martedì 15 aprile 2014
Fermo e l'invincibile distanza
Ci ho pensato a lungo, ma la conclusione è rimasta la stessa cui ero approdata fin da subito. Desidero dedicare qualche riga alla chiusura di Alelà, il piccolo negozio di calze, canotte e costumi, nel quale sono entrata più di una volta, soprattutto quando ho avuto bisogno di fare qualche regalo un po' più di qualità.
Sono rimasta malissimo quando ho saputo la brutta notizia.
Pur non essendo una habituè dei negozi di piazza del Popolo, il magnifico cuore del centro storico di Fermo, mi piaceva infatti dare un'occhiata alle vetrine, come chiunque (non solo di sesso femminile) abbia un minimo di interesse per vestiti, scarpe e accessori vari.
Da quando sono arrivata quassù, però, lo shopping dei miei occhi si è di anno in anno sempre più ridotto, lasciandomi nel cuore la spiacevole sensazione di abitare in un paese fantasma.
So di dire qualcosa di scomodo per chi - giustamente - è molto attaccato alle proprie radici, ma, credetemi, se giorno dopo giorno Fermo mi è diventata sempre più estranea non è solo per colpa mia e del mio essermene restata chiusa nella "torre" troppo a lungo.
Ci ho provato, e continuo tuttora, in fondo, a tentare di sentirmi a casa, ma non ci sono riuscita. E, ahimè, ormai mi sono convinta che mai riuscirò.
Il che non vuol dire che in tutti questi anni non abbia conosciuto persone interessanti e fatto bellissime e indimenticabili esperienze.
E' solo che se non lavori sul posto, se non hai un legame non solo hobbistico con il luogo in cui abiti diventa obiettivamente più difficile.
E non che non abbia provato anche a cercarmi qualche lavoretto. Una volta ci sono anche riuscita ed è stato bello, ma del tutto inutile in prospettiva.
In questo caso, però, il problema è tutto mio e del percorso di studi e professionale troppo poco spendibile in una terra dedita al lavoro prevalentemente manuale (agricoltura+calzaturiero) come questa.
Mettici in più la crisi, mettici la tendenza non solo locale allo svuotamento progressivo dei centri storici a favore dei grandi centri commerciali, mettici le potenti lobby politico-ecclesiastiche contro le quali ho ampiamente sbattuto il muso quando lavoravo per il giornale diocesano. Fatto sta che la mia condizione di estraneità ha finito solo per rafforzarsi. E per aggravarsi ulteriormente per via di questo progressivo sgombero dalle vie che circondano la bella casa-torre nella quale soggiorno, dotata di questa vista mozzafiato che per lo meno ha lenito un po' lo sconforto dei momenti più bui.
Me ne dispiace. Tanto. Non sapete quanto.
Per scelta ho lasciato la grande città, alla ricerca di un luogo e di uno stile di vita più semplice.
E mi devo ritenere persino privilegiata per aver avuto la possibilità di fare almeno un po' il mio lavoro i primi tre anni passati qui con voi.
All'inizio della mia vita marchigiana, tra l'altro, abitavo sulla costa, dov'ero approdata in pieno inverno, accolta da una nevicata epocale che aveva imbiancato persino la spiaggia.
Ricordo ogni giorno, o quasi, passato alla Voce delle Marche, le risate e l'impegno che ci mettevamo, ogni settimana, per fare uscire quel piccolo giornale.
Quel giornalino, come lo chiamò una volta lo zio mantovano di mio marito, facendomi non poco scaldare, era una ragione più che valida per sentire davvero, o per illudersene, di aver trovato il proprio posto nel mondo.
Non è stato così, purtroppo, e anche ammesso che sia anche il mio carattere a indurmi a nutrire sempre un certo senso di distanza dagli ambienti troppo formati e strutturati (non ho mai fatto parte degli scout e agli sport di squadra preferisco di gran lunga quelli individuali), so anche stare con gli altri. So dare il mio contributo e fare un passo indietro a favore di qualcun altro più capace.
