze e alla vergogna e vai, mi butto con un nuovo esperimento.
Di che cosa sto parlando? Del video che ho ricavato dalla mia seconda (anzi terza) partecipazione a Storie da Biblioteca, il concorso di scrittura e/o fotografia organizzato dall'Aib (Associazione italiana biblioteche) Marche, in collaborazione con l'associazione culturale Racconti di città e Simplicissimus Book Farm.
Sono piuttosto sicura di non aver vinto né per il racconto Il lavoro e il corpo che potrete ascoltare (anzi: sarete costretti ad ascoltare, scorrendo la galleria) né per la fotografia. Di solito l'opera prima è sempre più fortunata della numero due (alla terza l'ansia da prestazione dovrebbe essere già stata metabolizzata. Quindi vediamo come andrà l'anno prossimo!).
Non importa: sono felice di aver passato altre quattro ore tra i libri, stavolta a Fermo, la città in cui vivo ormai da più di quattro anni. E ancora di più sono orgogliosa di aver trasformato un'esperienza in fondo privata in un momento di condivisione collettiva di un luogo, la Biblioteca civica Romolo Spezioli, di una bellezza davvero rara.
Approfitto del mio blog per ringraziare ancora una volta Silvia Seracini, la coordinatrice del concorso, il gentilissimo personale della biblioteca di Fermo, i partecipanti alla seconda edizione e ogni singolo dettaglio finito sotto la mia fotocamera, studenti compresi. A quest'ultimo proposito, voglio aggiungere giusto un caloroso in bocca al lupo a loro: vi prego, cambiate questo Paese. Noi quarantenni, per quanto possibile, cercheremo di starvi dietro.
E infine, a voi che passerete di qui, buona visione e ascolto... e abbiate pietà della mia vocetta!
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domenica 27 ottobre 2013
I Rem e la camicia dei miei vent'anni
Vent'anni fa, più o meno, in primavera, giravo con una bici con i freni a bacchetta, di un improbabile colore rosa, con la mia camicia fantasia. Il fondo era rossastro, ma i disegni, un po' geometrici, un po' tondi, dovevano dare sul celeste, verdino e forse giallino.
Dovrei avere da qualche parte anche una fotografia che mi ritrae con quella camicia, di una marca molto di moda negli anni Ottanta-Novanta, quella dei maglioni di lana a treccia, oggi tornati in voga. Sono sicura che chi è nato a inizio Settanta come me ha capito benissimo a quale brand (bleah) mi riferisco.
Molti anni dopo me ne sono ricomprata una molto simile al mercato di Porto San Giorgio del giovedì, o molto più probabilmente alla grande fiera di primavera, dedicata al santo patrono del borgo marino che ho imparato ad amare nel tempo. Oggi che non ci vivo più, tra l'altro, mi manca ancora di più, forse anche perché ho capito che con il denaro che posseggo non potrò mai comprarvi una casa. Ma non volevo scrivere questo post per lamentarmi del destino crudele.
Torno subito alla camicia. Quella nuova (più o meno, come sopra) è di tonalità marrone, con disegni, un po' geometrici, un po' tondi, sul rossastro, il blu, il verde e il giallo.
Come la prima, è lunga (su di me non è difficile immaginare che qualcosa mi stia grande, almeno in senso longitudinale) e va portata, preferibilmente, aperta su una t-shirt in tinta unita, per non accentuare ancora di più l'effetto coperta patchwork. La marca, stavolta, non è italiana, bensì spagnola, il che la dice lunga sull'evoluzione (?) dell'economia nazionale, assediata e fagocitata da una globalizzazione troppo aggressiva.
Inconsciamente volevo riprodurre l'atmosfera di vent'anni fa, almeno credo, favorita dalla pianura, il sole caldo e la possibilità di cavalcare una bicicletta con le ruote grandi e il telaio squadrato di un improbabile rosa, come l'altra. Della Ceriz di mia suocera, però, mi pare di aver già parlato.
Non avevo invece mai fatto cenno, almeno non su questo spazio, all'altra, i freni pericolosissimi e un'altezza troppo grande per le mie gambe corte. Una volta, per dire, ho quasi rischiato di finire contro un camioncino, impossibilitata com'ero nella frenata dal fatto che guidavo con una sola mano perché con l'altra reggevo l'ombrello. Non mi separavo mai dalla bici, neanche la pioggia mi avrebbe costretta a prendere l'autobus, da me detestato dai tempi del liceo, quando dovevo fare a botte pur di salirvi su, pigiata malamente tra altri (nonché più alti) studenti che, come me, erano condannati alla forzosa traghettata dantesca dal colle alla pianura, per tornare a casa a ora di pranzo.
