giovedì 1 marzo 2012

Grazie, Lucio


Dovevamo già viaggiare in A112 bianca o forse a bordo della versione della stessa auto immediatamente precedente, turchese come molti dei vestiti che mi comprava la mamma per far risaltare i miei occhi, i "laghi alpini" nella finta lettera d'amore che qualche anno dopo mi ha scritto mia sorella per prendermi in giro.
Mio padre ha sempre avuto un mangianastri portatile, persino adesso ne ha uno, benché le musicassette non ci siano più da tempo. Fondamentalmente, a lui è sempre piaciuta la radio ed è stata proprio la sua abitudine ad ascoltarla, a casa e nei viaggi, a trasmettermi l'amore per le parole, da sentire e da scrivere.
Quando invece i miei genitori decidevano di mettere musica loro, la scelta era davvero limitata, ma comunque di qualità.
Non potrò, credo, mai dimenticare Banana Republic, l'album dal vivo cantato (e suonato) magistralmente da Lucio Dalla e Francesco De Gregori. Mi piacevano moltissimo, in particolare, "Un gelato al limon" e "Ma dove vanno i marinai". Della prima, solo molti anni dopo ho scoperto chi ne fosse l'autore. Ancora più tardi, tra l'altro, ho saputo anche che Lucio, quell'omino con gli occhialini, simili a molte paia che ho posseduto pure io, con quell'aria da folletto simile alla mia, era un raffinato jazzista.
Sul lettore Mp3, scrostato e privo di coperchio della batteria, c'è stato fino a pochi giorni fa il live che l'ha visto affianco a Pupi Avati e al mio amato Paolo Conte. Ho imparato a memoria i suoi tipici vocalizzi, già conosciuti nelle altre canzoni che nei viaggi con i miei genitori ascoltavo divertita.
Non più tardi di un anno fa mi sono goduta, lasciandomi cullare da una dolce nostalgia, la riedizione di Banana Republic a distanza di trent'anni, i due artisti invecchiati, De Gregori, per me, più di Dalla. I piccoli di statura, probabilmente, conservano più a lungo degli altri sembianze infantili, come i nanetti di Biancaneve, un po' rugosi ma tanto bonari. Come molti miei simili, però, anche Lucio Dalla è stato piccolo solo per i centimetri e come tutti è andato incontro al suo destino.
Adesso non piango, anche se confesso che, accendendo la radio e sentendo un pezzo della sua "Piazza grande", qualche lacrima mi è uscita. Riflettendoci dopo, mi sono resa conto che, almeno, lui ha avuto una bellissima vita ed è morto prima di invecchiare davvero, uscendo di scena all'indomani di un concerto che di sicuro avrà deliziato molte persone.
Credo che morire così, dopo aver lasciato tracce di sé immortali, sia il sogno di tutti, o per lo meno di tutti i grandi artisti. Un privilegio del genere, purtroppo, non capita sempre, quindi, oltre il sincero cordoglio per la fine di una vita e la malinconia per l'addio a un altro pezzo della mia infanzia, voglio dire anche grazie a Lucio. Ti dico grazie, Lucio, per avermi accompagnata negli anni della crescita e per avermi strappato più di un sorriso per i tuoi pelacci neri da piccola scimmia e i tuoi berretti di lana così stravaganti.
Se sono diventata quella che sono, con tutti i difetti e i pregi eventuali, un po' c'entri anche tu e il tuo Gesù bambino di periferia.

