mercoledì 2 luglio 2014

Un vuoto dopo l'altro, e l'Iva se ne va


E' fatta: la partita Iva è chiusa. Quando sono uscita dallo studio della commercialista, mi è venuto istintivo dirigermi verso il Passetto, simbolo della città di Ancona che conosco veramente poco.
Paradossalmente, la zona che mi è più nota del capoluogo regionale marchigiano è proprio quella intorno al monumento presumo di origine neoclassica.

Non ho fatto granché un affare a venire da queste parti, ormai lo posso dire senza infingimenti.
Il correttore automatico mi segna l'ultima parola della precedente frase come errore. Non la cambio, tanto, a che cosa mi serve saper scrivere?

Mi stoppo immediatamente, non ho intenzione di lagnarmi. Facevo solo della stupida ironia vagamente partenopea. A dirla tutta, sto pensando come al solito a Totò e al suo meraviglioso lamento arabeggiante nel personaggio di Le Mokò "io non ci volevo venireeeee", quando scopre di trovarsi nella casbah in gravi, comicissime, pesti. Ogni volta che vedo quella scena mi escono le lacrime, dalle risate.

E insomma. Non avevo scelta. Non avendo guadagnato granché lo scorso anno (quest'anno non ne parliamo proprio), non potevo di certo correre il rischio di farmi massacrare dal Fisco.

Ai tempi della chiusura della Voce delle Marche mi si diceva continuamente "si chiude una porta, si apre un portone". Era novembre 2007: sette anni dopo mi pare che si sia aperta una bella voragine.
So che il problema non riguarda solo me. La mia commercialista non sembrava particolarmente sorpresa davanti alla mia decisione: devo essere stata l'ultima di una lunga serie.

Mi trovo a sperimentare nuovamente quell' "e dopo?" che ho descritto in un raccontino che (mi pare) potete trovare nella pagina in alto, sul mio passato di pseudo-scrittrice.
Solo che adesso ho quasi 43 anni e temo seriamente che il dopo sia la caritas che immaginava mia madre, equivocando la parola che le avevo detto al telefono, ossia "carisap", una banca che oggi non esiste più.

Mio cognato italo-tedesco oggi se ne va da suo padre nella terra che gli ha dato i natali, ma da quel che ho capito saranno vacanze molto diverse. Inconsciamente spero quasi che ci spiani la strada.
Come ho detto a qualcuno, questi sono strani giorni: mi sento più lucida e confusa che mai.

Ho in testa tutti gli errori commessi e tutte le strade che non voglio (o posso) più percorrere, ma non riesco ancora a decidermi da dove cominciare. Da dove ricominciare.
Torno a vivere a Chieti? Provo a mandare curricula dove capita in regioni più dinamiche?
Organizzo altre presentazioni del libro? Compro una casetta e l'affitto? E poi come campo, però?

Sapete come ho reagito all'affollamento della mia testa? Andando al mare.
Mi sono incremata ben bene, ho preso il mio libro in inglese per sentirmi meno in colpa e via, lettino, occhiali da sole, cappello di paglia, tutto il pomeriggio.

E adesso, via, verso mio padre, che ha bisogno di me. Almeno a qualcuno sono utile.
Passerà, lo so. Passa sempre. Passa tutto, del resto.

venerdì 27 giugno 2014

Foto e parole per raccontare come si può. E andare avanti


Ho pubblicato questa fotografia sulla mia pagina Facebook, riscuotendo un certo gradimento. Non faccio caso, in genere, ai "mi piace" raccolti, ma in questo caso ne sono stata contenta per il significato che ha per me l'immagine.
Il cactus che vedete è sul balcone dei miei genitori da sempre. Credo di averlo fotografato (anzi, sicuramente l'ho fatto) un sacco di volte, soprattutto nel periodo in cui ho cominciato a usare la reflex, l'ultimo anno di liceo. Non ho ancora avuto il coraggio di sfogliare le centinaia di fotografie che giacciono in alcune scatole di latta, di quelle belle rigide, dei biscotti e dei panettoni, ma sono certa che tra loro ce ne sarà almeno una che ritrae la stessa pianta quando era molto più piccola di come è adesso.