E insomma, una volta a Pisa, mi adeguai in pochi mesi alle abitudini dei locali. Anche se quella bici, chiaramente rubata, era davvero un'arma micidiale nelle mie mani. Non ho mai perso l'abitudine di correre come una lippa e se non sono mai andata a schiantarmi contro qualcosa o qualcuno, è solo perché, in genere, resto una tipa prudente. Certo, dopo l'incidente di Paolo, comincio a dubitare dell'utilità del mio modo di essere: non c'è persona più attenta di mio marito alla guida, il che, tra l'altro, non vuol dire andare come lumache anche quando si potrebbe evitarlo, eppure la sfiga ci vede meglio del nostro giudizio. E pazienza. Sto divagando.
Dicevo delle mie camicie per estensione hawaiane, alla maniera di quella che Paolo Conte avrebbe voluto indossare davanti alla bella signora dal parlare difficile.
Giorni addietro, al Ruggito del Coniglio, un programma di Radio Due che mi fa compagnia quasi dallo stesso numero di anni dell'aneddoto che sto per riportare, hanno messo la canzone dei Rem che apre questo post. E dire che i Rem non sono mai stati un gruppo da me chissà quanto amato. Semplicemente, al ritornello, mi sono rivista in sella alla bici falsamente rosa (dovevano averla tinteggiata giusto qualche giorno prima di rifilarmela: sono stata fortunata che nessuno ne abbia rivendicato la proprietà accusandomi del furto. Io, comunque, la pagai, chissà se trentamila lire o forse più).
Ero appena tornata a casa, in una calda giornata di fine primavera, le scarpe di pezza ai piedi, le cuffiette nelle orecchie. Non sto parlando degli auricolari, che spesso uso quando viaggio. Sto parlando proprio del walkman, probabilmente quello di plastica arancio nel quale infilavo le mie cassette. I nastri, come li chiama ancora adesso mio zio Gigi.
Quel giorno ero contenta, forse gli esami erano lontani, o forse ne avevo dato uno da poco. So solo che ero serena, svagata e immersa in chissà quale sogno.
Non che adesso non mi capiti più, ma è proprio vero che a vent'anni si è diversi. Sono convinta che lo siano anche le giovani madri, costrette, magari, a crescere un po' più in fretta di quanto non sia capitato a me, ma in possesso di un'energia naturale, che ti fa respirare, correre, studiare quasi in uno stato di incoscienza. A quell'età, se stai bene e non hai particolari guai di altro genere (guerre in corso, povertà, situazioni familiari tragiche), sei più o meno come un bambino, giusto un po' più grande, il futuro indefinito e la personalità ancora in potenza.
Almeno, io ero così. Ed ero felice.
Non dovevo esserne consapevole, credo, anche se, ai tempi, non mi lamentavo delle ingiustizie subite né mi attaccavo ad alcun stravagante capro espiatorio. Quando ero triste (e figuriamoci se non capitava), scrivevo qualche frasetta sui miei diari, che di solito mi pareva idiota a distanza di pochi giorni, e andavo avanti. Anno dopo anno, esame dopo esame, sogno dopo sogno.
Un giorno ho subito lo stop che mi ha trasformato in adulta. E anche se, ormai, l'ho metabolizzato bene, se mi sono fatta una ragione della mia inestirpabile emotività, so che prima, ai tempi della camicia colorata che portai con me anche a Vienna, durante il corso di tedesco (la foto cui accennavo prima venne scattata nell'alloggio universitario in cui abitammo, mia sorella, una compagna di università ed io. Almeno credo che fossimo tutte e tre nella stessa stanza), ero felice.
Ero una bambina felice. Ascoltavo Beethoven, guardavo il Reno (questo l'anno prima, durante l'Interrail con mia sorella), scrivevo noterelle di viaggio, ripetevo Ich bin, du bist etc etc, ed ero contenta. Sognante e contenta.
Quella bambina non c'è più, sono stati proprio i Rem, con quella canzoncina allegra, a darmi l'esatta misura del tempo trascorso.
