giovedì 2 luglio 2015

Mondo operaio, la vera cronaca del trasloco più lungo della storia



E niente, da quando vi ho promesso che mi sarei di nuovo fatta viva con la seconda puntata di Mondo operaio, sono successe talmente tante altre cose che, davvero, se non la scrivo subito, non la scrivo più.

Torniamo a quel lontano (issimo) giorno di fine maggio. Il 29 maggio, per essere precisi. Svegli dall'alba, noi bipedi (e inconsapevolmente i quadrupedi) immaginavamo che la giornata incipiente sarebbe stata lunga. Non potevamo tuttavia sapere quanto.

Partiti gatti e marito, mi sono messa in attesa abbastanza zen dei traslocatori. Ci avevano assicurato che sarebbero arrivati alle otto in punto. Si presentano mezz'ora dopo, ma comunque mi avvisano e io, tra me, democratica come sono, mi dico: "e vabbè, un ritardo ci può stare. Sono tanto giovani. Ieri sera forse hanno fatto tardi".

Salgono e cominciano a lavorare all'apparenza con grande alacrità. No, l'alacrità è autentica, ma nel mio animo liberal fanno capolino i primi dubbi. "Ce la faranno a portare tutto entro le 16, termine massimo per l'occupazione del suolo pubblico, da me salatamente pagata?".

No, perché, a naso, continuo a rimuginare, a che cosa serve ammucchiare tutti i pacchi davanti al portone, nemmeno se stessimo allestendo una bancarella da rigattiere, se prima non smonti i mobili?

Diverse ore dopo avremmo avuto risposta al mio, in quel momento, affiorante quesito.

Ed era: certo che avrebbero dovuto innanzitutto smontare e rimontare i mobili e solo in un secondo momento occuparsi di pacchi e valigie.

Imbufalita come un leghista (si cambia facilmente ideologia quando si è sfiniti), ho ancora fissa nella memoria l'immagine di me stessa che sposta pacchi da una stanza alle altre della casa nuova, per fare spazio ai nuovi che i collaboratori del giovane capo azienda continuavano a portare di sopra.

"Signora, lei deve seguire me: dove vanno queste cose?". Mi dice a un certo punto uno dei facchini (perché di questo stiamo parlando. Detto, naturalmente, con il massimo rispetto per la categoria: il problema è che a noi non servivano dei facchini, ma degli operai specializzati in traslochi).

Furibonda, gli borbotto, spostando a mia volta tre-quattro borse alla volta, "di qua, di là", e via discorrendo.
Resosi conto del mio stato d'animo, forse per tentare di rabbonirmi il suddetto facchino commette però un gravissimo errore: prova a fare lo spiritoso.

"E se avevate figli quanti pacchi avevate?". Non reagisco. Ma lui, dopo poco: "Fai la professoressa, signora? Vedo che hai tanti libri". Mia risposta: "No". Secca come una delle mie piante tra breve.
Più avanti: "Ma ve c'entra tutta sssa roba? Pare tando piccola ssa casa".
Sento che dalle narici mi esce qualcosa, del genere fumo sulfureo: "Veramente sono ottanta metri più quindici di soffitta", acida come gli yogurt 0,1.

Finito il "passamano", anzi, lu passamà, come definiscono il passaggio di mano in mano degli scatoloni lungo le scale della palazzina nella quale viviamo dall'altro ieri ufficialmente pure per i vigili urbani, si pone il problema di come (e quando, visto che nel frattempo si sono fatte le dieci di sera) montare la cucina.

Perché, fino a quel momento, l'unico ambiente che i nostri eroi sono riusciti, pezzo più pezzo meno, a riprodurre è la camera da letto. Circondata, anzi, sommersa, dai pacchi che ho dovuto spostare dall'ingresso per far spazio alla varia mobilia pressoché tutta smontata.

Ve la faccio breve.
In questo modo.
Vrrrrrrrr... (suono del trapano, ndr, ripetuto anche più avanti), non gebbbocca ("non ci entra"), vrrrrrrrr.... non iiira ("non gira"), vrrrrrrr, nongebocca, non forzà.