mercoledì 29 febbraio 2012

Diventare grandi

Il cielo è sempre più blu, cantava Rino Gaetano, e puntuale come solo i bioritmi sanno essere, oggi è una giornata da schifo. Sono stata peggio e in generale "ci sta sempre chi sta peggio", anzi "ce stha sembre chi stha pegghiu", seguito da fastidioso sgranocchiamento di patatine da sacchetto da parte di un amico del tutto inconsapevole del suo notevole livello di disadattamento.
Decisamente è vero. Penso per esempio che stia molto peggio di me quel povero deficiente (fino a prossima consacrazione nazionale su qualche reality) di no-tav-boy (chiamarlo no global mi fa strano e troppo fascio) che ha dato della pecorella al poliziotto.
Quest'ultimo, invece, ha mostrato grande professionalità, ma spero che, a sua volta, resista dalla tentazione di comparire davanti alle telecamere.
Il fatto è che siamo talmente poco abituati, in questo Paese, alla serietà da scambiare per eroi persone che semplicemente stanno facendo il loro lavoro. Nel caso specifico, non rispondere a idiote provocazioni.
Non sempre, però, si ha la forza morale, psicologica, di sottrarsene e non capita solo da giovani.
Se c'è un tipo di persona che mi fa impazzire (parafrasando Mina) è quella che sottostima le tue capacità/esperienze professionali. Faccio un esempio molto concreto.
"Ti presento tizia... una giornalista freelance, come si dice". Come si dice cosa? Disoccupata, cane sciolta?
Ma questo passi, tutto sommato un po' sfigata lo sono davvero, e pazienza se presentazioni così grevi possono servire per procurarsi contatti per lavorare.
Molto peggio è invece chi non si fida per partito preso solo perché ti vede ancora giovane o ritiene di avere analogo titolo ed esperienza. Quando lavoravo in un piccolo giornale locale, per dire, era la norma avere a che fare con collaboratori abbastanza analfabeti, con esperienze risibili o nulle, ma convinti di essere Montanelli. In quel caso, però, il diverso ruolo e soprattutto la pratica quotidiana li rimetteva velocemente a posto.
Da quando sono, per l'appunto, una freelance, sono ripiombata nell'anonimato che ti costringe a spiegare, puntualizzare, a imporre insomma il tuo saper fare tentando il più possibile di non far caso ai rifiuti, alle mezze risposte, ai consigli non richiesti o poco calzanti o alle frasi sbagliate.
E però a volte non se ne può proprio più. Di recente mi sono sentita piccata per via di una tizia, una cosiddetta collega, che mi ha chiesto notizie di un mio parente acquisito perché desiderava chiedergli un aiuto in qualità di "giornalista esperto". Che sia esperto non ci piove, il problema che mi sono posta era però un altro: perché mai io non avrei dovuto esserlo quanto lui? Solo perché sono più giovane? Solo perché sono meno conosciuta di lui? E poi, per quale ragione avrebbe dovuto saperne più di me di problemi legali? Mica scrive per Top Legal, ammesso che esista ancora? Alla tizia ho perciò puntualizzato qualcosa con educazione forse un pelo stizzita, ma in auto sono letteralmente esplosa con mio marito. Insomma: lei che ne sa delle esperienze che ho avuto io? Perché ha dovuto supporre, in partenza, che non sarei stata in grado di aiutarla? Perché, in definitiva, rivolgersi sempre a qualcuno di "più grande", come se una tua coetanea non potesse darti una mano? Alla fine, comunque, che si cuocia nel suo brodo.
Il problema, però, è più generale e appartiene a tutta la mia generazione: i trenta-quarantenni, mediamente, si comportano come se ne avessero dieci di meno. Una delle cause è sicuramente sociale e legata alla solita gerontocrazia nazionale che non schioda. Ma di questo ho già ampiamente parlato.
Un'altra, più sottile, è invece proprio dentro di noi e delle nostre abitudini da adolescenza iper-iper prolungata.
Un conto è, infatti, restare giovani nella testa, mostrando di saper giocare innanzitutto con noi stessi; un altro è non avere abbastanza fiducia (e palle) per imporre al mondo quel che si fa fare, e anche molto bene, difendendolo da tutti quelli che ci vorrebbero sempre in una condizione di minorità.
Lo diceva Kant e lo ripeto anch'io: lo stato di minorità è imputabile innanzitutto a noi stessi e non esiste "deus ex machina", quello che ho simpaticamente evocato qualche post fa, capace di farci volare in alto se non siamo prima di tutto noi a desiderare di spiccare il volo.
Quindi, niente inutili lamentele né recriminazioni, stop alle relazioni dannosamente deprimenti e assolutamente sì a quelle che ci fanno crescere e diventare (finalmente) adulti.
Non è facile (anzi, è durissima), ma in un mondo che non ti dà niente se non te lo prendi con i canini (e i molari), non abbiamo proprio niente da perdere.
E quell'aquilone volerà. Dovessimo metterci un motore a ciascun piede come Paperinik pur di vederlo sparire all'orizzonte.