L'importante è avere l'occasione di dimostrarlo: il che significa essere accolti per quello che si è, senza preconcetti.
L'epilogo non felice dell'avventura commerciale della mia omonima commerciante di calzette di qualità mi ha amareggiato soprattutto per una ragione personale, insomma: se ha chiuso lei che a Fermo è nata, che per Fermo ha lasciato un posto di lavoro ai tempi stra-blindato in una grossa azienda, se oltre a lei hanno mollato le redini altri commercianti una volta molto gettonati del centro storico, compresa la mia ex edicolante, che oggi fa la fioraia (non so con quale successo) a Porto San Giorgio, perché mai avrei dovuto avere più chance io, che manco ci sono nata?
Faccio un'ultima considerazione, stavolta più politica: come può essere valutata una giunta comunale che ha lasciato andare verso il tracollo un centro così bello?
Che ha tolto i parcheggi ai residenti sulla strada che ospita il Municipio, sperando in questo modo di attrarre più gente, ovviamente automunita, senza pensare minimamente a potenziare altre vie di accesso al centro, altre forme di mobilità cosiddetta leggera che ormai dovrebbero essere un obbligo per qualunque centro che si dica civile?
Come si giudica un Comune che non ha ancora attivato la raccolta differenziata porta a porta, sempre nel medesimo centro storico?
Che cosa devo pensare della frana che si è staccata a pochi metri dalla nostra casa-torre, sembra per colpa della mancata manutenzione alla collina di tufo (o qualcosa del genere) sulla quale sorge il colle più alto della città?
In questo discorso il mio mal di vivere personale non c'entra. Però c'entra, come direbbe Nanni Moretti.
Perché se in questi anni avessi assistito a scelte illuminate, fatte per i cittadini (tutti: fermani di nascita e non) e non per favorire gli interessi di qualcuno; se avessi assistito non allo svuotamento, bensì alla rinascita del centro, alla faccia della tendenza nazionale, forse mi sarei convinta che comunque ho fatto bene a venire qua.
Mi resta sempre il dubbio che in una metropoli sarei stata ancora peggio, anche se nei grossi centri il senso di estraneità sarebbe passato inosservato, dal momento che tutti, più o meno, sono anonimi abitanti di non-luoghi.
Che dire? Ricorrendo a un'espressione che utilizzo spesso in modo ironico, ormai è andata.
E d'altra parte non mi sono del tutto arresa, visto che sto preparando una foto per una manifestazione collettiva di artisti (gli altri, non io), che esprime tutt'altro sentimento rispetto a quello che ho vergato qui.
Come me farebbe chiunque abbia ancora (molta) voglia di vivere. E di partecipare. A modo mio, naturalmente.
Vi saluto con un sogno: dopo anni passati in Germania o chissà dove in giro per il mondo, un giorno, d'inverno, i miei nipoti torneranno a Fermo e si ricorderanno di quando vi avevano venduto i loro giochi da bebè, felici dei guadagni realizzati e della festosa atmosfera che li circondava. E la riconosceranno perché, nonostante il freddo pungente che spesso alberga anche da queste parti, vi troveranno tanta gente di tutte le età, che passeggia circondata dal verde, costeggiando negozi di ogni genere, colorati ed eleganti.
E' un sogno di giovinezza, lo so, fuggevole come quella vera.
E tuttavia è l'unica visione sperabile, non tanto per me, ma per quelli che a Fermo verranno a vivere. Un giorno lontano.
martedì 8 aprile 2014
Di Maigret con Bruno Cremer e del mio animo vintage. Da sempre
Sono sempre stata un po' vintage, anche a sedici anni.
Credo che c'entri l'educazione ricevuta, ma non solo. Ricordo perfettamente quando mi scrutavo la faccia a pochi millimetri di distanza dallo specchio alla ricerca dei primi segni del tempo.
Ho sempre provato un invincibile amarcord per il tempo andato, insomma.
Sarà per questo che poi, nei libri che leggo e nei film che guardo (i miei due passatempi preferiti) tendo sempre all'old style.
Prendete per esempio il Maigret di Gino Cervi, da me molto amato.