Un amico di origine chietina che ho conosciuto (per ora) solo sul social network (che, a proposito di questo, ogni tanto regala anche piacevoli incontri, nel mare scivoloso delle chiacchiere poco importanti nelle quali spesso indulgo anche io), mi ha giustamente detto che la fioritura ritrovata per puro caso nei giorni appena trascorsi nel luogo in cui sono cresciuta è un segnale positivo.
Non so se sia vero, ma comunque mi ha rincuorato leggerlo. Quindi lo è davvero, un segnale positivo. Non mi ricordo chi lo diceva, ma è proprio vero che una cosa esiste quando le si dà un nome. Le parole non rispecchiano mai completamente i nostri stati d'animo, attraversati da contrastanti e insondabili accavallamenti del cuore, ma a qualcosa pure servono.

Le parole fissano ciò che non si può mai fermare, come i minuti irripetibili che stanno scorrendo anche adesso che scrivo.
Chi fotografa per hobby come me, poi, sa anche quanto la fotografia faccia lo stesso in un tempo ancora più rapido. Anche la fotografia come le parole, però, non racconta mai del tutto ciò che siamo, ciò che pensiamo. Però ci tranquillizza pensare il contrario.

Mi attacco alle parole e alle immagini più che mai in questi giorni.
La fotografia che ho scattato a mia madre non più di tre mesi fa sullo stesso balcone tuttora pieno delle sue piante oggetto spesse volte dei miei scatti mi sembra che cambi aspetto ogni volta che guardo lo schermo del mio cellulare.
Sorride, mia mamma, ma a volte sembra malinconica, altre ironica, come è stata davvero.

Non abbiamo scelto quella foto per la tomba, perché ci sembrava inadatta: più passano i giorni e più non vedo quell'ombra di sofferenza che vi abbiamo colto all'inizio.
Sono in ogni caso contenta, orgogliosa direi, che ne abbiamo scelto un'altra sempre mia, scattata in giorni d'estate, così crudelmente lievi.
Lo stesso è successo per l'altra foto che regaleremo a chi le ha voluto bene. Lo scatto, stavolta, è invernale, ma l'occasione era altrettanto felice.

Sì, abbiamo fatto bene a tenere per noi quell'ultimo scatto, che poi ultimo non è. L'ho fotografata anche in ospedale, mentre dormiva. Non ho il coraggio di cancellarla, ma non posso nemmeno guardarla. Non avrei potuto fare il fotoreporter di guerra, di questo sono sicura.

Anche a lei piaceva molto fotografare. Nel dvd che le abbiamo regalato per i suoi settant'anni c'è un intero "capitolo" in cui l'ho ritratta nell'atto di scattare. Sul suo computer ci sono le foto che ha fatto lei, molte vivaci e dinamiche, come il suo temperamento.
Un giorno potrei raccoglierle e ricavarci un altro video. Sì, credo proprio che lo farò.

Di sicuro le sarebbe piaciuto guardarlo. E' stata sempre molto felice di partecipare alle attività di tutti noi, di incoraggiarci quando era il caso. Nei tempi andati della mia adolescenza e prima giovinezza, per dire, mi ha pure aiutato un sacco di volte a sgombrare la testa dalla confusione che, tuttavia, ahimè, non mi hai mai abbandonato. Ma questa è un'altra storia.
Non dimenticherò mai quella volta tra le tante, per dire, in cui mi ha sbattuto in faccia la verità che non volevo sentire, e cioè che il ragazzo che tanto mi piaceva non mi avrebbe mai considerato.

Come aveva ragione, ma come mi fece male sentirmelo dire allora.
E' stata, voglio dire, anche duramente chiara e nel tempo mi sono accorta di aver imparato a fare lo stesso. Almeno con le persone che amo di più. E lei di sicuro mi ha amato molto.

Grazie, mamma. Tutto quell'amore è ancora qui.
Passo dopo passo sto riprendendo in mano la mia vita. Spero di sentirti sempre vicina. Spero di non dimenticarmi mai di te.
Queste parole non raccontano del tutto la verità di ciò che provo, ma, appunto, fissano il presente. Un presente di lucido vuoto che non so dipingere meglio di così.
Mi manca la tecnica. L'acquisirò come posso. Un giorno dopo l'altro, come nella canzone di Luigi Tenco usata in una delle serie di Maigret di Gino Cervi. Sono un po' pesante, sì. E pazienza.
Vero, mamma?

venerdì 20 giugno 2014

Le donne della mia famiglia e il cambiamento che verrà. Per forza


Non so se si capisce, ma questa donna anziana mi era parente. Anzi: mi è parente, benché se ne sia andata quasi un anno fa. 
Non avrei mai immaginato di ritrovarmi orfana di nonna e di mamma in meno di un anno. Si può essere razionali quanto si vuole, ma la morte ti spiazza sempre.