Nei giorni seguenti il bipede è andato avanti con questa litania in vernacolo shtrittu shtrittu svariate volte al giorno. Impossibile scordarlo.
Non sapevo che esistesse la sordina per il trapano, comunque. L'ho scoperto quando, verso le 23.30 circa, il gruppo residuo della provetta squadra ha cercato, effettivamente con sforzo sovrumano, di terminare il lavoro della cucina.

Ce l'hanno fatta, secondo voi? Ma quando mai.
Sporca, tesa, pronta pressoché alla jihad anti-operaista, io comunque, per evitare di scagliare la fatwa su qualcuno, a un certo punto ho rifatto il letto tirando fuori lenzuola e coperte dalla valigia, che mi ero prudentemente preparata all'inizio dell'infinita giornata, e me ne sono andata a dormire.

Per tutto il giorno, peraltro, il marito, in genere polemico e puntuto, si era quasi arrabbiato con me nel vedermi a mia volta polemica e puntuta. A un certo punto, anzi, abbiamo pure un pochino discusso. "Ma insomma, dovevano pur mangiare!". Ma certo, ma figuriamoci. Non sia mai che mi svengano sulle scale (rallentando ulteriormente il lavoro), ma, forse, dico forse, una pausa pranzo di due ore circa è un po' troppo. O no?

Alle 15, infatti, quando tornano a Fermo dove ero rimasta in solitaria attesa da mezzogiorno in poi, praticamente me li sono mangiati (anche perché, al contrario loro, io ero quasi a stomaco vuoto).
Nell'attesa, naturalmente, avevo portato parecchie delle nostre cianfrusaglie sempre nell'androne del gentilizio palazzo fermano, mutatosi del tutto in un bazaar, con il risultato di procurarmi pure una infiammazione al ginocchio sinistro e varie vesciche ai piedi (le all stars sono le scarpe più anti-anatomiche del mondo).

Ma pazienza: sono una che sfacchina (la prossima volta mi faccio ingaggiare da loro, per la precisione voglio lavorare ai comandi di quello che s'impicciava dei fatti miei di cui sopra. Così se lo ammazzo è per legittima difesa).

Il giorno dopo, oltretutto, l'incazzatura mi era già passata.

Sapete chi nel frattempo è diventato nero nero? Il nostro Bipede, of course.
L'ira (iiirante come le balle) gli è scattata quando si è accorto di come avevano rimontato la cucina: cappa e fornelli da una parte, il forno dall'altra.

Non ci ha visto più.
Alle otto (eravamo svegli, facendoci largo tra i cartoni, tipo dalle sei) ha chiamato il capo-banda e gli ha fatto una lavata di testa che riesco solo a immaginare.
Sì, perché ha preferito uscire ben sapendo che sennò mi sarei ri-imbufalita nuovamente.

Il trasloco, sulla carta "fattibilissimo" (cit), alla fine è durato cinque giorni, intervallati, peraltro, da altre piccole disavventure, tipo il tubo della lavatrice attaccato male (leggi: non attaccato), del quale mi sono tristemente accorta solo quando, ovvio, avevo mandato un lavaggio a pieno carico.

Il buco in più nel bagno, che sta ancora lì, quando tentavano di montare (vrrrrrr....) i pensili della cucina.

Non torno sul capitolo elettricisti, ma giorno dopo giorno, ho notato che, ok le canaline, ma qualche presa in più me la potevano pure mettere.

E insomma.
La mia cronaca forse poteva essere più leggera di come non l'abbia buttata giù.
Ma sono ancora piuttosto stanca. E stavolta la casa non c'entra.

O meglio: c'entra, perché comprarla mi ha spinta a ritirare fuori il mio (scarso) super-ego, ossia a partecipare alla preselezione del concorso Rai, ribattezzato dai colleghi #ilconcorsone (c'era pure una domanda su che cosa sia l'hashtag, il che, tutto sommato, ha pure un senso).

