martedì 22 maggio 2012

Della pioggia e del fumetto intellettuale

Maledetta primavera
Lo confesso: ho rubato l'idea della didascalia a Massimo Del Papa e il suo super-accessoriato (grazie alla moglie, diciamolo!) Babysnakes.
La frase prescelta, invece, mi è venuta particolarmente facile, visto il tempo di M. che imperversa in tutta Italia, specchio fedelissimo di tempi non molto allegri.
E però stasera sono qui quasi per caso. Ho infatti acceso per cercare informazioni su Blutch, disegnatore nato a Strasburgo (dunque francese per sole ragioni storiche... eh eh eh), di una cupezza per me a tratti disturbante, benché, alla fine, sia già il terzo fumetto (ebbene sì, preferisco chiamarli alla vecchia maniera: graphic novel mi sta sulle balle) che compro e leggo. Della sua biografia, insomma, avevo già letto, ma non me la ricordavo più, come spesso mi accade quando navigo su internet.
In ogni caso, il suo ultimo lavoro sul cinema (mio altro grande difetto è non rammentare mai i titoli esatti né dei libri né tanto meno delle canzoni) mi ha fatto il solito effetto, ossia mi ha mal disposto, ma alla fine l'ho letto tutto e pure quasi due volte. Sì, perché c'è qualcosa nel turbamento fastidioso, un po' sporco, che mi causa questo disegnatore dal tratto molto raffinato che alla fine mi attira. Forse, per l'appunto, è proprio merito del suo modo di disegnare, fatto di alternanze di chine (immagino) a matite (presumo ancora) più spesse. In modo particolare sono rimasta colpita dai volti delle star del cinema da lui riviste e corrette. Meglio di fotografie, assai più reali ed espressive, decisamente.
Insomma, volevo ripassarmi chi diavolo fosse. Sorprendentemente, ho constatato che ha solo quattro anni più di me, ossia è del 1967, stesso anno di nascita di mia sorella. Oddio, non che dovesse essere un matusalemme, ma dal modo di parlare del cinema e dal tipo di provocazioni che lancia, ero convinta che ne avesse almeno una cinquantina, che appartenesse, insomma, alla generazione di Igort, Mattotti etc etc, ossia di quelli che erano ragazzi negli anni Settanta. Mi rendo conto dell'inutilità della mia deduzione, anche perché il disturbante Bluch non è italiano e quindi perché mai avrebbe dovuto incarnare gli stessi stilemi della generazione nostrana coeva al terrorismo rosso-nero? E però non so: forse è proprio per quel suo modo di provocare, all'apparenza anti-tecnologico, pre-era cellulari-smartphone-social media etc etc, che mi era sembrato più vecchio. Il che, dal mio punto di vista, non è del tutto un male (stasera Severgnini dalla Gruber sembrava un bambinone invecchiato con il suo citare twitter per la stramilionesima volta). Soltanto, mi domando, alla Antonio D'Orrico: perché il fumetto-graphic novel deve far star male? Perché deve per forza angosciare almeno un po'? Forse, azzardo, perché così fa più intellettuale? Chissà.
O sarà che davvero sono io che sto invecchiando e non sopporto più le pesantezze gratuite?
Diciamo così: è probabile che i disegni di Blutch mi piacerebbero di più se fossero privi di testo.
E allora perché sto qui a farne un poema aggiungendo altre inutili parole?
Perché l'autoreferenzialità è insidiosa e spinge a digitare anche quando sarebbe meglio finirla qui.
E infatti la finisco con una postilla riguardante la fotografia e questo spazio.
Più vado avanti e più capisco che non mi legge praticamente nessuno (a parte qualche familiare affezionato. Meno male che ci sono). E allora perché tenerlo aperto? Forse per combattere la noia di giornate più o meno simili, angustiate da una pioggia insistente e da un'umidità deprimente.
E forse anche per fissare sulla carta, finalmente, chi diavolo sia Blutch. Evitandomi di ricomprarlo un'altra volta (ne ho letti tre, quindi non c'è ragione di proseguire con un quarto).
Meglio Dago, non ho dubbi. Però quello disegnato da Alberto Salinas e dal suo grandissimo erede Carlos Gomez, non dagli emuli venuti dopo, che l'hanno trasformato in un banale e verboso seriale.
Non siete d'accordo?
Dubito che mio padre e mia madre abbiano qualcosa da dire.
Mia sorella nemmeno. Quindi a posto così.
Vado a dormire, che è meglio.
E comunque ho cominciato un BELLISSIMO libro di Flavio Caroli sulla storia dell'arte dal cinquecento in avanti. Non me ne voglia (?) Blutch e Hung Hung, l'autore de "Il treno" insieme con un altro cinese di cui, ovviamente, ho scordato il nome, "veramente di nicchia" (cit dal negoziante che me l'ha venduto) che ho letto e che mi ha lasciato decisamente un po' così.
Sì, sto invecchiando.
Mi metto l'antirughe e dormo, sì sì.