Non sono particolarmente triste, solo molto malinconica. E stanca. Quissù (sulla torre-casa) è tutto troppo distante e ovattato e io, invece, ho bisogno di vita. Sento gli uccellini cinguettare, mi rinfranco alla vista dei nostri mici che passano sotto la mia scrivania, ma non mi basta.
Non mi bastava prima, non mi basta adesso.

Quella donna lassù ha avuto una vita lunga, non sempre facile.
Da ragazza era secca secca, molto più di quanto io non sia mai stata. Nella foto del suo matrimonio con il mio nonno omonimo (quello ipocondriaco, una vita assai infelice dalla pensione in poi, purtroppo) aveva uno sguardo vispo, da teppa. La nostra gatta Bice, forse, nella sua precedente vita era un tipetto come lei. 

Mi mancano le sue battute fulminanti, ma sapevamo che poteva succedere che ci lasciasse.
Non riesco invece ancora a pensare all'altra, enorme perdita come a qualcosa di atteso. 
E' troppo presto, ma il buco che verrà mi spaventa.
Scrivo, probabilmente, anche per non sentire il silenzio che è in me, non tanto quello esterno, che non è mai del tutto privo di suoni.

Lentamente, molto lentamente, sto tornando alla mia "anormalità normale", come mia mamma chiamava la sua condizione dopo aver scoperto il male che ce l'ha rubata.
Non mi piaceva quel che le stava capitando e non mi piace affatto il mio presente.

Lo so, qualcosa cambierà, tanto tutto cambia sempre. Per forza.
E la telefonata di stamattina della mia amica di liceo è di buon auspicio. Sai, Jessika, volevo dirle, ho comprato due racchette a venti euro giusto l'altro giorno.
Forse il mio cambiamento ricomincia dal tennis, abbandonato troppi anni fa.
Dovevate vedermi nel campetto sgarrupato sotto casa di mia zia a tirare la pallina contro il muro.
Non c'erano testimoni, ma quei minuti sottratti al pranzo malinconico mi hanno fatto bene.

Avrei voluto forarlo, quel muro, senza rabbia, solo con tutta l'energia che vorrei usare una volta buona, prima che sia troppo tardi.
Le donne della mia famiglia che vivono anche dentro di me, con un po' dei loro geni, della loro educazione, mi hanno lasciato chiari esempi di coraggio e azione.
Non credo che li tradirò, ma spero di non metterci troppo.
Non me lo posso più permettere.

venerdì 13 giugno 2014

Il passato in fumo, come le nuvole


Mi percorrono sentimenti contrastanti, per cui, a chi mi ha chiesto "come va?", non so davvero che cosa rispondere. Mi sembra solo incredibile che non sia passata neanche una settimana dal momento in cui, mia sorella ed io, abbiamo visto la trasformazione di nostra madre in qualcosa che non so definire.
E' come se fossero trascorsi secoli e, da un altro lato, è come se quel commiato non fosse mai avvenuto.

Stamattina con nostro padre è andato mio cognato (il tedesco-abruzzese, gentile d'animo e preciso, sulle cose tecniche, per lo meno). Un pochino me ne sento sollevata, perché, obiettivamente, la ditta di pompe funebri vicino a Iurino (per quelli che sono di Chieti, per gli altri sto parlando dello stradone anonimo e trafficato che porta verso Francavilla, il paese di mare noto pure all'estero come esempio di cattiva, anzi pessima, urbanizzazione) non è proprio un bel posto.

E d'altronde la morte produce pure incombenze di questo genere. A tratti, mentre eravamo all'obitorio, mi veniva persino da sorridere osservando gli orrendi paramenti sacri dietro la bara di mia madre e ascoltando il racconto raccolto da mia sorella dalla viva voce del cassamortaro anziano circa le nuove mode per le casse, oggi sempre più chiare e con rivestimenti pendant, niente più legno scuro per la bara né cremisi  per le fodere interne, oggi ritenuti troppo troppo funerei, insomma.

Pensavo anche a tutte le volte che abbiamo visto, anche con mia madre, i molti film di Totò in cui la morte viene spesso evocata in tono scherzoso. In particolare, mi veniva in mente la scena del film di Monicelli e Steno nella quale lo sfollato Antonio incontra l'ex custode del cimitero nell'abitazione che lui si è procurato di frodo. Il principe De Curtis aveva una grande paura della nostra ahimè comune fine ed è effettivamente vero che anche nei suoi film più riusciti c'è sempre una vena di malinconia che a tratti, a mio personale giudizio, può dare persino angoscia.