A farmelo conoscere, ovviamente, è stato il consorte, se possibile ancora più nostalgico dei bei tempi che furono della sottoscritta, ma non posso che essergliene grata.
E adesso l'ultima scoperta, si fa per dire, visto che sto parlando di un telefilm degli anni Novanta.
La7 (che anche quando si chiamava Tmc mandava una marea di repliche, esattamente come fa adesso) sta riproponendo i Maigret con Bruno Cremer, questo magnifico attore che mi somiglia vagamente ad Adolfo Celi, di cui ignoravo l'esistenza fino a qualche settimana fa.
Adoro, letteralmente, la fotografia del telefilm volutamente passatista e sono davvero impressionata dalla qualità della recitazione di Cremer, che niente ha da invidiare al nostro Cervi.
Mio marito, anzi, mi ha detto che gli sceneggiati (un'altra bella parola antica, da tempo sostituita con l'anglofona fiction) francesi sono assai più fedeli ai libri di Georges Simenon dai quali sono tratti.
Confesso, con grande contrizione, di non averne ancora letto neanche uno, ma prima o poi lo farò, ne sono convinta.
Che cos'altro aggiungere?
Guardate anche solo qualche scena di una delle molte puntate che il provvidenziale Youtube offre in versione integrale.
Se resisterete ai ritmi lenti, anzi, se ve ne innamorerete come me, allora vorrà dire solo una cosa: siete vintage anche voi. Ed è una bella cosa, ve lo dico io.
Alla faccia del tempo che corre via, rubandoci preziose perle come queste.
Buona visione e buona vita, amici.
martedì 1 aprile 2014
Harvey di James Stewart e lo spirito guida che vorrei incontrare
Tra i film che ho rivisto in lingua originale c'è anche Harvey, con James Stewart, uno dei miei preferiti. Debbo però precisare che in questo caso ho avuto bisogno dei sottotitoli (rigorosamente in inglese) per orientarmi un po' meglio nella lingua usata nella pellicola. I dialoghi sono molto ben costruiti, direi meglio letterari.
Erano, del resto, altri tempi e basta guardare qualsiasi film, anche italiano, di quegli anni per rendersene conto.
In poche parole, la storia di Harvey, che prima di essere un grande successo cinematografico, è stato per anni un vero e proprio sold out a teatro, è la seguente.
Il gigante (anche fisicamente) James Stewart interpreta il ruolo di Elwood P. Dowd, un ultraquarantenne scapolo e all'apparenza solo un po' svagato, che vive con la sorella e la figlia di quest'ultima.
La storia non lo dice apertamente, ma lo lascia solo intuire: alle origini del bizzarro comportamento di Dowd dev'esserci stato un trauma che l'ha spinto a rifugiarsi in un mondo tutto suo, fatto di sogni e di gentilezza.
Il segno tangibile della sua stranezza è però proprio Harvey, che Elwood descrive come un coniglio bianco alto due metri e che è in verità un Pooka, ossia uno spirito guida che lo consiglia e lo accompagna al bar.
Tutti sanno della sua "esistenza", al punto che perfino il barista amico del personaggio di Stewart finisce per preparargli il bicchierino quotidiano come se niente fosse.
Sembrerebbe un dramma e invece è una delle commedie più lievi e poetiche che io abbia mai visto.
Date un'occhiata al breve frammento che riporto sopra e forse capirete.
Per apprezzarlo pienamente, però, bisogna che vediate tutto il film.
Perché ne parlo oggi?
Un po' perché era un pezzo che ci pensavo. E un po' perché, ve lo confesso, vorrei tanto avere anch'io un Pooka che mi accompagna al bar.
Da ragazzina, l'ho scritto qualche post fa, avevo effettivamente un amico immaginario (con relativo cugino), ma rinverdirlo adesso non mi pare proprio il caso.
E tuttavia capisco forse molto più lucidamente di allora quanto abbiamo bisogno di sentirci protetti. E amati, incondizionatamente.
E non solo quello.