giovedì 23 febbraio 2012

Le amiche del cuore


Non sono mai stata capace di avere l'amica del cuore.
Ho diverse buone amiche, questo sì, ma non ho mai avuto la confidente preferita né un surrogato al femminile di un fidanzato.
Al liceo, Rosa, la mia compagna di banco, cui ho voluto un bene fortissimo, una volta mi rimproverò aspramente perché non ero capace di piangere guardando i film. Non era vero (o forse sarà che invecchiando ho preso a piagnucolare anche davanti ai telefilm), ma il suo giudizio mi ferì, direi anzi che mi ferisce ancora adesso, dal momento che non l'ho mai dimenticato. In particolare, rimasi molto male nell'apprendere, sempre in occasione di questo rimprovero, che da quel momento in poi la sua amica migliore sarebbe diventata un'altra compagna di classe, Federica. A distanza di tempo, da quel che so, Rosa e Federica si sono perse di vista, mentre io, quella incapace di sentimenti intensi, ho conservato affettuosi rapporti con altre tre compagne, perdendone di vista una solo negli ultimi anni, non so bene perché. A questo proposito, chissà come sta Paola, così distante da me nello stile di vita e negli obiettivi raggiunti. Sono molto orgogliosa di lei e della sua bella famiglia, ma non posso escludere che proprio il fatto di non aver vissuto esperienze analoghe alla fine abbia pesato nell'aumentare la distanza tra noi. Io le voglio bene come sempre: rammento ancora i pomeriggi passati a studiare insieme e a ridere dei nostri prof. Ho molta simpatia per suo fratello e i suoi genitori e li sento vicini quasi quanto i miei.
Lo stesso posso dire di Valentina, madre super e moglie coraggiosa, passata attraverso un'esperienza così dolorosa che non credo di essere in grado di capire fino in fondo. Quando ho saputo quel che le stava capitando, avrei voluto esserle più vicina, ma siamo lontane non solo geograficamente, temo.
In quel caso, ho dubitato di me e ho ripensato alle parole di Rosa: chissà che un pochino non avesse ragione lei, ma non sul fatto che non pianga ai film. Ho costruito spesso delle corazze per non farmi sorprendere troppo scoperta. In molti casi, lo faccio senza neanche accorgermene.
Prima della "grossa crisi" dell'anno della laurea, mi ero accreditata come giovane donna forte ed efficiente.
Adesso che l'ho ampiamente metabolizzata (superarla del tutto non credo che sarà mai possibile), sono tornata a mostrare al mondo la mia faccia sorridente e rassicurante, tanto più efficace quanto meno mi conosce l'interlocutore. Mi piace, lo riconosco, dispensare calma in chi incontra i miei occhi e ascolta la mia vocetta adolescente. Sono allo stesso modo consapevole che si tratti di una finzione, di una recita a uso e consumo del mio bisogno di mantenere un decente livello di autostima per non soccombere alle ferite che potrebbe causarmi un presente incerto e un futuro ancora più nebuloso.
Che sia così lo capisco ancora di più proprio perché adesso, davanti ai film, come dicevo sopra, spesso piango. Qualche giorno fa, a dire il vero, ho piagnucolato anche sentendo un pezzo del nuovo film dei fratelli Taviani su Hollywood party. Ho attribuito la ragione della mia improvvisa commozione all'aperitivo a base di succo tropical e spumante consumato in solitaria nel cucinino; ma anche in questo caso so, lo so profondamente, l'auto-schernimento mi permette di tenermi a galla.
E in ogni caso, il più possibile, evito, esattamente come facevo a quindici anni, di lasciarmi andare in pubblico.
Come mai lo scrivo qui, allora? Perché anche qui indosso una maschera e perché, non senza presunzione, ormai mi sono convinta che alcuni frammenti del mio privato meritino di essere sparati nell'etere.