Da ragazzina mi capitava ogni tanto di provare degli strani pugni allo stomaco. Devo averne già parlato un po' di post fa, dicendo di averli risentiti.
In questi giorni così difficili, invece, quella morsa non c'è ed è un altro evidente segno di cambiamento, non so quanto definitivo.

Ho acquisito, almeno per il momento, una certa lucidità di pensiero.
Non voglio troppe rotture di balle, in termini più terra terra.
Ho ricevuto alcune mail molto belle e ne sono rimasta contenta. Un amico caro che ha subìto un forte stop, per fortuna in superamento, mi ha fatto leggere delle righe bellissime del filosofo Emanuele Severino.
Qualcuno, invece, non è stato capace neanche di dirmi un generico "mi dispiace".
Un paio di persone care non sono venute al funerale, ferendomi un bel po'.

So che non è facile confrontarsi con la morte, di sicuro anch'io, fino a qualche tempo fa, non avrei saputo come comportarmi. Penso tuttavia che basterebbe essere se stessi, anche riconoscendo la propria difficoltà in modo aperto.

Non sono nessuno per giudicare: anzi, i giudicanti in genere mi stanno pesantemente sulle scatole.
Al contempo, però, non sono dotata di spirito cristiano e il perdono a priori non riesco proprio a darlo.
La mia cara amica di liceo Valentina mi ha detto "non ti arrabbiare" e io le ho risposto, quasi con disperazione, "non sono arrabbiata, solo dispiaciuta".

Troppi dispiaceri insieme fanno male, per cui preferisco tacere avvolgendomi in questo silenzio così peculiare, senza tuffi allo stomaco e lacrime che vengono solo a tratti.
Sta tuonando, la mia pelle è bollente per via del sole che ho preso in acqua ieri, giocando con i miei nipoti. Ogni tanto anche loro vengono percorsi dalla malinconia, oggi, mi è parso, più dei giorni scorsi.

Sono proprio loro quelli da proteggere, di certo non io che mi avvio alla piena maturità della vita. Nè i miei amici troppe volte assenti durante questi due lunghi anni di malattia, vissuti, per fortuna, nella vicinanza della nostra bella e affettuosa famiglia allargata.
Non sono affatto contenta che ci abbiano visto discutere, noi adulti (io e mio padre ieri sera per la melanzana alla parmigiana che secondo me era andata a male, figuriamoci un po') né di non riuscire a essere la zia giocherellona che hanno conosciuto. So che capiscono, ma restano pur sempre bambini.

Non sarà facile neanche tornarmene a casa mia, che casa mia non è, ma è abitata dal mio uomo e i nostri mici adorati. Quei due, così asociali, non hanno conosciuto mia mamma, mentre lei ha spesso contribuito al loro sostentamento. Per analogia con i nipoti, sono pur sempre gatti, bisogna viziarli e coccolarli sperando che ci ricambino in qualche modo.

Il mio passato è, in definitiva, sfumato, come quelle nuvole sfilacciate che ho fotografato ieri mattina, uscendo dalla banca di mio padre. Un posto che da bambina e da ragazza frequentavo moltissimo. Che strano tornarci dopo così tanto tempo.

Non voglio dire che se ne sia andato via, solo che è nebuloso, lontano e vicino come quel cielo dal quale, forse, mia mamma ci sta osservando tutti.
Starai ridendo?
Lo spero, con tutto il cuore.

sabato 7 giugno 2014

Oltre la rabbia, a testa alta



E' bastata una brevissima ricerca su google per scoprire nome e cognome della zoccola che ha risposto in modo indegno non solo a me, persona nervosa e incazzosa, ma anche a mia sorella, persona posata e razionale. Persino lei ha finito per esclamare: "Ma è etico comportarsi così per un medico?"; con faccia livida di costernazione.

Poi però, in compenso, ci sono le giovani allieve infermiere che ti dicono "mi dispiace, che discesa rapida, hai gli occhi come tua mamma" e soprattutto l'angelo di Marina, una giovane degente sempre più sconfortata per l'assenza di risposte e di terapie certe, che ha dormito accanto alla nostra luce tutti questi giorni, vegliando su di lei con una naturalezza incredibile, nonostante fosse via via sermpre più stufa di starsene buttata in quell'anonima corsia.