sabato 19 maggio 2012

Dedicato alle ragazze di Brindisi e a tutti gli adolescenti d'Italia


Non ho fatto in tempo a memorizzare tutti i nomi, però le loro facce dubito che potrò dimenticarle in fretta. Soprattutto, non credo che potrò mai smettere di associare le risate e gli applausi carichi di allegria della folla di adolescenti assiepati nell'aula magna dell'istituto tecnico industriale di Fermo, alle ragazze del professionale di Brindisi rimaste coinvolte nel vile attentato di stamattina. Al tg3 sentivo che se l'ordigno fosse esploso qualche minuto dopo, la strage sarebbe stata ancora più grave. Proprio in quegli attimi, infatti, sono soliti arrivare i pullman che conducono le studentesse (la stragrande maggioranza degli iscritti all'istituto brindisino) dai paesi limitrofi. Anche a Fermo succede qualcosa di simile: i più mattinieri, di solito, sono proprio quelli che convergono nella cittadina marchigiana da più lontano, catapultati giù dalle "corriere", come le chiamano da queste parti, con le facce ancora mezze imbambolate. Per svegliarsi e reggere le cinque e passa ore di lezione, l'unica maniera è fare colazione, magari al bar della scuola, come stavano accingendosi a fare, probabilmente, Melissa Bassi, per ora l'unica vittima dell'infame attentato, e Veronica Capodieci, la seconda, mentre scrivo questo post, ancora viva, pur se gravissima, nonostante le notizie ferali di qualche ora fa.
Si può morire a sedici anni in un modo così atroce e insensato?
Abituati come siamo alle cosiddette stragi del sabato sera o tutt'al più ai tragici scherzi della sorte che a volte interrompono vite ancora troppo giovani, non si riesce a credere che stia davvero tornando quella rabbia sociale, direi più pre che post, che quando ero ancora bambina ha "azzoppato" il futuro di molti della mia generazione.
Perché bisogna dirlo chiaro e tondo: chi ammazza in questo modo, non importa se per mano della mafia o del terrorismo nero/rosso o di qualsiasi altro colore, uccide l'Italia e la speranza che possa diventare un Paese normale. Altro che G8, altro che avere le carte in regola. No, egregio professor Mario Monti, il nostro Paese non le ha e seguiterà a non averle  finché non finirà la teoria di commemorazioni e di funerali di Stato in ricordo di morti che tuttora urlano giustizia.
Quanta ipocrisia in questo Paese, quella sì, davvero, non manca. E quanta retorica.
Ero contenta, stamattina, di sentire i ringraziamenti di quei ragazzi conosciuti per pochissimo tempo (solo otto ore di lezione, ciascuna da due), eppure bastevole a farmi trafiggere dai loro sguardi vispi e insieme dolci. Mentre consegnavo a ognuno di loro l'attestato di partecipazione arrotolato come un diploma, ripensavo alla gioia che mi ha dato stare in loro compagnia e ancor di più alla dignità che sono stati capaci di restituirmi, inconsapevolmente, standomi ad ascoltare fosse pure per qualche minuto di seguito.
Tra qualche anno, se tutto andrà bene, Nathalie, Sara, Chiara, Paolo, Mirko e tutti gli altri prenderanno ciascuno la propria strada e io mi auguro davvero di cuore che sia la più luminosa possibile, che facciano o meno carriera, usando la parola che circolava stamattina sulle labbra di vari invitati.
Ma voglio dedicare i fiori che mi hanno regalato alle ragazze di Brindisi: assieme ai coetanei di Fermo e di tutte le altri parti d'Italia, vi scongiuro, provateci a cambiare l'Italia.
Noi quarantenni abbiamo bisogno della vostra energia, della vostra freschezza. Solo così, forse, il sacrificio di Melissa potrà essere, molto parzialmente, riscattato.