Vi giuro: non sono triste, giusto un pizzico malinconica. Non avendo figli, però, non posso che intenerirmi per la me stessa di ieri e per i miei adorati quattrozampe.
Quando vedo i nipoti, certo, mi capita di provare qualcosa di simile per loro: confido ardentemente nelle loro capacità e nei loro talenti e spero che anche loro, un domani, possano ricordarsi di quanto sono stati amati, negli anni più belli della vita.
Io lo sono stata. Ed è amaramente dolce rendersene conto.
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giovedì 24 ottobre 2013
#ISPF2013 + Library, a place for people: il mio video!
E oggi bis alla Romolo Spezioli di Fermo... se non vado errata, anche qui il tema da raccontare per foto o parole, o con tutte e due, è sempre il lavoro. Spero di non farmi prendere dallo spirito polemico o, peggio, depresso. In ogni caso, una sfaccendata come me non poteva non partecipare. Staremo a vedere. Tornate da queste parti tra qualche giorno, se avete voglia. In generale. Di sapere come sto. Perché se tenere un blog è anche una questione di narcisismo, non è solo questo. Grazie a chi l'ha capito e a chi lo capirà. Bonne chance a noi.
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martedì 22 ottobre 2013
Narcisismi da Narcissus e #ISPF2013... ma in terza persona non ci parlo!
E va bene: autocelebriamoci. E parlo pure al plurale maiestatis. Certo, sarebbe ancora più preoccupante se parlassi di me in terza persona. Se qualcuno di voi lo fa, beh, sappiate che non sarebbe un buon segno. Tanto per fare la sinistrorsa snob, tra gli abbonati al discorso in terza c'è l'odiato B.
Venendo invece a NOI, spero che la botta di narcisismo di cui sopra non mi si ritorca contro, visto che lo scatto è di Pippo Onorati, fotografo, regista, giornalista etc etc, fondatore dell'agenzia Mammanannapappacacca.
Vi confesso che prima di domenica scorsa non l'avevo mai sentita nominare (ignoranza mia, anzi nostra), ma già da come Pippo mi ha fatto piazzare davanti a quel muro, chiedendomi di mettere in evidenza la borsa e di tirare un po' più su il foulard, ho capito di avere a che fare con qualcuno che un minimo ci capiva. Prima di scrivere queste righe, però, l'ho googolato e lo stupore è stato doppio.
Che posso dire? Pippo, per favore, non chiedermi le royalties sennò sono rovinata.
Mi piace molto la filosofia della tua agenzia (e non sto cercando di blandirti... giusto un pochino, su), insieme semplice e vivace. Mi ci riconosco pienamente.
Le coincidenze degli ultimi tempi, aggiungo, cominciano a sembrarmi un po' troppe.
Non avendo una sfera di cristallo, non so dire se porteranno da qualche parte, ma in ogni caso avvertire il sangue che ricomincia a scorrere più veloce fa bene. A meno che non sia un sintomo della pressione alta.
In definitiva, il Festival del Self Publishing di Senigallia è stata una vera benedizione.
Presto pubblicherò i miei scatti, ma sono indecisa se suddividere quelli della Biblioteca Antonelliana (che ha un magazzino BELLISSIMO) dagli altri dedicati al Festival.
Comincio con un paio qui sotto:
Tra le informazioni elargite da Italo Pelinga, il direttore della biblioteca senigalliese, me ne è rimasta impressa una in particolare: al posto di quelle scrivanie di legno chiaro, fino agli anni Settanta c'erano piccoli appartamenti, suddivisi da tramezzi, destinati ai poveri della città. L'ho trovato veramente affascinante.
E se anche Alessandra non ha vinto, secondo me ha vinto lo stesso.
Adesso, però, portatemi via.
venerdì 18 ottobre 2013
Dall'incidente al Festival del Selfpublishing di Senigallia... che salto!
Ho usato per un po' la foto che vedete sopra come mio profilo di Facebook.
Sulla t-shirt, è evidente, compare la copertina del mio libro, e l'ho ricevuta in dono per l'anniversario di matrimonio. Di lì a qualche giorno avrei infatti partecipato al mercatino estivo del giovedì di Fermo, un evento che anima le belle serate estive di questo angolo delle Marche da oltre trentun anni. Perché la ripubblico in questo contesto? Per raccontare insieme due differenti fatti.