E poi, perché, come dicevo all'inizio, io non ho l'amica del cuore, con cui, magari sparlare di uomini o di noi stesse.
Non lo sono neanche Annalisa e Simona, la prima in passato spesso spugna dei miei sfoghi, la seconda una straordinaria fonte di energica intelligenza, ma come me poco incline agli slanci emotivi.
Trovo però talmente miracoloso che abbiamo ancora così tante cose da dirci, nelle non frequenti occasioni in cui ci ritroviamo, da non importarmi più che non ci sia tra noi quel tipo di confidenza così comune tra tante donne. Per me, è un dono rivederle, tanto che sarei persino capace di non parlare affatto pur di stare in loro compagnia.
Qualcosa del genere, anche se con pathos lievemente minore, dovuto al fatto che si tratta di amicizie nate in età più adulta, mi capita anche con Simona S., Claudia e Marta, quest'ultima per me identica, nel carattere e nelle movenze, all'Olimpia di "Fisica o chimica".
Con loro è ancora più facile esporre la mia faccia buonista e mondana, disponibile allo scherzo e all'ironia. Lo è ancora di più adesso che non viviamo insieme; ai tempi della nostra convivenza, invece, inevitabilmente, ogni tanto erano costrette ad assistere alle mie crisi nevrotiche. E quanto mi pesava mostrare la mia fragilità, quanto avrei voluto sparire in quei momenti.
Non posso dimenticare Ketty, l'unica, forse, con cui, per un breve periodo, ho intrecciato un rapporto più tipico tra due donne-sorelle. Di Ketty amo soprattutto il suo calore siciliano, la sua spontaneità nel dispensare complimenti ed epiteti affettuosi. Però anche con lei, alla fine, non sono andata oltre e l'ultima volta che l'ho vista, analogamente a quanto mi capita con le amiche milanesi, ho mostrato la faccia da donna di mondo, un po' svagata-ma-serena.
Resta Roberta, la mia ex amica, cui avevo, effettivamente, cominciato a mostrare il mio cuore. Che bruciante delusione è stata accorgermi del suo opportunismo.
So di avere qualche responsabilità anch'io se mi ritrovo, periodicamente, con le amicizie più recenti, a sentirmene tradita: puntando troppo spesso sull'amabilità, finisco per lasciar credere di essere sempre disponibile, leggiadra e leggera. In questa maniera, attiro gente che ha bisogno di piaceri, di massaggini dell'ego e simili, ma non di persone davvero disponibili a mettersi in gioco.
Ma io mi metto in gioco davvero? E' proprio questo il punto.
Credo di no. Credo di essermi talmente imbozzolata da non lasciarmi conoscere davvero, se non da chi già sa da dove vengo, come la mia cara amica Annalisa, e da pochi, sporadici, nuovi incontri.
Il dolore mi spaventa, il mio più di quello degli altri, che sono in grado di accogliere e di assorbire.
Preferisco insomma mettermi in ascolto piuttosto che mostrare chi sono, o almeno quella parte di me, la più disperata e "munchiana", seppellita sotto strati e strati di petali. Di carciofo, magari, ma comunque petali, perché mi basterebbe in fondo non molto per non fingere più. Mi basterebbe giusto sentirmi veramente accolta, veramente amata, senza doppi fini e urgenze (altrui) di vario tipo.
Forse, legami così complessi sono possibili solo in casi rarissimi e magari non con un'amica, bensì con un compagno di vita. Può essere. Però nel rapporto di coppia non esiste gratuità o, perché esista, bisogna avere un livello di maturità esistenziale difficilmente raggiungibile.
Fatto sta che un po' me ne dispiaccio, perché sento di averne bisogno.
Magari, potrei cominciare io a essere più diretta, a rispondere con il massimo di sincerità possibile alla domanda, generica e di circostanza, "come stai"?
Come sto oggi? Riflessivamente quieta. E pure un po' inquieta.
Come inizio può andare?