Harvey rende più simpatico l'altrimenti tragico Elwood: al suo Pooka, di cui il primo finisce per fare le veci, si rivolgono tutti per una parola di conforto, per un sorriso (pure lo psichiatra della clinica in cui vorrebbero rinchiudere il personaggio di Stewart finisce per crederlo reale).
Chi ha il proprio spirito-guida, insomma, sta meglio e fa stare meglio gli altri.
Sì, vorrei tanto incontrarne uno anch'io.
E voi?
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sabato 29 marzo 2014
Grazie a tutti
Ho deciso di mostrarmi qui (con la nostra gatta Bice) e anche nell'immagine del mio profilo perché... "addè" (= ora in marchigiano) basta con i travestimenti e l'infanzia.
Sono stata una bambina molto felice e so che è una gran fortuna. Ma quella bambina non c'è più da un pezzo, se non nel mio io più profondo.
E poi la foto che vedete sopra è anche su Facebook, quindi perché nascondermi proprio sul mio spazio personale?
A parte la botta un po' patetica di narcisismo (a proposito di Narciso, giusto l'altro ieri, nella lezione d'inglese con un nuovo insegnante sudafricano, ho riletto il mito di quest'ultimo e di Eco, vanamente innamorata di lui), ho deciso di mostrarmi per uno scopo preciso.
Voglio dirvi grazie.
Mi rivolgo a voi, sparuti miei lettori, di cui ignoro (forse non in massima parte, visto che siete pochi) l'identità.
Non m'importa quanti siamo, davvero.
Importa che ci siete e che dedichiate un secondo, un minuto o più alle mie frasi, ai miei video e alle mie foto.
E' un onore essere letti ed è per questo che vi dico grazie.
Oltre che un onore, è anche un miracolo essere scelti: c'è talmente tanta roba in rete che io stessa, a volte, mi domando perché qualcuno dovrebbe passare anche di qua.
E invece succede ed è bello.
Chi mi conosce o ha imparato a farlo proprio quassù sa che non me la passo proprio benissimo, professionalmente parlando.
Però ho imparato, giorno dopo giorno, a darmi sempre un obiettivo nuovo, una frontiera, anche minima, da esplorare e quando ci riesco mi sento grande.
Perciò dico a chi fosse nelle pesti più o meno come me: c'è sempre qualcosa che non abbiamo ancora fatto, c'è sempre un dettaglio che non abbiamo notato anche nel paesaggio che vediamo tutti i giorni dalle finestre di casa nostra, c'è sempre una parola nuova da imparare.
In questo periodo, per esempio, sto leggendo un libro eccezionale: parlo di Felici i felici, di Yasmina Reza. E' talmente bello che sto andando pianissimo, per gustarne ogni singolo passaggio.
Ho anche scoperto le avventura della gattina Chi, un manga giapponese, veramente molto carino.
Gli alberi sono tutti fioriti e anche se gli anticorpi scricchiolano, sono viva.
Siamo vivi.
Anche voi che mi leggete lo siete ed è sorprendente.
Ancora grazie, quindi, e ora fuori tutti: usciamo a respirare.
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giovedì 27 marzo 2014
Gilmore Girls, bye... see you soon!
Ebbene, il giorno dell'addio (o arrivederci, chissà) alle Gilmore Girls è arrivato.
Chi l'avrebbe mai detto che la serie sarebbe finita di mercoledì, senza alcun preavviso?
Sul settimanale del Corriere della Sera che uso prevalentemente per tenere sotto controllo i programmi tv, mica c'era scritto? Anzi, lassù risulta che Una mamma per amica, il titolo improvvidamente scelto in Italia al posto dell'originale, vada avanti almeno fino a oggi, ultimo giorno della loro programmazione settimanale.
Come sono ingenua, certe volte.
Sarà anche questa una delle ragioni per cui ho amato moltissimo questo serial tv, il più bello che abbia mai visto, almeno a mia memoria storica.
Adesso che sono costretta a dirgli (per lo meno) arrivederci, ne comprendo fino in fondo le ragioni.
Sono riuscita a immedesimarmi un po' in tutti i personaggi principali.