martedì 15 maggio 2012

Giulio Brillarelli, uno scrittore di gran classe... nonostante la coppola


Non mi capita molto spesso di chiudere un libro e di restarci male perché è già finito.
Mi è successo invece proprio così con i diciassette racconti di Jack Birindelli, lo sciocco ma tenero pseudonimo dietro il quale si nasconde Giulio Brillarelli.
Conosco Giulio dal 2005, giorno più giorno meno, ossia dagli anni mitici e mitizzati della Voce delle Marche, il settimanale diocesano di cui io ero redattrice e lui collaboratore esterno.
Che fosse bravo, anzi bravissimo, mi era chiaro già allora, quando mi stava accanto a scribacchiare le sue brevi in ciabatte di gomma e camicia hawaiana. Non parlava molto, il nostro validissimo giornalista in erba, ma quando lo faceva profferiva sempre una miscela di stronzate e di genialità che ci lasciavano secchi.
Al contempo, avevo già intuito l'idea che Giulio fosse molto di più di un aspirante collega, ma uno scrittore fatto e finito, giusto un po' naif (lo prendevamo regolarmente in giro per il suo abbigliamento non proprio elegante, infatti. Negli anni è decisamente migliorato: adesso porta la coppola anche a giugno, come lascia trasparire dalla descrizione di un suo personaggio).
Mai mi sarei potuta immaginare, però, all'epoca avesse già scritto la quasi totalità dei racconti che si è di recente autoprodotto con Ilmiolibro.it, intitolandolo Bionde, fantasmi, pasticceri e brutti figli di puffana.
Che risalissero a un periodo della vita ormai lontano per tutti e due (anche se Jack ha esattamente dieci anni meno di me: classe 1981, gli anni di piombo agli sgoccioli), l'ho scoperto solo qualche sera fa, quando Giulio è venuto a casa mia con il nostro ex mentore, il grandissimo e da noi molto rimpianto Giuliano Traini, il direttore di quel piccolo gioiello di stampa locale ahimè mai più ripetibile.
Pure quella sera Giulio se n'è stato zitto per quasi tutto il tempo, ma con gli occhi seguiva i miei sguardi di simpatica presa per i fondelli indirizzati all'ignaro diretùr, dandomi ulteriore conferma della sua sagacia.
La prova più tranciante di quest'ultima, però sono proprio i suoi racconti, in cui l'autore ha alternato stili e lunghezze diverse.
Il tema dominante è, se posso permettermi, tipico di un giovane scrittore, ossia l'amore, inteso come struggimento per la sua mancanza, come innamoramento zuccheroso per la sua presenza (davvero frizzanti Albricorilla e Bionda naturale) oppure incazzato per la fine inattesa.
Interessante la parentesi musicologa dedicata ai nove Greatest hits della sua adolescenza, tra cui (purtroppo!) anche Laura non c'è, ma accidenti se è scritto bene pur trattandosi di una canzone di merda!
E, a proposito di quest'ultima parola, Giulio è capace di scriverne di ben peggiori trasformandole in vera letteratura. Strizzerà anche l'occhio ad altri autori che del turpiloquio hanno fatto una vera e propria poetica trash, ma a me il suo sembra molto efficace e divertente.
Meno (non me ne voglia) mi piacciono le sperimentazioni più ardite, quelle in cui rimescola le frasi, alla maniera di Alessandro Bergonzoni. Ma se davvero è intenzionato ad addentrarsi ancora di più sul sentiero della letteratura dadaista, di certo non sarà questa mia recensione improvvisata a fargli cambiare idea.
In tutti i modi, concludo con quel che gli ho spifferato anche dal vivo: Giulio è uno di quegli autori capace di incollarti alle sue parole facendoti dimenticare che intanto il tempo se ne va e tu non sei più bambina (mi pare di aver letto anche il nome di Celentano tra le sue pagine: e se non c'era, beccatelo un po', tu che ascoltavi - ascolta-VI, vero? - Nek).
Beh, bambina (a parte i 152 centimetri di bassezza) non lo sono più da un pezzo, ma non dovrei essermi ancora rimbecillita (tra poco viene a prendermi l'infermiere, devo fare presto) ed è proprio per questo che voglio concludere la presente nota con una preghiera, accoratissima, rivolta all'autore: vai avanti così, Giulio, tu sei fatto per scrivere e per i lettori che non aspettano altro che di leggerti.
Ci conto, ci contiamo. E beccati anche questa: grazie.