venerdì 17 febbraio 2012

Un po' di retorica, che diamine


Ormai è ufficiale: mi sto rincoglionendo.
La prova provata è la foto in alto. Nuria Gonzalez recita la parte di Clara nel mio telefilm preferito. Nella puntata di ieri, la professoressa prima di inglese e ora di storia (historia, prego) nonché ex preside, ha compiuto 45 anni e ha preso una decisione importantissima: vuole diventare madre. Delle sue intenzioni parla con Olimpia, professoressa d'inglese nonché ex preside anche lei, nei bagni dei prof.
Quest'ultima si dice felicissima della decisione della collega, la quale però ha un piccolo problema: è single e madre affidataria di Ruth, un'adolescente con già superati problemi di bulimia. Come si risolve la faccenda?
Le strade possibili sono due: adottare un neonato o ricorrere all'inseminazione artificiale.
Ebbene, la prima strada non è praticabile: nell'episodio di oggi Clara è risultata essere troppo vecchia per il dipartimento dei servizi sociali cui ha inoltrato la domanda. Con l'età che ha potrebbe aspirare a un bambino di almeno cinque anni. Ma Clara, che non ha voluto figli quand'era più giovane (o giovane e basta? vabbè, tralasciamo), vorrebbe godersi tutte le fasi della maternità, comprese pappe e pannolini. Tristemente, comunica la notizia a Ruth: quest'ultima, abbracciandola, le prospetta la seconda opzione. O meglio, ho intuito io che andranno a parare da quelle parti dal fatto che nel frattempo Gorka, l'ex fidanzato di Ruth, un piccoletto veramente bastardo, ma solo in apparenza (ha appena messo incinta Paula, la compagna bassetta con cui ha fatto malauguratamente sesso senza protezione, ma è pronto a diventare padre visto che lei non vuole abortire), e Fer, omosessuale dichiarato, vogliono guadagnarsi un po' di soldi donando lo sperma alla banca del seme. 
Sicuramente Clara farà un tentativo con il liquido di Gorka. Sono pronta a scommetterci su.
Comunque vada a finire (prima ho visto su You Tube la scena finale della serie, in cui la Gonzalez ha una pettinatura veramente orrida, mentre Blanca, la prof di lettere, da bionda si è fatta rossa e ha chiaramente scelto Berto, il barista della scuola con precedenti penali, al posto di Martin, l'attuale preside dello Zurbaran), continuo davvero a sorprendermi di quanti temi ci abbiano infilato dentro. Trovo veramente divertente e appassionante come riescano a trattare argomenti scomodi con così tanta naturalezza. La vita è varia e a tinte forti, anche nei momenti più cupi e difficili.
Anche in Spagna c'è la crisi economica e presumo che pure i giovanissimi attori del telefilm oggi saranno alle prese con la disoccupazione, visto che il serial è finito. Certo, peggio staranno tutti gli altri, quelli non famosi e magari più bravi di loro, però, davvero, quel telefilm aiuta a sorridere e a guardare avanti anche un'anzianotta come me.
E se anche non dovessi, come ho già scritto, mai avere figli, mi piace pensare che tutto sia ancora possibile, in ogni campo della mia vita.
Oggi ho finalmente spedito il mio piccolo lavoro di foto-racconto: sarà anche per questo che mi sento così commossa e incline alla retorica da fiction? Può essere, però, per una volta, voglio concedermelo.
C'è sempre tempo per ritornare seri. Basta aprire un giornale per perdere il sorriso.
Com'è provinciale un paese che discute delle mutande di Belen.

martedì 14 febbraio 2012

Meglio buon weekend o ciao signora?


Sondaggio del giorno, tra i miei pochi lettori: secondo voi, è più inquietante chi infila l'inglese in ogni conversazione (diciamo in ogni scambio di vocaboli) o chi non sa quando e se usare il lei nel modo opportuno?
Personalmente, ho la mia visione, ma siccome c'è qualcuno di mia stretta conoscenza che mi accusa, proprio per via della medesima, di buonismo di sinistra, non la manifesto.