Non ho fatto neanche in tempo a chiederle il cognome, vorrei tanto sapere quando la dimettono. Spero lunedì, come le hanno promesso.
Marina, grazie di cuore, davvero. A te e ai tuoi fantastici genitori. Era destino che incontrassimo proprio voi, con la vostra discrezione, la vostra evidente onestà. Grazie davvero.

Domani ci aspetta una giornata dura. A chi ci vuole bene, abbiate pazienza se qualche volta non sapremo assolvere bene il nostro compito di familiari affranti.
Vorrei però arrivare a testa alta lunedì mattina, terrò duro durante la messa (almeno spero), mettendo da parte tutto il mio tetro agnosticismo.

Lo faccio per una ragione importante. Ci riuscirò.

Non è il tempo delle vendette né della rabbia.
Giustamente una zia medico stamattina mi ha detto: "La vita è breve e chiede a tutti. prima o  poi, i conti". Chi ha fatto male, chi fa del male, sparirà come tutti, ma a futura memoria resteranno solo le gesta negative, la memoria della sofferenza causata agli altri.

Mentre chi ha fatto del bene resterà per sempre nei ricordi più belli. Più grandi.
Non riesco a dire altro. Non voglio dire altro.
Non ti tradirò mai. E' una certezza.

giovedì 5 giugno 2014

La mia battaglia anti-ipocrisia e gli scherzi (belli) della stanchezza



Ve l'ho detto: è cominciata la mia personale guerra di liberazione dalle ipocrisie.
Per una volta, però, racconto un episodio semi-divertente. Almeno ci provo.
Torno davanti alla porta del reparto e, trovandola chiusa, mi intrattengo a scambiare due chiacchiere con uno dei miei zii, in paziente attesa di entrare. Oggi non era giornata: c'erano talmente tante barelle lungo il corridoio che era assolutamente escluso che potessimo andare in massa da mia mamma fuori dall'orario delle visite. Che poi, tra l'altro, neanche in assoluto ci si può assiepare in una stanza in cui è ricoverata anche una povera ragazza sull'orlo di un esaurimento nervoso. Ed è obiettivamente giusto così.

Mio zio, che è un vero signore d'altri tempi, mi chiede se mi voglio sedere. "No, grazie, sono stata seduta fino ad ora". Mi accorgo delle persone accanto a lui e di lato, verso destra, rispetto a me. Prima del mio arrivo, evidentemente, stavano chiacchierando del più e del meno (in prevalenza di malattie, immagino, visto il "milieu". Che di sicuro non significa ciò che penso io). Fatto sta che un vecchietto in ciabatte, un po' grosso, mi fa: "Così se resti in piedi cresci". E giù risatine, non tanto sue quanto delle due signore tra mio zio e lui medesimo. Io mi giro verso di loro e dico: "Eh, ormai". E quelle, non contente, rincarano la dose, ridacchiando e borbottando qualcosa che adesso non ricordo, comunque devo aver percepito in loro un vago scherno che mi ha infastidito assai (da brava cancerina permalosa).
Rivolgendomi direttamente a loro ho infatti detto con un sorriso, non so quanto serafico, sul volto: "Ognuno ha il suo fisico - pausa teatrale, assolutamente non studiata - e il suo peso".

Una piccoletta come me sullo sfondo annuisce soddisfatta. Subito dopo però osservo meglio le "signore" e mi accorgo della loro ragguardevole massa corporea. Non ridevano affatto. Anzi, mi guardavano serie serie.
Che dire?
La stanchezza gioca anche begli scherzi.
Avanti il prossimo, forza.
Come in C'è posta per te, il remake del mio film preferito, Scrivimi fermo posta, "sono andata ai materassi".

Hop hop.

mercoledì 4 giugno 2014

Spiacevolezze di corsia e scrittura come pratica Zen



La mamma dorme, chissà se è davvero tranquilla come ci sembra a noi che la guardiamo da oltre la sponda di ferro.
Ero lì accanto a lei quando ho ricevuto una ben strana telefonata. "Te lo dico con molta vergonia, ma sai, ho familia. In ospedale prendo molto di più di solito, basta che chiedi, loro mi conoscono. Voi ringraziando dio non lo sapevate perché non avevate mai avuto malati in familia, ma insoma, vorrei... e sono pasate già sue setimane, ho calcolato pure per i giorni pasati".
Cosa? Ci stai chiedendo di più da un giorno (neanche, un'ora) all'altro, a distanza di due settimane dal ricovero, e oltretutto vuoi pure gli arretrati?