Alessandra Cicalini

domenica 13 maggio 2012

Ad maiora!



Quasi alla fine del mio lavoro di foto-racconto sulla zona del centro storico di Fermo in cui vivo (ebbene sì: abito a Fermo, nelle Marche, per gli sparuti lettori che non l'avessero ancora capito), ho incontrato Luigi, uno dei protagonisti dei miei scatti. Accanto a lui, poco distante, c'era la scarpa che vedete in alto, dallo spazzino del duomo raccolta e piazzata lì come un'installazione (a proposito: ma si scrive iNstallazione o istallazione senza N?). Gliene ho chiesto lumi, spiegandogli che come biglietto da visita e immagine di apertura dell'altro mio blog (Minime Storie) avevo scelto quelle scarpe bianche, probabilmente da sposa, abbandonate a cinquanta centimetri circa dalla vespa di mio marito. Luigi mi ha risposto che gli capita molto spesso di fare bizzarri ritrovamenti quando attacca a lavorare intorno alle sette del mattino. Non ha voluto essere più preciso, però mi ha lasciato immaginare quel che la madre di una mia compagna di liceo aveva indicato come "cosacce".
Personalmente, voglio augurarmi solo che non siano cose turpi o peggio violente. Per il resto, basta che non facciano troppo casino, dal momento che le finestre della nostra camera da letto danno proprio sulla zona del parco cittadino notturnamente molto frequentato.
Se però sto scrivendo di quest'episodio, è per un motivo più che preciso: ieri mattina ho saputo che il mio lavoro dal titolo omonimo al mio blog è stato selezionato per la mostra e il libro sui workshop ideati e condotti dal fotografo Giovanni Marrozzini. La presentazione ufficiale è prevista il prossimo 16 giugno a Bibbiena (ho da poco controllato dove si trovi... sapevo in Toscana, naturalmente, ma ignoravo in quale parte della bella regione in cui ho fatto l'università) al Centro italiano della fotografia d'autore.
Al di là di ogni considerazione un pizzico cinica sui denari che dovremo sborsare per accaparrarci la pubblicazione, per me è una grande soddisfazione. Sì, lo è. Per come è nata l'idea, per il periodo difficile in cui ho ripreso a fare le foto e per tutta la creatività che ha finalmente ripreso a circolare nelle mie vene e che mi sta permettendo di affrontare con uno spirito, meglio, una grinta diversa la precarietà del presente.
La bella notizia è peraltro giunta a pochi giorni di distanza da una piccola svolta che ha coinvolto anche mio marito. Sulle sue vicende, però, preferisco mantenere il riserbo conoscendo la sua ritrosia.
Ho insomma l'impressione che l'incertezza possa portare anche opportunità impreviste e che davvero crisi significhi anche cambiamento, non solo arresto.
Staremo a vedere che accadrà a entrambi, però sono sicura che indietro non si possa più tornare e che il bello debba ancora arrivare.
Potrebbe essere un'illusione? Uno scettico o un pragmatico potrebbe pensarlo: ma siccome non si vive di sola concretezza, mi attaccherò sempre ai significati nascosti di tutti gli eventi che dovessero capitarci.
Perché, nonostante tutto, la vita è un dono da custodire fino all'ultimo respiro.
In conclusione, ripetendo il motto che scrivo spesso (troppo spesso) sull'altro blog: ad maiora!