Però, per aiutarvi a comporre la vostra personale scala di preferenze, vi faccio qualche esempio della prima modalità di espressione linguistica e della seconda.
Ai milanesi, diciamo meglio, agli amanti della cultura aziendalista all'italiana, piace molto usare l'English.
Ormai il "we", acronimo di "week end" per i comuni mortali, è la regola dei commiati pre-fine settimana. Che poi sia comunque gentile augurare piacevoli sabati e altrettanto simpatiche domeniche non ci piove.
In tutti i casi, da un po' di tempo, si sente parlare di "we" anche in luoghi in cui, normalmente, l'italiano è piuttosto "unknown", per esempio nello spogliatoio della mia palestra, frequentato massimamente da carinissime ragazze che però non danno proprio l'idea di avere un inglese fluente. E vabbè.
Per contro, c'è la schiera di persone che non sa se darti del tu, del lei o del voi (quest'ultimo ancora in uso sotto il fiume Tronto) e che, per non sbagliarsi, li dà tutti insieme nella stessa frase.
Poco fa, per esempio, proprio mentre andava in onda il mio telefilm preferito per adolescenti con l'ormone in fiamme (e che ci volete fare se sono impazzita), è tornato Giuliano Il Muratore con il giavellotto di bambù e metallo stacca-stalattiti. Mio marito, com'è suo costume, si è rifugiato in bagno con la velocità di un gatto, per cui, come da copione, vedendomi da sola, il nostro eroe dei tetti mi si è rivolto con un "signorina", chiedendomi se per caso non stessi per andare a sciare, dopo aver notato l'inguainante fuseaux indossato non senza imbarazzo dalla sottoscritta.
Nel pormi la domanda, ovviamente, mi ha dato del tu. Dopodiché, per dirmi di scostarmi, onde non essere trafitta dall'affilato accricco (o accrocco? chissà), se n'è uscito con un "stia attenta" o qualcosa del genere.
Infine, compiuta la sua missione, se n'è andato via portandosi dietro il proprietario che anche stavolta ha dovuto far finta di preoccuparsi che non cadesse dal tetto. Sulla soglia di casa, mi è parso di sentire un "ciao, signora". Ciao a te, Giuliano Il Muratore.
Il non plus ultra delle commistioni tra formule di cortesia le fa però il simpatico ragazzotto che mi stampa le foto, da me soprannominato "grazie a lei".
"Grazie a lei" mi dà regolarmente del tu e si ricorda persino il mio nome e cognome: in più di un'occasione ci siamo sentiti anche al cellulare per via di un'emergenza che solo lui poteva risolvermi.
Grazie a Lei è gentilissimo, ma di una squisitezza davvero tenera, e però non c'è niente da fare: tutte le volte che mi saluta, dopo un'intera conversazione amichevole con il tu, al mio "grazie, ciao" di saluto, mi risponde regolarmente: "grazie a lei".
Ok, Grazie a Lei, stai tranquillo, ho capito. Sei convinto che si fa così e a me sta bene.
Invece (ma non mi sbilancio troppo, per non condizionarvi), perché si deve usare "remind" per dire pro-memoria? Perché dovrebbe essere meglio "expertise" di professionalità, esperienza?
Perché dire job-oriented per indicare qualcuno che sta cercando un lavoro?
Insomma, perché, why, non possiamo parlare in italiano quando è più logico?
Sinceramente, a volte mi si accappona la pelle. The skin. Giusto lo scorso venerdì, peraltro, Marco Cicala, un giornalista che scrive molto bene (per i miei parametri) ha preso per i fondelli l'inglesistico idioma delle aziende di alta moda.
Era ora che qualcuno lo notasse e non perché ce l'abbia con le lingue straniere. Anzi, sarei così felice di poterle mettere in pratica di più. E' che fuori contesto, francamente, sono ridicole. E ci rendono ancora più provinciali.
E con ciò ho detto tutto. Forse troppo.
Pensateci e poi datemi la vostra.
Give me your feedback, o yeah, "asap"... che sarebbe, udite udite: "as soon as possible". Ebbene sì.
In tutti i modi, passate un vero happy Valentine. 