Non so come ho fatto a resistere, o meglio, se l'ho fatto l'ho fatto solo per due ragioni: la più importante, la mamma addormentata affianco a me, la seconda, di pari valore, il rispetto nei confronti del grande sale in zucca di mio padre, al quale non mi è restato che riferire la conversazione veramente spiacevole intercorsa tra me e quella persona che avevo tanto giudicato bene perche si arrivasse a una salomonica soluzione. Se fosse stato per me, da ieri sera stessa avrei cominciato a fare io stessa le notti inospedale, ma il pater familias continua a proteggere i suoi cuccioli e date le circostanze sono in fondo contenta che lo faccia.

E dire che sono stata anche accusata (fuori dai denti) di stare troppo generalizzando per quanto ho scritto due post fa. E io che ero stata anche così idiota da non capire bene chi avevo di fronte. Sono abbastanza sicura che sia finita qua, ma davvero, spero che sia così per il bene di tutti.

Un'oretta circa dopo la simpatica chiacchierata, ho saputo dai medici gli ultimi aggiornamenti.
Anche in questo caso ho resistito alla tentazione di fare un'altra scena madre giusto perché ho trovato il modo di sfogarmi qui sul blog, ma sto meditando vendette da consumare a freddo, quando avrò recuperato tutta la lucidità necessaria per rompere veramente i coglioni. E scusate la brutta (e bruta) parola.

"Ve lo abbiamo detto venti volte com'è la situazione, è una malata terminale". Etc etc. Tutto questo lungo il corridoio, a voce alta come al mercato, davanti a vari testimoni, tra cui i due giovani specializzandi (femmina e maschio) che un attimo prima, con ben altro tono, mi avevano dato la mazzata. Non avrei dovuto parlare anche con questa zoccola truccata e potente, ma siccome il giovane maschio mi aveva comunque suggerito di sentire direttamente la dottoressa a capo del reparto in quel momento, io mi sono rivolta anche a lei.

L'ho guardata con il corpo fremente e non ho lasciato che andasse oltre. Mi sono limitata a dirle un "ok, grazie" e a guadagnare l'uscita il più velocemente possibile. Lì ho riferito la notizia a mio padre e agli altri parenti che tutti i giorni trascorrono innumerevoli ore nell'atrio del reparto o nella stanzetta interna. A turno si sono fatti cacciare, ci siamo fatti cacciare tutti, ma i rimbrotti per il nostro eccessivo affollamento non possono di certo fermarci.
Personalmente mi blocca solo la maleducazione e il sopruso
Adesso è andata mia sorella, tra poco la raggiungo. 
Tra noi neanche uno screzio, giusto qualche differenza nel modo di trattare medici, infermieri. E anche la mamma. Linda le parla molto, io la accarezzo, le lavo la faccia e poi ieri le ho fatto sentire la mia lettera. E la musica di Paolo.

Ci vogliamo un gran bene, ce ne siamo sempre voluti tantissimo. E questo è ciò che conta di più al netto di tutto il resto, che vorrei tagliare fuori.
Ma la vita ti chiama e soprattutto la merda che la contorna.
In questo momento la scrittura è per me una forma di meditazione Zen, spero funzioni.

Ieri sera è tornata la dottoressa di mia mamma, che l'ha accarezzata tutto il tempo. Per puro caso ha saputo dell'evoluzione dei rapporti tra noi e la badante albanese. Ha ripetuto anche a Linda quello che già sapevo e scritto. "Più fanno le moine - ha aggiunto un po' scherzosamente - più me ne tengo alla larga. Vostra madre ha visto tutto, ve l'avrebbe confermato". L'ha fatto anche l'altro giorno annuendo con gravità, cara Marilena. Se sapesse della contrattazione sulla sua buonuscita (ma vai a cagare, bello grosso), di sicuro la caccerebbe a pedate, ho considerato io. 
"E il bello - ha proseguito - è che poi vanno a fare le marce per la pace, ma ce ne fosse uno di loro che si prende una badante in casa. No, no: con me hanno chiuso".

Di gente buona ce n'è, tra gli italiani e gli stranieri, abbiamo considerato entrambe, ma per piacere, apriamo gli occhi. Io per prima. Il buonismo fa più danni della cattiveria.
E adesso andiamo oltre. Per davvero.