martedì 8 maggio 2012

Speranza Bosusco per i disoccupati d'Italia



Chissà se alla fine Paolo Bosusco ha trovato un lavoro "con la natura e gli animali e le tribù", secondo i desiderata espressi da lui medesimo subito dopo la sua liberazione.
Intendiamoci, glielo auguro con tutto il cuore, anche perché chi meglio di lui, con quel sorriso inconsapevole, può affrontare intemperie e altri fastidi provocati dalla nostra madre terra nonostante tutti i nostri tentativi di ridurla al silenzio?
Resta sempre il fatto che il bamba che gli ha assegnato Feltri qualche giorno dopo il suo rilascio mi pare piuttosto appropriato, considerato che si era spinto volontariamente in una zona dell'India notoriamente sconsigliata dalla Farnesina. Tant'è: è comunque un sollievo che una persona all'apparenza così sprovveduta, di età non esattamente verde, sia riuscita a cavarsela. E se è già al lavoro, tra l'altro, potrebbe diventare un simbolo per i molti disoccupati ultra-trentacinquenni considerati meno di zero dal mercato del lavoro nazionale.
Sono rimasta davvero impressionata nel leggere del tentativo di suicidio di un muratore di appena 44 anni, dotato di villetta a più piani e di una pizzeria data in gestione. Ha famiglia, una figlia (che per fortuna è riuscita a bloccarlo mentre si stava già lasciando penzolare giù da un albero del giardino di casa) e un mutuo grosso così sulla testa.
Che dire? Meno male che il prezzo di quella casetta tanto carina che volevamo comprarci, Sfaccendato e io, è rimasto troppo alto, altrimenti oggi eravamo messi anche peggio di come siamo adesso.
Sì, perché è dura sorbire l'avanzo del brodo di ieri (buonissimo, eh: era semplicemente impossibile consumarlo tutto in una botta) ascoltando lo sfogo del povero Sfaccendato che un giorno sì e uno no tenta di scrollarsi di dosso un senso di colpa molto più vecchio di lui.
Si fanno in continuazione delle scelte, alcune, forse, sbagliate, ma che cosa possiamo farci?
Anche Bosusco, per esempio, si è reso conto di aver detto una fregnaccia quando ha dichiarato, a proposito del suo rapimento, di aver fatto più o meno una vacanza. Subito dopo si è corretto e ha rilanciato chiedendo un lavoro. Ecco: se ci si dovesse basare sulla sua prima affermazione, beh, un lavoro non bisognerebbe proprio darglielo. E invece anche lui ne ha diritto, come tutti, se dimostra di essere pronto a imparare con dedizione e serietà un nuovo mestiere, anche se non è più in età da apprendistato. E' quanto vorrei che capitasse a Sfaccendato che di spirito di adattamento e determinazione ne ha in abbondanza e, credetemi, non sono affatto di parte nel sottolinearlo.
E invece che cosa succede in questo affannato Paese? Che Sfaccendato si iscrive a un corso gratuito per operatore di hotel, uno dei pochi proposti dal Centro per l'impiego della provincia in cui viviamo (posso dirlo: Fermo) e nessuno lo chiama, neanche per dirgli che non c'è trippa per gatti.
A mia volta, qualche settimana fa ho provato a propormi come collaboratrice per un giornale online che mi sembrava molto interessante per il taglio positivo prescelto, incentrato sulle innovazioni e su un'idea di Italia per nulla immobile. Il risultato del mio tentativo? Mi hanno chiesto di mandare qualche proposta: io l'ho fatto, con il massimo dell'attenzione possibile, ma nisba, nessuna risposta.
Se ho provato a ricontattarli? Ma certamente: ho chiamato il numero di cellulare che compariva in calce alla mail del caporedattore. Com'è andata? Una segreteria telefonica mi ha avvisato che quel numero era probabilmente staccato o non più attivo. Allora ho riscritto al tipo, avvertendolo anche del disguido tecnico.
Eccovi la sua risposta: "Ciao abbi pazienza ma ho avuto un po' di problemi col cellulare
Abbiamo ricevuto le proposte, le valutiamo col resto della redazione e poi ci sentiamo
ok? grazie mille Matteo"
La mail sopra trascritta risale al 27 marzo scorso. Non dico il nome della testata, perché tanto non è così fondamentale. Mi posso persino ritenere una privilegiata, visto che, almeno, uno straccio di risposta pur se vaga e inutile, l'ho ottenuto.
In genere si riceve in cambio solo un assordante silenzio, una frustata all'autostima dopo l'altra che minerebbero anche "vispe terese" (espressione usata da Feltri) come Bosusco.
Di qui, rinnovo il mio sentimento di speranza per la sua sorte. Almeno è sicuro che un tipo così agli animali farebbe del bene. Quanto alle tribù, beh, non tarderà presto ad accorgersi che di selvaggi molto più pericolosi dei maoisti indiani il nostro bel paese è pieno. Farà meglio a tenersene alla larga, perché questi qua lo lascerebbero marcire al freddo delle Alpi.