domenica 12 febbraio 2012

Sorrisi di una mezza mattina siberiana



E adesso quel cumulo è ancora più alto: per dare l'idea delle proporzioni, l'ho fotografato di nuovo con la gattina che guarda verso l'alto per tentare di scrutare verso l'orizzonte, decisamente inaccessibile a una creaturina (teppa, ma pur sempre piccola) come lei. Però non ho ancora scaricato la foto, quindi ne ho riciclata una vecchia, si fa per dire, visto in che condizioni siamo a distanza di dieci giorni dalla prima bufera.
Giuliano il Muratore ci è salito sopra, passando dal nostro davanzale, per liberare la grondaia paurosamente appesantita dal ghiaccio. Il risultato qual è stato? Che il cumulo sottostante più quello di una trentina di centimetri buoni creato dall'ultimo blizzard (mortacci all'inglese) hanno prodotto un ammasso bianco alto praticamente come me. Vabbè, ci vuole poco, però non è molto simpatico dover prendere il panchetto poggiapiedi, che utilizzo per scaricare meglio il peso delle gambe quando sto al computer, per guardare lontano assieme alla mia gatta.
Ma qui volevo parlare della nevicata del '56, che io ben ricordo.
E come no? Me l'ha chiesto Giuliano il Muratore se ai tempi ero bambina.
Lo stesso che lo scorso maggio mi aveva domandato, vedendomi con lo zainone sulle spalle, se per caso stessi andando a "lu campu", forse per una gita con i lupetti. In quell'occasione, infatti, mi aveva chiamato "signorina", come fa praticamente sempre quando mi trova in casa da sola. Se invece c'è mio marito, allora, forse, si ricorda che devo avere una certa età. Giuliano il Muratore ha un senso del tempo piuttosto elastico.
D'altra parte, doveva trovare pure un appiglio per ritirare fuori la nevicata epocale, precedente all'attuale, almeno nei ricordi dei più anziani. Qualcun altro, invece, ha parlato di quella dell'85 e di quella del 2005 un gruppo ancora più sparuto, composto, per la precisione, dal tabaccaio precedente inquilino del nostro attuale appartamento, un ragazzotto tanto buono ma tanto, tanto, triste e dal nostro proprietario, un uomo un fermano. Quest'ultimo si è soffermato anche sulla qualità dei fiocchi della nevicata che ha inaugurato i miei anni in terra marchigiana, molto più grossi di quelli attuali, quindi capaci di fare volume assai più in fretta. In effetti, non avevo mai visto fiocchi così fini e così insidiosi. Quelli del 2005, invece, onestamente non li ricordo, ma gli credo sulla parola.
Però, lo confesso, queste chiacchiere meteorologiche mi annoiano mortalmente.
Succede un po' come con le foto o con il giornalismo: ti si parano davanti una serie di esperti da fare impressione. Ma dove avranno imparato così tanti segreti sulla luce più giusta o sulla vera fonte di una notizia?
Ma come faranno a dare un'opinione proprio su tutto con tanta sicurezza?
Beati loro, ma veramente. Chi è sicuro di sé, normalmente, vive meglio.
Per quanto ne so io, non ho ancora chiaro quando (e se!) ne usciremo: ora ha ripreso nuovamente a nevicare.
Certo, debolmente, ma quanta incertezza dà sentirsi del tutto in balìa della natura.
Un mio amico di Facebook dice che la neve ci ha imposto ritmi più lenti, che avvicinano le persone. La frase non è sua, ma di una sua amica, in vena di romanticherie. Considerazioni del genere da gente abituata a usare l'auto pure per fare cinque metri mi danno veramente noia, ma in questo caso non conosco bene il tipo né la sua amica, quindi gliele lascio passare.
Per me, che non esco abitualmente da casa per andare a lavorare da qualche altra parte, non è che sia molto cambiato il mio modo di vedere gli altri o la vita. Però riconosco che ci si sente un po' più sollevati, un po' meno in colpa di non poter fare di più.
Quando tutto questo sarà finito (perché un giorno dovrà succedere. Tutto arriva), torneranno i vuoti e l'irrequietezza congenita (ho rubato la parola alla mia amica scrittrice Loretta e al Chatwin cui avevano paragonato tre suoi racconti).
Perciò conviene godersi questo momento ancora un po'. Come diceva Greta Garbo in Ninotchka: "La rivoluzione arriverà, ma non subito, per favore".
Meglio sorridere.
Di noi, innanzitutto, e di quel che sarà.

martedì 7 febbraio 2012

Fuga in rosa dall'Italia mammona (e sfigata)