Per certi aspetti, sono stata davvero come Rory Gilmore, la girl più giovane, bravissima a scuola, destinata, quasi per dna, a una carriera luminosa.
Anche se poi, nella mia realtà personale, credo di somigliare di più al ritratto, non proprio lusinghiero, che fa di lei quello str... di Mitchum Huntzerberger...
Per altri aspetti, per fortuna, mi sono sentita molto simile alla grandissima Lorelai, la girl più grande, la giovane madre dotata di uno spirito indipendente oltre che di una carica vitale davvero straordinaria. Ho adorato ogni battuta che hanno fatto pronunciare a questo irripetibile personaggio e mi sono convinta che anche l'attrice che l'ha intepretato, la 47enne Lauren Graham, sia un po' come la sua Lorelai.
Una tale naturalezza di recitazione è evidente, però, anche in Luke Danes, alias Scott Patterson, il proprietario della tavola calda che, fortunatamente, tornerà a stare con la Gilmore senior, come s'intuisce dal finale aperto, che sinceramente ho trovato bellissimo.
Certo, non potevo immedesimarmi anche in Luke, ma ho trovato qualcuno che gli somiglia molto proprio nella mia vita privata...
E vi dirò che ho amato molto anche i nonni Gilmore, persino la rigida, ma a tratti meravigliosamente umana, nonna Emily, interpretata da Kelly Bishop, un'attrice dotata di una voce profonda da diva del passato davvero notevole (ascoltatela in lingua originale e capirete di cosa parlo).
Nonno Richard, poi, è talmente simpatico: è il perfetto padre di Lorelai, sembra anzi proprio che abbia passato alla figlia tutta la sua ironia un po' blasé.
Su Paris Geller mi sono già soffermata, quindi non voglio ripetermi.
Ma insomma: anche nella parte che meno mi è piaciuta del telefilm, ossia le puntate incentrate sull'improbabile matrimonio tra Lorelai e Christopher (comunque un discreto figliolo, se vogliamo limitarci al solo aspetto estetico), ho sempre trovato nel complesso credibile la storia e mi sono emozionata e a volte anche commossa, come mai avrei immaginato prima di guardarlo.
E così so che mi mancherà assai l'appuntamento quotidiano con le Gilmore, anche se non escludo di procurarmi i dvd che ne hanno ricavato, soprattutto perché sono in lingua originale e in italiano: almeno farò esercizio in una maniera sicuramente piacevole.
Vi lascio con la scena (penso stra-nota per tutti i fan) della cosiddetta serenata che Lorelai dedica a Luke.
Subito dopo ne dedico io una alle ragazze Gilmore, tratta da un film cult (è una sorpresa: non vi anticipo nulla), uno di quelli che sicuramente i due personaggi patite di cinema avrebbero amato assai.
Grazie della compagnia, ragazze Gilmore. Lunga vita (letteraria e reale) a voi.
Subito dopo ne dedico io una alle ragazze Gilmore, tratta da un film cult (è una sorpresa: non vi anticipo nulla), uno di quelli che sicuramente i due personaggi patite di cinema avrebbero amato assai.
Grazie della compagnia, ragazze Gilmore. Lunga vita (letteraria e reale) a voi.
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martedì 25 marzo 2014
La scrittura e la mia cifra personale: ritorno al passato
E' passato quasi un anno dalla mia esperienza sui Sibillini (ne ho parlato su Minime Storie, se vi va andate di là), ma non immaginavo quanto si fosse sedimentata dentro di me, fino a stamattina.
Ho appena finito di rileggere il raccontino che ho ricavato da uno degli esercizi proposti da Minuti Scritti, l'appassionante manuale di scrittura creativa di Anna Maria Testa, che suggerisco a tutte le persone che vogliano divertirsi un po' con le parole.
Non ricordo con precisione quale fosse la traccia da seguire ed è peraltro probabile che l'abbia cannata. Di una cosa, infatti, mi sono resa conto, mentre svolgevo a uno a uno gli esercizi della Testa: parto per la tangente con una rapidità più che felina.