Sono combattuta se scriverci su qualcosa. Se lo facessi adesso, sarebbe di una cupezza sconfortante, quindi lascio correre. Vi linko giusto Luca Fazzo, infiltrato (per sua fortuna) per il Giornale.

Vi dico solo che, come il trasloco, che ormai mi sembra già un ricordo lontanissimo, pure l'esperienza umbra sarà presto un ricordo.

E d'altronde: vrrrrrrrr, 2.800 candidati per 100 posti a tempo determinato?
Nongebboccano.

mercoledì 17 giugno 2015

Le prime piantine e le cose che contano

 

 

Ho comprato i gerani cascanti e l'ibisco dalla mia ex edicolante di Fermo, che adesso gestisce un negozio di fiori qui a Lu Portu. Mi sembrava di buon auspicio, anche se, come la stessa mi ha fatto notare, ho pagato per l'acquisto 13 euro.
Superstiziosa un pochino lo sono, ma le ho detto che sarebbe stato peggio se il totale fosse stato 17 e che, comunque, il 13 è ritenuto un numero fortunato, almeno per qualcuno.

Insomma, il processo di ambientamento continua. Stamattina ho pure stretto la mano a ben due vicine di casa: la dirimpettaia è un'insegnante di origine pugliese, la giovane donna dell'appartamento di sotto speculare al mio è una mamma di origine napoletana.
Nel palazzo, credo, siamo in diversi a non essere nativi del posto e la cosa mi piace.
Sembra quasi di essere in città, in questo modo.

Ho ancora qualche cartone da aprire e diverse cosette da sistemare, ma continuo a pensare che non mi corre dietro nessuno, anche se il rischio "accrocco" mi spinge (debolmente, ve l'assicuro) a studiare le soluzioni migliori, compatibilmente con le mie finanze bucherellate.

E però nemmeno oggi riesco a scrivere degli operai e dei traslocatori: sono piuttosto distratta e stanca.
Volevo giusto mandare un segnale di vita a chi, di tanto in tanto, passa di qua onorandomi non poco.

Giusto dietro l'angolo ho scoperto l'esistenza di un negozietto di alimentari, di un panificio e persino di una pescheria. Mi sembra tutto incredibilmente a portata di mano, non ci sono proprio abituata.

Queste piccole fortunate esplorazioni mi hanno fatto sorridere e al contempo immalinconire: le avrei raccontate con gioia a mia mamma. Con mio padre è tutto molto diverso, anche se, nella telefonata quotidiana che ci facciamo in genere dopo pranzo, sentirlo parlare di sé e dei suoi ricordi di gioventù mi intenerisce assai.
Certe volte è quasi logorroico, incredibile per un uomo che tutti hanno sempre considerato taciturno. Spero che riesca a venirmi a trovare.
Bisogna fare di tutto perché ciò accada.

Proprio oggi nelle repliche di In Plain Sight, che sta mandando in onda Top Crime proprio in questo periodo, si parlava di padri e di famiglie.
Se non conoscete Mary Shannon-Shepard e le sue scombinatissime mamma (a me e mio marito ricorda molto un'amica o quel che pensiamo diventerà tra una ventina d'anni) e sorella, non potete capire che divertimento, commozione e processo immaginativo sviluppa sugli spettatori questo magnifico telefilm.

Guardandolo, ho alcune conferme sulle cose che contano, per me e per le persone che amo. Penso anche all'importanza di impegnarsi a fondo e al dovere di dare una mano a chi ti ha dato tanto.

Spero di riuscire a occuparmi degnamente anche delle piantine. Ciò che ci preme va coltivato. Con costanza. E serenità. Il più possibile, naturalmente.

Alla prossima (con Mondo Operaio, promesso).

sabato 6 giugno 2015

Un anno dopo


Ho pubblicato la foto della grigia su Facebook, per cui, miei fidati sparuti lettori, perdonatemi per la ripetizione.
Sono così stanca da non riuscire a connettere, ma volevo farvi comunque sapere, restando in tema di connessione, che da oggi (lo dico a voce bassissima, più di me) la linea Adsl pare funzionare e pure discretamente.