Sapete che vi dico? Ha ragione Cancellieri. Che cosa? Come oso uscire dal coro di dissenso e scherno verso l'ennesima infelice uscita di uno dei nostri governanti?
Perché conosco i maschi italiani. Quelli medi e quelli speciali. Sì, perché la frase pronunciata da quella donna anziana, con la faccia da mamma nazionale, era sicuramente rivolta alle signore di pari ruolo (che poi molte di loro, compresa la ministra, ricoprano posizioni di potere in questo caso non c'entra).
Cancellieri, molto probabilmente, ha figli maschi; o, se non li ha, ce li ha sua sorella o qualche altro stretto consanguineo. I figli maschi vanno vezzeggiati fino a 69 anni, come direbbe Marco Presta (ma pure dopo, in caso di estrema longevità di mammà).
Ed è inevitabile, date queste premesse, che carni delle proprie carni cresciute così poi non abbiano alcun desiderio di allontanarsi (almeno non troppo) dal tetto natìo.
Tutt'altro discorso vale, invece, per le femmine italiane. Almeno, per quelle che hanno avuto la fortuna di andare a studiare fuori, grazie al denaro familiare (nel sud Italia, fino a pochi anni fa, funzionava in questa maniera anche tra le famiglie piccolo-borghesi come la mia) oppure per estrema cocciutaggine e perseveranza (ho una cugina, più povera di me, almeno nell'infanzia, che ha cominciato a lavorare a 19 anni in una banca toscana, ma, nonostante il monotono posto fisso, ha voluto a tutti costi laurearsi, riuscendoci a pieni voti).
E però, dall'altra parte, nella regione in cui sono venuta ad abitare, una magnifica area italiana del centro, fino a qualche anno fa non c'era granché necessità di emigrare per trovare lavoro. Qualcosa di simile succedeva anche in Toscana: non a caso, nella facoltà che ho frequentato io, una di quelle deboli che preparano futuri disoccupati, il grosso degli studenti era del posto o dei comuni limitrofi.
I "terroni", maschi e femmine, erano iscritti per la maggioranza alle facoltà scientifiche.
Se mi baso su quanto osservo qui, qualcosa mi dice che adesso sia cambiato tutto anche lì.
Per lavorare, bisogna per forza allontanarsi dalla mamma. Per andare dove? Di certo non a Milano o Torino, come si faceva una volta.
Chi ha coraggio ed energia dovrebbe imparare il cinese (l'indiano, l'arabo) e andare. Andarsene. Molti lo stanno già facendo.
Tornando in treno dal mio unico viaggio lungo degli ultimi tempi, ho incrociato due giovani, belle ragazze piene di progetti per il futuro. La bionda faceva esercizi di grammatica araba, la mora parlava di Sudamerica.
Ho provato una grandissima invidia per loro. Qualcosa di simile mi è successa di recente nei confronti di un giovane fotografo, da poco ripartito per il Brasile. Per me, quest'ultimo è un "eccezionale" maschio italiano, ma bisognerebbe vederlo alla prova del tempo.
Ne conosco molti altri, infatti, che non si sono mai spostati da casa propria, se non per temporanee, adolescenziali, escursioni verso la "vita vera".
Perciò, Cancellieri, hai ragione tu: visto lo stato deprimente in cui versa la patria, bisognerebbe andarsene via. Per la precisione, dovrebbero andarsene in massa le donne italiane, l'unico vero Made in Italy capace di "riprodursi" anche all'estero. Ho letto dell'idea di una mia cara amica di Milano di aprire un bar a Goa. So che l'ha scritto tra il serio e il faceto, ma penso, con tutta me stessa, che un paese come questo si meriterebbe se le donne che hanno ancora un po' di forza (soprattutto ideale) d'inventarsi un futuro se ne andassero tutte in luoghi in cui quest'ultimo sia ancora possibile.
Una volta partite loro, infatti, si trascinerebbero dietro i maschi italiani di ogni età. Con il rischio, certo, di ri-radicarli di nuovo nella patria adottiva e di tramandare i cattivi usi nazionali agli eredi (maschi).
L'ultima frase è scherzosa. Non c'è infatti niente di sbagliato nell'umano desiderio di mettere radici, per chi lo prova. Come mi ha detto un pediatra che ho intervistato tempo fa, è più che logico che le famiglie di nuova formazione vogliano stare vicino ai nonni: una volta si viveva tutti nelle grandi case familiari, dandosi vicendevolmente una mano nelle difficoltà. Oggi si abita in posti diversi, ma si ha l'identico bisogno di sostegno psicologico e materiale. Anzi. Oggi è anche peggio, mancando un Welfare adeguato a una società (bene o male) avanzata com'è quella italiana.
E quindi? Quindi nulla: la soluzione non cambia. Semplicemente, le donne italiane ancora dotate di coraggio ed energia dovrebbero emigrare e poi portarsi dietro nonne, zii e zie rimasti da soli.
Come si dice, scripta manent: chissà che non mi venga davvero voglia di comprarmi una grammatica cinese.
In ogni caso, spero, con tutto il cuore, che i giovani veri (di certo io non lo sono più: lo dicono le offerte di lavoro, sempre più umilianti, per tutti gli over 35. Peccato che non ne abbia già 55, almeno potrei concorrere per quelle. In verità, io non mi sento vecchia per niente. Anche per questo motivo, fanculo a questo paese che ti fa sentire tale) abbiano un sussulto di orgoglio vero e prendano atto che qui, in questo momento storico, per loro non c'è futuro. Per ricrearlo, dovrebbero mandare a casa questa classe dirigente vecchia (dentro e fuori), a tutti i livelli, compreso il cugino vigile urbano che ti toglie la multa o il sindaco di collequalcosa che ti trova un lavoretto. Finché non usciamo dalla logica dell'arrangiarsi a spese della collettività, infatti, non c'è alcuna speranza che le cose possano cambiare.
E chi non lo capisce (o fa finta di non capirlo) è sì sfigato e mammone.
Perciò, vecchia ciabatta di ministra, non scusarti. Semplicemente, fatti da parte. E con te, si facciano da parte tutti quelli che aspirano, semplicemente, a mettersi al posto tuo senza merito, bensì solo grazie alla spintarella giusta del barone/essa di turno.
Nell'attesa, imparerò tutti i segreti della cucina cino-pakistana.
Ma il curry mi resta un po' indigesto.