Il primo è personalissimo e riguarda proprio l'autore del molto gradito regalo, ossia mio marito.
Ieri è stato sbalzato via dalla sua vespa rossa, che adesso staziona tutta accartocciata nel garage del padre di mia cognata (o qualcuno a lui molto vicino), mentre il Bipede (mio marito), per fortuna, è di là sul divano a riposarsi. I medici del pronto soccorso che l'hanno trattenuto (direi sequestrato, visto il numero di ore che abbiamo passato in ospedale) per accertare le sue condizioni, gli hanno prescritto relax e antidolorifici in caso di bisogno. Conoscendolo, sapevo già che non ne prenderà uno, ma intanto io ho fatto scorta di farmaci che onestamente spero finiscano per scadere quasi del tutto intonsi, come i molti che ho buttato (nell'apposito contenitore) giusto la scorsa settimana.
Tant'è: sempre meglio poter raccontare cose del genere con un po' di ironia che tacere per sempre.
Vado al secondo motivo.
Domani e dopodomani (ossia il 19 e il 20 ottobre) arriva finalmente a Senigallia il primo festival internazionale del SelfPublishing, dedicato principalmente a chi si autopubblica e-book, ma anche agli incoscienti come me che hanno scelto la strada del cartaceo.
Come già precisato più volte anche su Minime Storie, a mio modestissimo avviso, un libro fotografico va stampato, ma spero di scoprire in questi due giorni strade alternative economicamente (in tutti i sensi: pure quello green) praticabili.
A leggere il programma ufficiale, il Festival sembra molto stimolante e lo immagino affollato di gente curiosa e interessante. Tra gli appuntamenti che mi hanno colpito di più, ci sono i dibattiti con Antonio Tombolini, il fondatore di Narcissus, l'editrice della piattaforma di ebook più utilizzata in Italia, ossia Simplicissimus, previsti all'apertura e alla chiusura del festival. Poi mi aspetto utili dritte da Cristiana Giacometti, che alle 17.45 di domani parlerà di come trasformare il proprio libro in audiolibro. In più vorrei tentare di carpire qualche informazione preziosa dai grossi big dell'editoria che si confronteranno con i selfpublisher più agguerriti, nel dibattito previsto sempre domani alle 18. Infine vorrei godermi qualche momento più rilassante con Matteo Caccia e il suo programma trasportato da Radio24 a Senigallia e anche con Alessandro Bergonzoni, che non rivedo dal vivo da tempo immemorabile. Prevedo di riparlare del Festival anche al ritorno dalla bella cittadina di mare della provincia di Ancona, ma prima di chiudere questo post, sarà opportuno che aggiunga un ultimo dettaglio.
Domenica mattina alle 11.30 prenderò parte anch'io all'evento: chi vorrà sapere qualcosa di più di Che gatti e di me, mi troverà a quell'ora allo spazio chiamato dagli organizzatori Pickwick Club. Anche a me, ovviamente, hanno dato solo un quarto d'ora per dare le 5 W sul mio libro, ossia perché-dove-cosa-chi-quando (e la sesta how-come!) ho deciso di buttarmi nell'autoproduzione.
Confesso di essere un pochino emozionata, ma in fondo neanche troppo.
Mi spiace, questo sì, che il Bipede, al quale ho rubato una frase per usarla come prologo di Che gatti, non possa essere presente.
Prometto comunque di impegnarmi come cerco di fare sempre per trarre il massimo da questa esperienza.
Ringrazio da adesso gli organizzatori dell'Ispf e del contemporaneo concorso Storie da biblioteca al quale dovrei partecipare solo per la sezione fotografia. Temo di non essere più nello spirito, anche se deciderò domani il da farsi.
Fatemi, fateci anzi, l'in bocca al lupo.
Mentre scrivevo, il Bipede si è messo a letto: vicino a lui si è piazzato il gatto caffellatte.
Quando si dice pet-therapy...
giovedì 10 ottobre 2013
Le Gilmore Girls e il proprio ruolo nella vita
Tredici anni fa conducevo una vita totalmente differente. Diciamo che non avevo molto tempo di guardare telefilm, mentre andavo più spesso al cinema. L'età, e non solo quella, modifica molto le nostre abitudini e anche tralasciando possibili (nonché facili) battute sul rincoglionimento prodotto dallo scorrere del tempo, è pur vero che la tv campa sulle repliche di ogni sorta di serial tv. L'ultima scoperta in ordine di tempo è New tricks su Giallo, ma ne ho viste solo due di puntate, quindi non mi sento ancora pronta per parlarne.