Risolta la questione della tv che andava in una stanza sì e tre no (non chiedetemi perché: non sono riuscita a capirlo), superato l'allagamento della cucina per via del tubo di scarico della lavatrice mal fissato (o non fissato tout court, temo), recuperato l'uso dei fornelli e dell'acqua corrente in cucina, sgombrata da cartoni e oggetti sparsi la mia scrivania da scuola primaria, direi che siamo entrati già nella fase 2 dell'ambientamento.

Originariamente volevo offrirvi la seconda puntata di "mondo operaio", ma ahimè, non ce la faccio proprio.
Vi butto lì giusto un dialogo dell'assurdo tra la sottoscritta e l'elettricista, avvenuto stamattina (si era scordato di attaccare il forno e l'accensione elettrica. Non chiedetemi come mai, perché, di nuovo, non l'ho capito).

"Ma... vi piaceva proprio questa zona?".
"Sì, certo".
"No, perché ci stanno tande case noe, qui li fili sò tutti sthretti".

E il bello è che io gli ho pure risposto seriamente.
Solo dopo ci ho ripensato.
La realtà supera sempre la fantasia.

Dopo un po' mi ha chiesto se conoscevo qualcuno che voleva un appartamento (evidentemente suo) a Porto Potenza, vicino al centro riabilitativo.
Ah ecco. Se aspettavo un altro po' potevo comprare quello. Come no.

Quando mi sarò ripresa del tutto (quando?), aggiungerò altri dettagli.
Sperando che nel frattempo non mi facciano altri "sbuci" di troppo.

Chissà se mia mamma se la ride, dovunque sia adesso.
Forse doveva andare esattamente così: dovevo trovare casa dove volevo (caro il mio elettricista, a Porto Potenza ci vada qualcun altro) esattamente in questo periodo.

Se non fosse successo così, questi giorni sarebbero stati davvero duri da affrontare.
Invece, certo, sono stanca morta, ma molto proiettata nel presente.

Ringrazio ancora una volta i miei, per tutto l'amore che mi hanno dato.
A domani, cara mamma. 

venerdì 22 maggio 2015

Operai versus proprietari: l'eterno incontro-scontro tra mondi paralleli





In italiano l'hanno tradotto come La casa dei nostri sogni: ed è questo il motivo per cui, nei mesi scorsi, non riuscivo a trovare neanche uno spezzone di questo film, uno dei miei preferiti da almeno nove anni a questa parte.
L'abbiamo visto insieme, il Bipede ed io, forse addirittura ai tempi di Milano, quindi in un periodo ancora più lontano rispetto agli anni che ho appena indicato.

Di sicuro ne ricordo una visione ai tempi di quella che noi chiamiamo "la casa del vecchio", intendendo con quest'espressione la minuscola abitazione di Porto San Giorgio, infestata (ESTERNAMENTE) da simpatici roditori.
Non dimenticherò mai il giorno in cui, incontrando per le scale sudicie il padrone di casa, gli dissi: "OK, taglio io il glicine, ma se dovesse ricapitare, chiamo la Asl".

A cosa mi riferivo? Al reperimento del cadavere di uno dei suddetti simpatici roditori (un rattus norvegicus, secondo un nostro enciclopedico amico) nel box-lavanderia ricavato sul balcone, nel quale avevamo piazzato la rete per gli ospiti.
Sono un tipo ansioso, vero, ma tutto sommato, per i parametri femminili, non isterico.
In quel caso ebbi una vera e propria crisi di nervi.

Ma torniamo ai signori Blandings e alla loro casa nel Connecticut, ardentemente voluta da entrambi pur di liberarsi dell'affitto e della vita frenetica di New York.
Le analogie con la nostra attuale situazione sono davvero poche, ma una, evidente, è proprio nella scena che ho linkato sopra, ossia il rapporto tra i futuri proprietari e gli operai.

Allora come oggi leggi nei loro occhi una sorta di malcelato disprezzo per la tua totale imperizia tecnica.
Sembra quasi che ti dicano: ma qui è un totale disastro, come t'è venuto penzato (dicono da queste parti) de compratte ssa casetta? Io pè me sto vene 'n cambagna senza nisciù 'ttorno.