Il risultato che vi propongo sotto, perciò, è frutto del mio divagare attorno agli input letti nel manuale, ma il motivo per cui lo condivido è solo uno: mi fa troppo pensare ai miei Racconti dal passato, la rubrica che trovate in alto, accanto a Gli sfaccendati.
Mi piacciono le storie ambientate in treno da sempre, è evidente.
E quelle in cui i sogni che si intrecciano con la realtà.
Niente di che, certo, però, forse, la mia cifra personale è tutta qua.
A voi (se lo gradirete), buona lettura.
UNA MAGA PER AMICA
“Non c’è estate senza mare!”, osservò con enfasi Liliana.
Marco la trovò ridicola: “Hai ragione, tesò, ma che ci possiamo fare se
dobbiamo stare su?”, le rispose guardando dal finestrino le macchie degli
ombrelloni e qualche corpo in ammollo. Tanto contento non era neanche lui, ma
il lavoro è il lavoro. E poi la montagna in fondo non gli dispiaceva. “Scusate
se mi intrometto, ma dove state andando?”, chiesa la signora occhialuta seduta
di fronte a loro. Moriva dalla voglia di attaccare bottone, i due ragazzi se
n’erano accorti già alla partenza, diverse ore prima, dalla stazione di Lecce.
Accanto a lei, un ometto di mezza età, tutto insonnolito
aprì un occhio solo, come i gatti, disapprovando assai di essere stato
svegliato da quell’improvvido vociare. “Che diavolo gliene importa dove vanno
quei due disgraziati?”, pensò tra sé e sé, aggiustandosi meglio sul sedile.
Educatamente Liliana rispose: “A Trento e poi in Val di Non:
faremo gli animatori turistici in un hotel, tutta l’estate”. Istintivamente le
venne da abbassare un po’ lo sguardo.
Marco socchiuse appena gli occhi indirizzando anche un vago
sorriso alla signora. “E léi?”, le domandò per pura cortesia..
“Ah, che bello il pugliese! Mio marito era di Bari, ma
viveva a Tricase… io sono di Milano, invece, mio marito non c’è più e i miei
figli abitano a Londra. Eh, com’è brutta la vecchiaia…”, sospirò con il chiaro
intento di proseguire la conversazione.
Invece niente: i due ragazzi non sapevano proprio cosa
risponderle. Con la testa erano già proiettati lontano, dubbiosi e forse
spaventati. Ce l’avrebbero fatta a resistere senza la cucina della loro mamma e
i loro rispettivi fidanzati? “Brutta davvero, già, meno male che quei due non
hanno abboccato, va”, pensò con sollievo il tipo, serrando di nuovo gli occhi.
“Biglietti, prego! Signore? Signore?”.
Stravolto, si accorse del ghignare dei due ragazzi, mentre
cercava affannosamente il biglietto in tutte le tasche. La signora lo guardò dubbiosa.
“Eccolo qua”, sospirò il tipo.
La signora gli sorrise. “E poi dicono le borse delle donne,
eh… dove è diretto?”.
Stavolta non poteva sfuggire.
“Padova”.
“E’ veneto?”.
“No”.
“Va in vacanza?”.
“No”.
“Lavoro?”.
“No”.
Liliana e Marco seguivano lo scambio come fossero a una
partita di tennis.
Che cos’altro gli avrebbe chiesto prima di mollare?
“A Padova ci sono dei miei cugini, non li vedo da molto.
Magari qualcuno sarà anche morto... la vita è così, del resto, prima dà e poi
si riprende tutto. Ma voi siete giovani, non ci pensate, eh”.
Nessuna risposta.
Il tipo richiuse gli occhi.
Marco e Liliana si infilarono gli auricolari.
La signora si alzò, prese la sua borsa e, chiedendo
permesso, uscì nel corridoio.
Si addormentarono per davvero.
Ridestandosi, non poterono credere ai loro occhi.
Non c’era più un bagaglio, né di Marco né di Liliana né
tanto meno del tipo laconico. “Ma che accidenti?? Ma quella p… ma porc…”, gridò
quest’ultimo in preda al panico.