La penultima, invece, è stata davvero una benedizione dal cielo, visto che va in onda giusto quando ci sarebbero gli ansiogeni e/o noiosi tg serali (e in replica il giorno dopo nell'analoga fascia oraria a pranzo). Sto parlando di "Una mamma per amica", la retorica traduzione italiana di Gilmore girls, trasmesso negli Usa dal 2000 al 2007, un telefilm insieme lieve e intelligente, incentrato sul rapporto tra una giovanissima madre e la figlia sedicenne e altri caratteristici personaggi che animano il paese immaginario del Connecticut in cui è stato ambientato.
Il bar di Luke e le case in legno così tipiche della grande provincia americana della East Coast, in verità, sono tutte finte, ma poco importa che la loro cittadina tanto bellina non esista, dal momento che non c'è un attimo del telefilm in cui non sembri tutto perfettamente credibile.
Adoro gli scambi tra Lorelai, la madre di Rory, e la nonna di quest'ultima, l'attrice Kelly Bishop, che fa di tutto per mostrarsi fredda e formale, persino acida, con la figlia, alla quale non può perdonare di essere rimasta incinta a sedici anni, tradendo ogni aspettativa della sua famiglia upper class.
E mi piace assai il rapporto tra le due protagoniste, così unite nonostante gli errori della prima (così brava a lasciare i fidanzati... lasciamo stare) e l'ansia da secchioncella della seconda (che alla lontana potrebbe riportarmi al mio passato. Anche se io non mi sentivo così sicura come lei).
E insomma: mi piace assai partecipare alle loro vite ipotetiche e immaginarmi che un giorno i loro sogni diventeranno realtà. Ho leggiucchiato qualcosa sulle serie successive a quella che La5 sta mandando in questo momento, ma non ho voluto indagare troppo per non perdere il gusto di scoprire che succederà giorno dopo giorno (dubito che mi tornerà voglia di guardare i tg mentre ceno/pranzo).
Non ho tuttavia potuto fare a meno di scoprire che il telefilm non ha avuto il finale che si aspettavano i suoi creatori, una donna e suo marito, per via di problemi tra loro e la tv americana che lo trasmetteva. Del resto, nella vita l'happy end hollywoodiano non esiste, e anche senza rattristarci al pensiero della fine che aspetta noi tutti prima o poi, è più facile che si viva costantemente nel "to be continued".
Piuttosto, mi piacerebbe sapere che cosa combinano tutti gli attori delle Ragazze Gilmore, dal momento che, anno più anno meno, si tratta di miei coetanei. Non so perché, ma ci tengo alle sorti della mia generazione, anche quando le rintraccio in gente che dubito che incontrerò mai personalmente.
Sarà perché, quando vedo una recitazione di buon livello, quando scorgo facce interessanti al di là dei personaggi interpretati, mi viene naturale tifare per loro. Per esempio, mi fa molta simpatia Peppino Mazzotta, l'attore che interpreta Fazio nel Commissario Montalbano, classe 1971. Per me è un grandissimo interprete e ho idea che sia forte anche nella vita privata.
Il problema dei telefilm di successo è però evidente: il personaggio che si è incarnato ti resta appiccicato e rischi di non riuscire più a staccartelo di dosso. Di qui la mia curiosità su che cosa facciano tutti questi bravissimi attori della mia generazione al di fuori del set.
Del resto, a pensarci bene, è una curiosità tipica di chi non si accontenta di ciò che va in scena, del cono di luce sulla ribalta. C'è sempre un lato B da scrutare, anche se potrebbe non piacerci sapere che cosa riporta.
Farsi domande è dunque inevitabile, soprattutto se si ha tempo e voglia di approfondire.
Dovrebbe essere la norma, anche (di più!) quando pensiamo a persone che conosciamo realmente, ma come diceva la signorina Novak in Scrivimi fermo posta, la "gente gratta raramente la superficie" ed è così probabile che si conosca molto poco l'uno dell'altro, figuriamoci di ciò che si dice dei personaggi dello spettacolo.
Alla fine, insomma, preferisco non andare troppo oltre e sperare che almeno loro, così lontani dal mio mondo, non abbiano troppe ambasce e possano semplicemente continuare a recitare.