E del resto è proprio vero che di tinte, canaline, attacchi dell'acqua e del gas, etc etc non sai praticamente un accidente. Sicuramente, tra i due, quello che ci fa la peggiore figura è il mio consorte: l'omo deve sapè di martelli, fili e tubi, mentre issu parla co' 'natru accentu e parrìa sthrano assai: fuma la pipa come poveru nonnu.




Non sono tanto brava a trascrivere la pronuncia del vernacolo dei miei conterranei d'adozione, una lingua, peraltro, che mi fa simpatia, ma trovo comunque "nderessande" l'incontro-scontro tra iende come me e il consorte, un po' intellettuali un po' imbranati, e loro, poco istruiti ma tanto, tanto pratici.

Non c'è scelta, insomma. Bisogna affidarsi e anche fidarsi, già. E soprattutto non dare istruzioni troppo complicate, perché, tanto, loro già sanno come muoversi (si vede bene nella scena sopra in cui la straordinaria Myrna Loy spiega con pedanteria borghese quali punti di blu, giallo e bianco vuole per le pareti delle sue stanze e di rimando l'operaio con la pipa commenta che le tinteggerà di blu, giallo, bianco e stop).

Quel che conta è tenere gli occhi fissi sull'obiettivo finale (e iniziale), ossia ricavarne un luogo in cui sentirsi il più possibile a casa, con tutte le differenze del caso (Mr Blandings è un danaroso pubblicitario di città, Mrs Blandings una ricca casalinga con colf annessa, mentre il Bipede ed io siamo due poracci diplomati/laureati con ridottissime ambizioni).

Che altro dire? Finita l'onerosissima imbiancatura, lunedì prossimo sarà il turno dell'elettricista e dell'idraulico.
Moccò stressande, sarrìa l'ora de finilla.

Ce rsendemo.
Buona jornata a tutti.

martedì 19 maggio 2015

La vita che cambia e le questioni dirimenti


Tra le questioni dirimenti (poi torno sull'aggettivo che ho appena utilizzato) del mio appartamento sangiorgese c'è la posizione degli attacchi dell'acqua (a sinistra, nella foto) e del gas (a destra, ibidem).
I giovani traslocatori cui abbiamo affidato l'incarico di incollarsi tutta la nostra roba (non poca, ahimè) sostengono che sia un problema risolvibile.
Voglio davvero augurarmelo, perché diversamente saremmo costretti a smembrare la linea della nostra economica ma funzionale cucina e detto sinceramente, in questo momento, non è proprio opportuno.

Tolti i logici problemi di ricollocazione di mobilia e oggettistica varia (la cyclette, per dire, dove la piazziamo?), non riesco ancora a credere del prossimo cambiamento che mi aspetta.
Stamattina raccontavo su Facebook (un luogo perfetto per lo sputtanamento-mascheramento di massa) della punta d'orgoglio provata ieri davanti all'impiegato dell'Enel, che nell'attivare il contratto, mi ha chiesto se fossi affittuaria o proprietaria.
Ebbene sì: ho scandito la parola pro-prie-ta-ria, prestando attenzione al suono della medesima.

Data la positività della sensazione provata, ho capito (se ce ne fosse stato ancora bisogno) che io alla proprietà privata ci tengo. Quindi che con il comunismo, Lenin, Trotskjj etc etc, io non ho niente a che spartire.
Il che, naturalmente, non significa che non presti attenzione ai bisogni/diritti altrui, ma è un semplice dato di fatto, per nulla dirimente: ho bisogno di mettere radici e di sentire che almeno un piccolo posto mi appartiene. E anche il contrario: che io appartengo al primo.