Liliana sbiancò e pianse, Marco si tastò le tasche
atterrito: non aveva più neanche il cellulare. E adesso?
Scrutando intorno, alla fine, notò qualcosa sul sedile
dov’era seduta prima la signora. Era un foglietto bianco, piegato in due. Marco
lo lesse tra sé, mentre Liliana e il tipo cercavano di fare altrettanto
assiepandosi intorno a lui.
“Belli miei, avete presente quei personaggi delle favole che
si travestono per sottoporre gli umani a qualche prova? Beh, che ci crediate o
no, io sono uscita da una storia delle più antiche. Volevate arrivare
tranquilli tranquilli a destinazione? Bastava che mi parlaste un po’ di più,
giusto qualche battuta, eh, magari anche sul tempo. E invece avete fatto come
tanti, zitti zitti, le cuffie e il sonno forzato.
Beh, la prossima volta ci penserete due volte.
Ah, dimenticavo. Volevo dirvi giusto una cosetta in più. La
vostra roba è in buone mani. C’è tanta gente che c’ha bisogno.
Adieu. La maga
Sibilla”.
Tiziana richiuse il libro e chiese alla mamma: “Mamma, a che
ora arriviamo? Rispondimi, per favore. Sennò poi mi devi ricomprare tutti i
vestiti”.
La mamma guardò interrogativamente la sua bambina e poi le
disse: “Tra pochi minuti. Anzi, svelta, rimetti il tuo libro nello zaino, su…
ma che cosa stavi leggendo? Non è una storia per bambini, mi pare”.
“Me l’ha dato la maestra Ida, quella delle Marche,
ricordi?”.
“Ah, la streghetta bruna, sì sì. Comportati bene con lei, mi
raccomando”.
“Sì, sì... abbiamo tutti i bagagli, ci vuole bene”. Tiziana
si accorse che la mamma non la stava già più ascoltando.
Giorni dopo la sentì domandarsi: “Dov’è finito il mio
rossetto?”.
Pensò alla signora che chiedeva l’elemosina davanti al
supermercato.
Era in buona mani, poteva stare tranquilla.
venerdì 21 marzo 2014
Loretta Emiri, Giacomo Leopardi e il progresso dell'uomo
Per pura coincidenza, ho terminato il montaggio del video che vedete sopra proprio la sera di mercoledì, giorno nel quale sono andata ad assistere alle Operette morali, lo spettacolo del Teatro Stabile di Torino, con la regia di Mario Martone, ricavato dagli omonimi scritti di Giacomo Leopardi, in scena al Teatro dell'Aquila di Fermo.
Giusto a chiusura della rappresentazione, sul palcoscenico è stata innalzata una enorme vela, punteggiata di segni geografici e abbozzi di mappe: l'accorgimento scenografico doveva trasportare noi spettatori sull'Oceano Atlantico, solcato da Cristoforo Colombo quando viaggiava alla volta del Nuovo Mondo.
Speravo tanto che nel dialogo tra l'attore che interpretava il famoso navigatore italiano e Pietro Gutierrez, il suo compagno d'avventura (personaggio affidato al bravissimo Renato Carpentieri, quello che in Caro Diario scappa via da Alicudi, urlando "frigoferooo, ascensoreee, televisioneee, telefonoooo"), si facesse un qualche accenno alle conseguenze dello sbarco nelle Americhe.
Certo, come la pensasse il grande poeta-filosofo di Recanati sul progresso lo si poteva capire anche da altri dialoghi (fenomenale, per esempio, quello tra Timandro ed Eleandro).
Un riferimento esplicito, però, mi avrebbe aiutato a trovare un aggancio tra l'entusiasmante esperienza teatrale dell'altra sera e quella vissuta in compagnia di Loretta Emiri, la mia amica scrittrice, a sua volta amica (alleata) degli Indios d'Amazzonia, che ho avuto l'onore di accompagnare durante la sua conversazione con il pubblico presente lo scorso 8 marzo a Monte Giberto, in occasione dell'incontro organizzato dall'Università dell'educazione permanente e del tempo ritrovato di Grottazzolina, un altro alacre paese in provincia di Fermo.