venerdì 4 maggio 2012

Il futuro dei giornali e della pulizia dei vetri


Tutto considerato, una loro utilità i giornali ce l'hanno.
Non compro pesce fresco, ma ancora usa dire che sono ottimi per incartarlo. Di certo sono anche assai buoni per sgrassare i vetri. Una perfetta massaia lo sa, e anche se non lo sono (ancora per poco), ogni tanto pure io mi dedico alle pulizie approfondite e la scorta dei quotidiani mi fa molto comodo.
Quel che mi più preoccupa (oltre al reddito incerto), però, è che tra un po' di giornali ce ne saranno sempre di meno.
Ne ho avuto la certezza ieri, quando ho ascoltato/visto l'incontro tenutosi lo scorso 29 aprile a Perugia al Festival di giornalismo. Meraviglie dello streaming, veramente: grazie ai nuovi mezzi, mi è sembrato per un'ora e mezza di essere lì tra gli astanti, a sentire chiacchiere e considerazioni da giornalisti di vecchia e giovane formazione. Chi vuole, lo trova qui:

Sinceramente: tutti i torti Francesco Merlo non li ha quando sostiene che sulla Rete ci sono molti "bloger" (chi ha trascritto il suo intervento si è stolidamente fissato sulla pronuncia adottata da una delle più importanti firme de La Repubblica. E vabbè) che con il mestiere non hanno molto a che fare. Certo, magari definirli tutti (o comunque molti) torvi e pronti solo a far le pulci ai titoli, seduti comodi alle proprie scrivanie, è una semplificazione un po' fastidiosa, considerato che qualcosa di molto simile fanno molti colleghi del medesimo Merlo, che - vi assicuro - abbondano ancora nelle redazioni più "embedded".
Ad ogni modo, Merlo & co (perché di certo non è il solo ad aver criticato i blogger), forse, si lasciano andare a giudizi vagamente velenosi perché sono consapevoli di essere - chi più chi meno - dinosauri insidiati ogni giorno sempre di più da ragazzini che considerano anche i blog roba per vecchi e che di certo non hanno quasi mai letto un loro pezzo sul cartaceo (sempre ammesso che siano riusciti a sciropparselo tutto, una volta che l'abbiano scovato sul Web).
Anche per me che, a occhio, ho una quindicina d'anni meno di Merlo e Cresto Dina, i due "vecchi" invitati al dibattito sopra linkato, è faticoso seguire le news online e non solo perché mi serve la carta per pulire i vetri (o da mettere sotto il lavandino della cucina).
Sono altrettanto convinta che nel giro di pochissimi anni - forse anche meno - i dinosauri saranno costretti a una radicale rivoluzione copernicana delle proprie redazioni (Cresto Dina ricorda che da loro l'online è ancora all'ultimo di una palazzina di sei piani e che per accedervi bisogna pure passare da un altro ingresso. Veramente incredibile).
L'aspetto. Sperando - onestamente - di poterne ancora fruire anch'io (nel frattempo rubo un ipad in un applestore. Ma forse facevo meglio a non dirlo. Ora mi mandano la finanza).