Incontrarli televisivamente è stato bello. Già solo il fatto di aver regalato sorrisi, sogni e qualche lacrimuccia consolatoria dovrebbe riempirli d'orgoglio. Speriamo se ne ricordino, anche quando saranno, saremo, vecchi. Loro hanno avuto uno scopo nella vita. Ed è una fortuna che non capita a tutti.
lunedì 7 ottobre 2013
Ferrara, Internazionale e un elenco infinito di grazie
A essere prevedibile era prevedibile. Ferrara e il Festival di Internazionale mi fanno sempre questo effetto rinvigorente e credo a questo punto di comprenderne ancora meglio le ragioni.
La città è magnifica: la pioggia e il freddo di quest'anno, anzi, le hanno conferito un aspetto quasi parigino. Al mattino, in hotel, sono stata svegliata dal ticchettio delle gocce attutite dalle pareti e immagino i doppi infissi della porta-finestra. Mi sentivo a casa ed è stato davvero un dono del cielo che fossi da sola, per la prima volta nella mia vita, in una stanza oltretutto così confortevole. Sono risalita con la tazza di thè verde presa alla fine di una gustosissima colazione (il pasto della giornata che considero più importante) e mi sono goduta il paesaggio che si intravede nella foto che condivido qui sopra. Una leggerezza malinconica si è impossessata del mio corpo infreddolito, della mia testa piena di immagini e nozioni, di sorrisi e di incontri propiziatori (che dire dell'africano che mi ha augurato il meglio per la vita nel treno di andata? Chissà come si chiama). E ho finito per fare un pochino tardi all'ultima mattinata del workshop con Christian Caujolle, un uomo piccolino con una faccina sorniona e una cultura notevole, che mi ha conquistato un poco alla volta, ostacolata com'ero dal suo inglese alle mie orecchie non sempre intellegibile. Ero talmente concentrata a cogliere il suo labiale che ho realizzato meglio che cosa mi stesse capitando e in quale luogo interessante mi trovassi (la facoltà di architettura, nel cuore del ghetto ebraico, se le mie informazioni sono corrette) solo un po' dopo.
Più immediata e diretta, invece, è stata la reazione che mi hanno suscitato le foto di Gabriele Basilico sulle città e soprattutto le parole di questo immenso fotografo italiano scomparso prematuramente (aveva solo 69 anni, accidenti) lo scorso febbraio. A commentarle, c'era di nuovo Caujolle, stavolta liberato dall'onere dell'inglese: la traduzione consecutiva in italiano era stata affidata a una donna con una bella voce, il che, per me, ha fatto decisamente la differenza.
Le foto (e le musiche che le accompagnavano) di Basilico mi sono arrivate direttamente nello stomaco. Se dovessi spiegarvene le ragioni a parole, però, non ci riuscirei. Bisognava essere lì a farsele scorrere addosso, mentre l'umidità mi mangiava le ossa una dopo l'altra.
Ringrazio i miei amici Ketty e Matteo per l'accoglienza, il giro notturno per Rovigo, i ristoranti e i bar in cui mi hanno portata (che eleganza questi rovigini). Ringrazio anche gli organizzatori della piccola mostra cittadina sul cinema e il fiume, e poi il peso del borsone sulle spalle, l'ombrellino provvidenziale comprato in vista del viaggio, gli stivaletti acquistati in un periodo molto difficile, il giacchino giovanilistico, i complimenti gratuiti, il jazz nel dehor di un magnifico bar, lo sguardo dolce di Tiziana e la sua grinta segreta. Ringrazio Anna per la sua estrema e rassicurante simpatia, Giulia la zingara e il fidanzato dagli occhi dolci per il loro accento così evocativo, Luca per la sua fisicità gioviale (e per gli aneddoti sulla figlia quattrenne), Gabriella per il pomeriggio africano e per quel mix di sicilianità e milanesità che mi fanno morire. Ringrazio il tabaccaio per la pipa con tanto di sigillo di garanzia che ho portato a mio marito. Chi mi manca? Vito e i suoi occhi chiarissimi da conquistador, la giovane foto-editor Silvia, classe tutta veneta, l'edicolante della stazione di Ferrara che pareva saperne qualcosa della vita. E infine ringrazio proprio quest'ultima, per avermi dimostrato ancora una volta che stare al mondo è una grande cosa.
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