Solo con il tempo capirò se scatterà la seconda parte della faccenda, ma già solo per la prima valeva la pena spendere una certa quantità di denaro.
Come vivrò e di cosa vivrò nei prossimi anni, probabilmente avrò voglia di raccontarlo sempre su questo spazio. E perché ciò non diventi l'ennesima questione dirimente, mi basterà soltanto continuare a comportarmi come in quest'ultimo anno: sgombrando la testa da pensieri e attività inutili e concentrandomi più o meno solo su ciò che mi preme davvero.
Se non avessi fatto così, ora ne sono certa, non sarei mai riuscita a comprare casa.
E' stata dura e lo è ancora, ma accidenti come ci si sente meglio quando si vedono i risultati.

Veniamo all'aggettivo dirimente.
La prima volta che l'ho sentito usare è stato da una mia (amatissima) cugina. Non specifico volutamente chi sia. Mi limito al contesto.
Si stava parlando della tomba dei miei nonni materni che adesso ospita anche mia mamma. Era una crudele giornata d'estate, si trattava di firmare alcune autorizzazioni.
Morire costa un casino, sappiatelo.

Poi l'ho risentito su un tg e ho capito che è di moda (la cugina di cui sopra sta sul pezzo molto più di me, sempre ammesso che si usi ancora quest'orribile espressione gergale).
Da quel momento non me lo sono più scordato e ogni tanto mi torna in mente: quante sono le questioni dirimenti che ci capitano tutti i giorni?
Togliere o tenere le canaline, eliminare o meno i rosoni, dove piazzare i divani graffiati dai mici e il mitico divano letto di Francavilla sono altrettante, dannatissime, questioni dirimenti.

La sera crollo come un operaio dopo otto ore di cantiere. Però, a tratti, come adesso, sento il bisogno di scribacchiare e anche di leggere: inscatolando i libri, ho deciso di lasciare fuori Bel Ami di Maupassant. Mi butto su un classico, o almeno ci proverò, mi sono detta.

Sto cercando anche di non abbandonare l'inglese e la lettura di David Randall per un post semi-professionale che vorrei scrivere prima di non avere più la connessione.
E insomma: è la mia stessa natura a essere dirimente.
Da una parte vorrei (con tutta me stessa, ve l'assicuro) campare del lavoro per cui mi sono preparata (o di qualcosa di simile), dall'altra desidererei cambiare completamente vita, imparando a usare le mani (e il fisico, per i pochi anni che mi restano prima della decadenza) per fare qualcosa di pratico.
Sono convinta proprio che gli esseri umani siano fatti per alternare l'uso di cervello e corpo, mescolando, se possibile, le funzioni dell'uno e dell'altro.

Sono altrettanto convinta che non sia facile usare entrambi nel nostro mondo del lavoro, ma chi è dotato di una buona dose di materia grigia (di cultura, anche) e di salute, in qualche maniera dovrebbe sfangarla. O per lo meno me lo auguro.
Per anni sono stata condizionata dall'ansia: sono abbastanza convinta che se non ne fossi stata così preda ai tempi del mio anno solitario a Milano, la mia vita di oggi sarebbe molto diversa.

E' altrettanto certo che guardarsi indietro non serve a nulla. E anzi, a proposito di corpo, il mio stomaco che gorgoglia  mi ricorda che è il caso che lo riempia un pochino.

Con tutte le frustrazioni e i nei del presente, per farla breve, sono contenta di stare dove sto.
Però se vi serve un correttore di bozze, uno (una) scorticatore (trice) di ruggine, una stiratrice abbastanza capace e una specie di coacher motivazionale de noantri, io ci sto.
Come si dice negli annunci, però: AAA astenersi perditempo.

;-)
Alla prossima cronachetta (mutuando il titolo dai libri di Giacomo Nanni). 

lunedì 11 maggio 2015

Mark Knopfler: da Madamatap a... Muoversi Insieme!




Orgogliosa di farvelo sapere: ho proposto ai miei committenti un pezzo su Tracker, l'ultimo lavoro del mio amato Mark Knopfler e loro l'hanno accettato.
Perciò eccovelo qui sotto forma di link.

Sopra, invece, una sua recente apparizione alla crucca Radio Bremen. Detto tra noi, accidenti come parla veloce la tedesca!! E del resto lavora in una radio, mica in un monastero Zen.