Sempre ammesso che abbia ancora la forza di perseverare in una professione ogni giorno più fluida e, in certi casi, più approssimativa, in cui non si sa bene che cosa conti per esercitarla al meglio, se una buona penna, il fiuto per le notizie e/o la massima padronanza di vari mezzi audiovisivi, per postare in tempo reale... che cosa? E' proprio qui sta il punto: che cosa sarà "notiziabile" un domani? Le intercettazioni rubate qui e là dal collaboratore del giornale di Scalfari, Francesco Cocco, in alto tra i relatori del dibattito di Perugia, oppure l'infografica che tanto fa impazzire il direttore de Linkiesta, Jacopo Tondelli, quello con gli occhialini?
E come potrò io dalla provincia, ammesso che continui ad abitarci, dare il mio contributo?
Mi faccio tutte queste domande e le condivido su questo spazio perché oggi ho concluso il ciclo di quattro lezioni ad alcuni ragazzi che frequentano il terzo anno di una scuola tecnico-industriale e che per scelta (più che altro per avere crediti formativi, credo!) si sono sciroppati otto ore con la sottoscritta.
L'anno scorso non mi avevano chiamato, dopo cinque edizioni di fila, con mio grande rammarico. Perché, al di là del denaro che comunque mi daranno, "insegnare" ai ragazzi su materie come queste mi fa ricordare con quanta passione io abbia scelto, ormai più di dieci anni fa, di sostenere l'esame d'accesso all'ex Ifg di Milano.
Negli anni, la mia situazione lavorativa è cambiata più volte, di pari passo con i mutamenti socio-economici dell'Italia e del mio settore. Che cosa potevo raccontare quest'anno?, mi sono detta nel preparami agli incontri con loro. Che cosa potevo tenere dei miei vecchi appunti e che cosa cestinare?
Conoscendo quanto poco si scriva nelle scuole, ho mantenuto le esercitazioni sulle brevi e sulla titolazione. E tuttavia ho dovuto introdurre delle modifiche anche sulla parte "hardware" del mio laboratorio, perché sempre di più le news vanno lanciate anche su altri mezzi e con altri formati.
Insomma: mi sono resa conto che il mestiere sta cambiando e moltissimo. E che forse, ma lo dico piano, per le nuove generazioni si apriranno nuovi spazi oggi non del tutto immaginabili.
Resta però altrettanto vero quel che ha detto Edward J. Murrow, anchorman della Cbs cui George Clooney ha dedicato il bellissimo Good Night and good luck che dietro la tv (e oggi diremmo smartphone, tablet etc etc) ci sono le persone e le idee, libere e indipendenti, da veicolare con chiarezza, competenza e onestà intellettuale, altrimenti tutti questi mezzi non sarebbero altro che ammassi di fili elettrici e di bit.
E se c'è qualcosa di cui sono ancora fieramente consapevole è della grande responsabilità etica di chi usa le parole per vivere. Ecco: questo non è cambiato né dovrà cambiare.
Parola di giornalista-bloger per niente torva nonostante l'incerto destino.

martedì 1 maggio 2012

Dedicato ai "disoccupasoul"