E tuttavia non importa.
L'aggancio tra il pensiero dell'immortale genio recanatese e quello di Loretta c'è comunque.
Il progresso, di per sé, è un'illusione, sembrano dire entrambi. O meglio: tale è il progresso tecnologico, se privo di analogo progresso morale da parte degli uomini.
Negli anni Settanta, ossia il periodo in cui Loretta è approdata in Amazzonia, gli indios brasiliani (e non solo loro) erano ridotti a poche centinaia di migliaia. Grazie all'intervento di missionari, religiosi e laici, le loro condizioni sono andate via via migliorando, al punto che l'eguaglianza tra indios e bianchi (ma anche, naturalmente, meticci di ogni ascendenza) è diventato principio fondante della Costituzione del Brasile, entrata in vigore nel 1988, dopo la fine della dittatura militare. E Loretta è giustamente orgogliosa di aver dato il suo contributo alla cosiddetta opera di "coscientizzazione" delle popolazioni native di quel bellissimo Paese all'altro capo del mondo.
Perché sia andata lì e non in Africa, per esempio, la scrittrice indigenista l'ha spiegato con parole semplici, intrise di quella modestia orgogliosa che contraddistingue il suo carattere. Loretta non voleva "evangelizzare" nessuno e in Brasile, almeno per l'esperienza che ha avuto lei, non era questo lo scopo principale che ci si prefiggeva.
I primi tempi, anzi, si è dovuta rimboccare le maniche prestando anche aiuto sanitario, lei che era, nella sua prima vita, titolare di un'agenzia di assicurazione, niente di più lontano dalle esigenze di pura sopravvivenza nutrite laggiù all'epoca.
In seguito si è trasformata in formatrice di maestri indios ed è lì, immagino, che si deve essere compiuta la sua totale trasformazione.
Ho volutamente lasciato l'attimo di commozione che si avverte nella sua voce mentre legge il brano dedicato agli abbecedari realizzati direttamente dai nativi.
Tra le parti che ho tagliato, con un certo rammarico, c'è la risposta che la nostra "eroina dei due mondi" ha dato a una delle molto stimolanti domande del pubblico: se gli indios del Nord del Brasile, gli Yanomami con i quali Loretta ha anche vissuto direttamente in foresta, erano i più preservati dal contatto con l'uomo bianco - ha chiesto a un certo punto una signora - perché andarli a disturbare?
Perché il "disturbo", ha risposto la scrittrice, c'era comunque già stato: a insidiarli, ci avevano già pensato i cercatori d'oro e la strada da loro fatta costruire che si addentrava nella foresta lambendo anche i villaggi più sperduti.
Si potrebbe dire: ma il progresso non si può fermare. Certo che no, ma mi domando e vi domando: è progresso quello che porta con sé anche malattie, fisiche e morali, come ha raccontato Loretta?
E in ogni caso, anche ammettendo che, in effetti, non si può più tornare indietro, chi l'ha detto che tutti vogliamo vivere in città assediate da fumi e rifiuti? Perché, in altri termini, invadere tutto il pianeta con un modello di sviluppo che sta già da anni cominciando a implodere?
Non si tratta di essere fintamente ecologisti, si tratta di lasciare coesistere, a beneficio di ogni creatura vivente, alternative concrete allo stile di vita della maggioranza dei popoli.
Anche senza arrivare all'essenzialità dei nativi amazzonici, insomma, potremmo imparare da loro moltissimo. Potremmo esercitarci a essere più autentici, più umani, in una parola.
Leggendo Loretta e ascoltandola parlare, si coglie tutta la vastità del mondo. E ci si ricorda, come diceva Leopardi nel Dialogo della natura e di un islandese, che non ne siamo affatto i padroni.
La superiorità dell'uomo, quella sì, è un'illusione.
Chi volesse continuare a perseverare in questa convinzione, in ogni caso, impari a esserlo davvero, lasciando in pace chi ha un'altra idea, di sé e degli altri.
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