Buona lettura, ascolto etc etc.

giovedì 7 maggio 2015

Mario Dondero e l'arte di vivere in "Calma e gesso", il documentario di Marco Cruciani

Mario Dondero e i gestori dell'Enoteca di Fermo, 25 aprile 2014
Ho scattato la fotografia che vedete sopra in una fortunata giornata dell'anno scorso: l'ultima prima di un mese e mezzo durissimo.
Di quel pranzo improvvisato devo ringraziare ancora molto, a distanza di oltre dodici mesi, Laura Strappa, la compagna di Mario Dondero, il grande fotoreporter genovese-milanese che ho conosciuto ormai cinque anni fa a Fermo, in occasione di una memorabile intervista (memorabile per me, naturalmente: chiunque abbia incontrato Mario, anche solo per cinque minuti, sa di che cosa parlo).

Parto da questo ricordo biografico giusto per darvi un'idea della commozione che ho provato ieri sera guardando Calma e gesso, il documentario che Marco Cruciani ha dedicato al grande fotografo, presentato ieri sera alla Sala degli Artisti di Fermo in anteprima assoluta, in occasione - non so se casuale o voluta - del suo ottantasettesimo compleanno.

Dopo una breve (e visibilmente emozionata) presentazione da parte dell'autore, sullo schermo del bel cinema fermano sono seguite due e ore e un quarto di inseguimenti compiuti dal regista nell'arco di ben cinque anni.
Finanziato, almeno in partenza, con un fondo della Regione Marche per il cinema, il film è stato ultimato - come racconta il medesimo regista in un'intervista a Today - grazie al crowdfunding, una moderna ma in verità antichissima forma di autofinanziamento che dovrebbe - si spera - permettere al suo ottimo lavoro di lasciare il nido marchigiano e toccare le principali piazze italiane e straniere, almeno tutte quelle in cui Mario ha lasciato la sua indelebile impronta, come si vede bene nel film, ossia, tra le altre, Genova, Milano, Parigi, Bologna e Locarno.

Una vita donderoad, rubando il neologismo a uno dei molti libri tributo che gli sono stati dedicati, a partire da quel primo, pericoloso viaggio in Val d'Ossola, dove, appena sedicenne, Mario ha fatto il partigiano di città (come racconta lui stesso nel film), non la staffetta, precisa, perché non conosceva i sentieri come i ragazzi del posto.

Da quel momento, la sua certamente genetica capacità di entrare in empatia con gli altri si è impastata di una sorta di comunismo di formazione che si potrebbe definire romantico: forte di questo sentimento appassionato oltre che di un bagaglio culturale non trascurabile, Mario è stato spinto in età già non più verde a ripercorrere i luoghi calcati da Robert Capa ai tempi della Guerra civile di Spagna del 1936, sulle tracce del miliziano ritratto dal reporter americano.

Per quale motivo l'ha fatto, direte voi. Per dimostrare - come racconta il documentario - che il famoso scatto di Capa, quello in cui si vede un giovane uomo in tenuta militare, le braccia spalancate e il fucile in una mano, che pare saltare ma che in realtà sta per cadere a terra colpito a morte, era autentico, non una ricostruzione effettuata a tavolino dal fondatore dell'agenzia Magnum.
A quella vicenda era dedicata un suo reportage uscito su Diario - mostra sempre il documentario - e una mostra in Sardegna, un altro dei luoghi amatissimi dal fotoreporter.

Molto forte è, dicevamo, l'impronta lasciata da Mario su Locarno, luogo nel quale si è voluto ripercorrere il suo fondamentale periodo francese, come sanno tutti quelli che hanno visto - magari sui libri di scuola - lo storico scatto al gruppo di intellettuali parigini passato alla storia come gli esponenti del cosiddetto Nouveau Roman.