Ancora sotto l'influsso positivo dello scorso sabato, ritengo di avere l'umore adatto per parlare del fumetto di cui riporto sopra la copertina.
L'ho comprato poco tempo fa, in una (ennesima) giornata piovosa in cui abbiamo deciso (con Sfaccendato) che era proprio il caso di uscire.
Mai vista (nemmeno nelle grandi città) una fumetteria più fornita di quella della cittadina adriatica, posta poco più a nord del paesone in cui abitiamo.
Ho deciso di acquistare questo fumetto e un altro che ha provocato il seguente commento del negoziante (un soggetto veramente incredibile): "Di nicchiaaaa!", che però non ho ancora letto. E comunque, anche se l'avessi fatto, dubito che ne avrei parlato per la presente rubrica.
In fatto di originalità, comunque, anche Il disoccupasol non scherza affatto.
Scritto nel 2004 da Laca, pseudonimo di Luca Montagliani, un fumettista-musicista genovese (anche se penso di origine abruzzese... buon sangue non mente!), racconta le strampalate esperienze lavorative del suo alter-ego con il naso a proboscide.
Prima di incamerarlo, ho letto la recensione sull'ultima pagina a cura di un tale Carlo Chendi, a me del tutto sconosciuto, ma immagino abbastanza noto nel mondo dei fumettari under-qualcosa, il quale ne elogiava la sua estrema comicità.
Ecco. A me non è sembrato così, anche se mi ha strappato più di un sorriso cattivello.
Sarà che oggi come oggi, a trovarsi nelle assurde situazioni capitate (sembra) per davvero all'autore o a qualcuno di sua stretta conoscenza siamo sempre di più, ma il pensiero di dover vendere bandierine senza successo (il punto più spassoso del libro) davanti allo stadio o al congresso di un partito non mi rallegrerebbe affatto.
E in ogni caso, concordo con il recensore sul fatto che far ridere sia assai più difficile che far piangere. Sarà anche per questo che, spesso, sbraco un po' verso la lagna.
A riuscirci benissimo, per esempio, erano Renzo Arbore e i suoi amici-colleghi-fratelli con cui negli anni ha creato programmi veramente indimenticabili, da Alto gradimento all'immortale Indietro tutta.
Indietro tutta, caro Renzo, l'Italia è andata davvero, che sia colpa o meno del nano diabolico o (com'è più probabile) del grosso della classe dirigente nazionale, sindacati compresi.
Eppure. Eppure anche una risata amara strappata dalla ferocia linguistico-grafica di un piccolo fumetto come Disoccupasol possono sollevare un po' il tono dell'umore e farci sentire ancora vivi.
Di motivi per tenersi su, a ben guardare, ce ne sono tanti; per paradosso, ad esempio, anche il fatto di non contare nulla, di non aver grandi responsabilità professionali e sociali, possono donare un senso di libertà davvero impagabile. Proprio quest'ultima parola è venuta fuori ieri sera, nello speciale dedicato al grande Renzo foggiano-napoletano, un artista che ha fatto della libertà (niente affatto bossiana!) un vero e proprio stile di vita.
Certo, Arbore ha avuto fortuna, ma accidenti se se l'è meritata e meno male che ho potuto apprezzarlo già da bambina, quando in auto mio padre ascoltava il canto del venditore di acqua calda, sbellicandosi di risate davanti a me e con me, che non capivo ma invece capivo.
Allo stesso modo, anche Laca e il suo omino con il naso lungo e ricurvo mi sono simpatici perché danno l'idea di non dover rendere conto proprio a nessuno. E infatti nessuno si salva sotto la sua china, nemmeno il bambino o l'immigrato venditore di accendini.
Ho provato a cercare notizie sui lavori successivi dell'autore, ma dalla Rete non ho ricavato granché. So che suona in un'orchestra di world music e ho anche ascoltato qualche brano del loro repertorio.
Dubito che abbia fatto i soldi, ammesso che fosse questo il suo obiettivo di vita. Abbiamo la stessa età e da quel che ho capito anche lui è sposato o lo era qualche anno fa. Insomma, nonostante precarietà e lavoretti di varia natura, Laca se la cavava ed è probabile che lo faccia ancora adesso.
E' un delitto non essere noti al grande pubblico? Credo di no. Quel che è grave, magari, è non riuscire a farsi dare i giusti riconoscimenti per quel che si è prodotto. Lo è sempre, che si faccia l'artista o il magazziniere.
Un Paese davvero civile, però, è quello che crede nei suoi talenti e li aiuta VERAMENTE a emergere, dando seconde (anche terze) chance a chi non ce l'ha fatta a venti-trent'anni.
Non parlo solo per me, sul serio: lo dico per i molti "disoccupasol" diventati, probabilmente, "disoccupasoul" per il grosso "blue" che appesantisce loro le spalle e il cuore.
Ecco. Mi sembra questo il giusto messaggio alla nazione (?) per un primo maggio silenzioso e discreto, lontano da palchi, luci e inutili celebrazioni in doppio petto e tailleur.
Ce la faremo.
Ce le dobbiamo fare.
Da parte mia, ci proverò ancora.