Genova è, ancora, un altro luogo che gli ha voluto rendere omaggio, con una retrospettiva che Mario afferma di aver sempre desiderato: sorride contento di sapersi sulla parete del Palazzo Ducale in una gigantografia di uno dei suoi più celebri scatti, si vede sempre nel film.
Don Andrea Gallo (scomparso nel 2013), poi, offre sul fotoreporter, che nella città ligure ha passato vari anni soprattutto dell'infanzia, uno dei giudizi più emblematici contenuto nel racconto per immagini di Cruciani: "Un quinto evangelista portatore di un messaggio di speranza", lo definisce. Il tutto detto senza un filo di retorica.

Analoga è l'impressione che ha Vinicio Capossela che, dallo schermo del cinema, di Mario loda la sua capacità di "valorizzare tutti".
Ed è esattamente questo il motivo per cui ieri sera, come in molte altre occasioni in cui si sapeva che, forse, prima o poi, uno dei principali protagonisti degli anni d'oro del Jamaica, il mitologico bar di Brera a Milano, sarebbe apparso, eravamo così tanti a sentirlo cantare versioni differenti di Bella ciao, pezzetti da Luigi Tenco e altre canzoni che - ahimè - la sottoscritta non conosceva.

Mario è un dispensatore di dignità, una dote che va ben oltre il suo immenso, disordinato e insostituibile archivio di fotografie. Un patrimonio che molti suoi amici stanno cercando tuttora di sistemare, perché non ne vada disperso neanche un frammento.

Bellissimi davvero, tra gli altri momenti del film, quelli in cui noi spettatori siamo stati condotti nello studio fotografico del suo amico romano (purtroppo me n'è sfuggito il nome) che l'ha aiutato a più riprese a stampare e catalogare scatti da Mario dimenticati chissà dove; e altrettanto emozionanti sono i passaggi dedicati all'altro gruppo, quello della Fototeca provinciale di Fermo, in cui si vedono volti esausti - compreso quello del nostro eroe - che tentano di organizzare migliaia di diapositive scrutandole con un ingranditore, sotto la luce fioca di una lampada da scrivania.

Quante nottate avranno passato così, quanti discorsi, quante cene, quanto vino bevuto tutti insieme.

Mario è questo e molto altro, come sa - presumo - anche Marco Cruciani, al quale va il grande merito di aver creduto nel suo progetto, sentendo che andava fatto (come afferma nell'intervista che ho già citato), oltre ogni ragionevolezza.
Agendo così, a mio modestissimo avviso, il regista ha interpretato alla perfezione lo spirito dell'uomo,  ben più di un fotografo, ben più di un giornalista, come dicono in molti anche nel documentario.

L'ultima volta che ho incontrato Mario è stato sul pullman Fermo-Porto San Giorgio: era estate, quella di un anno fa. L'ho accompagnato a sistemare il suo orologio, in un affascinante negozietto dall'insegna gialla. Quando entri lì dentro, senti una calma speciale, scandita dal ticchettìo di svariati pendoli alle pareti e dalla radio (la Rai, di solito) in sottofondo.

Ha preso un gelato, dopo, se non ricordo male, e io un caffè. "Perdere la mamma è un colpo durissimo", mi ha detto. Già, Mario. Sarà per questo che uno dei ritratti che più mi piacciono, tra le tante foto che ho imparato a scoprire negli anni, è quella in cui si vede Pier Paolo Pasolini in primo piano, un po' di sguincio, e sullo sfondo, nella stessa posa, sua madre.

Adesso che ci penso, ci siamo incontrati di nuovo forse a inizio autunno. Sono andata come sempre io a rompergli le balle: leggeva come sempre un quotidiano, seduto su una delle panchine di piazza del Popolo, qui a Fermo. Si sentiva stanco, ma niente l'avrebbe tenuto un altro giorno di più imprigionato in una casa o, peggio, in un ospedale.

Se c'è una cosa che ho imparato semplicemente guardandolo è che a vivere non s'impara se non vivendo.
E lui ha vissuto.
E se davvero non avrò più modo di incontrarlo, posso dirmi davvero fortunata per averlo almeno incrociato.

Calma e gesso verrà proiettato questo fine settimana in vari orari alla Sala degli Artisti: chi può vada a vederlo. E soprattutto viva. Come cercherò di non dimenticarmi mai più.

Arrivederci, Mario.