giovedì 15 novembre 2012

Confusione, il mio karma

Sto contando fino a dieci, per non dire o fare parole e cose di cui potrei pentirmi.
E d'altra parte, i periodi o sono completamente di cacca o non lo sono affatto.
Per fortuna ieri sera abbiamo visto un vecchio film con Tyron Power che mi ha fatto molto riflettere (purtroppo non ne conosco il titolo, ma ho intenzione di cercarlo a breve. Magari ci scriverò anche su, se lo  trovo).
Sono una persona inquieta e lo resterò per tutta la vita. Il che, ovviamente, comporterà sempre questo leggero (leggero?) scarto tra i miei sogni e la realtà, ma non mi cambierei con nessun altro, nessun'altra, per cui è bene che accetti la confusione che alberga nella mia testa piatta (giuro: è piatta, perfetta per trasportare giare) una volta per tutte.
E' proprio questa mia caratteristica, infatti, che mi ha fatto scappare da Milano svariati anni fa ed è sempre lei la responsabile delle mie scelte lavorative successive. Di nulla di cui ho fatto mi sono pentita. Anzi: le persone confusionarie come me cercano di accumulare sempre nuove esperienze, perché solo così si sentono vive. In questo periodo, per esempio, ho ripreso a studiare l'inglese e, ovviamente, ne sono entusiasta. Non a caso, peraltro, ho scelto come password per entrare nel mio corso online, la frase "leavingitaly". La confusione mi spinge infatti a percepirmi di nuovo in attesa del prossimo cambiamento, stavolta verso una non ben precisata, destinazione straniera.
Su Facebook seguo il cammino di un tipo a occhio di una decina d'anni più di me, che sta viaggiando in Sudamerica: pubblica foto delle sue soste nei caffè e di paesaggi da favola. Soprattutto, si sente che è felice. Non lo conosco personalmente, ma sono veramente contenta per lui.
E insomma: è bene che continui in questo cammino di conoscenza interiore, accettando la mia integrale solitudine di essere umano qualunque. Un giorno potrei scoprirmi molto più capace di vederci chiaro di quanto non sappia fare adesso.
Oppure hanno ragione i Maya e il 21 dicembre finirà tutto: a che serve affannarsi, dunque?
E no, non voglio imbalsamare nessuna emozione, anche se è più che opportuno non farle trasparire con chi non potrà mai capire.
L'ultima (confusissima) frase è per introdurre questa bellissima canzone di Lucio Battisti, con cui mi accomiato, almeno per oggi.



domenica 11 novembre 2012

Un video amatoriale (issimo!) scaccia-pensieri

E meno male che ho steso i panni dentro: piove orrendamente, come credo in quasi tutta Italia.
La giornata uggiosa dovrebbe ispirare pensieri nefasti ed è ben per questo che reagisco linkando al mio primo video realizzato con la sony hd (faccio pubblicità, ebbene sì) dedicato al mercatino estivo di Fermo.
Una roba più amatoriale di così non potevo farla, ma tanto, in un mondo di dilettanti, perché mai dovrei essere la sola che si censura? E in ogni caso, lo ribadisco: è un video scaccia-pensieri, a suo modo, nelle sue evidenti imperfezioni, persino (pateticamente) poetico.
E poi Paolo è proprio telegenico: e non lo dico perché sono di parte (su facebook seguirebbe faccina sorridente).
Buona visione (e per i non fermani: buona occhiata sulla bellissima piazza del Popolo, cuore del centro storico della cittadina marchigiana, uno dei molti gioielli di questo povero e depresso Paese).





venerdì 9 novembre 2012

I giorni della chiarezza


Come cambia in fretta la vita. Aveva ragione mia nonna, quando parlava della strana velocità che prendono gli anni a partire da un certo momento. Eppure io mi sento più o meno identica a sempre, diciamo non troppo più matura della mia giovane compagna di palestra. Invece di certo lei mi darà la mia età, se non di più, chiedendosi anche come si faccia ad arrivare alla età adulta con quell’aria un po’ inconsapevole che metto su nelle chiacchiere tra un esercizio e l’altro.
Sia come sia, a un certo punto si è costretti – letteralmente – a svegliarsi e a guardarsi per bene.
Non mi va di essere annoverata come l’ennesima quarantenne ombelicale, perciò tralascio l’analisi impietosa che faccio quotidianamente su rughe e altre imperfezioni del mio corpo e punto dritta al problema vero.
Non sono felice. Qualcuno dirà: e chi lo è? Giusto: tutti accumuliamo frustrazioni e soprattutto chi ha il privilegio (e l’onere) di possedere un cervello, s’interrogherà sempre su ciò che non va, in noi e nella realtà che ci circonda.
Alcune frustrazioni, in effetti, sono indotte da un presente troppo opaco, a voler essere generosi.
Altre, invece, sono caratteriali.
Altre ancora, infine, scaturiscono dal caso, il destino, il fato, la sorte. Comunque vogliamo chiamare quel curioso concatenarsi di eventi che compone i nostri giorni.
Mi sto per l’appunto domandando se alcuni di questi ultimi accaduti di recente non fossero già scritti nel mio personale cammino. E se avessi potuto conoscerne il significato tentando di uscire da me stessa per guardarli dal di fuori?
Perché, ad esempio, ho letto giusto ad agosto un libro in cui si parlava di resilienza?
In ogni caso, adesso devo tirarla fuori con la grinta che qualcuno mi attribuisce.
Perché possa esercitarla pienamente, però, ho bisogno di avere intorno le persone giuste.
E ambienti favorevoli. Purtroppo su quest’ultimo fronte sono un po’ sprovvista, o forse lo sono pure sul primo, diciamo la verità.
Di chi la colpa? Chi può dirlo. Anche ammesso che ne abbia qualcuna anch’io (sono permalosa e ipersensibile), non posso recitare a vita.
Perciò stop alle ipocrisie.
D’ora in avanti sarò assolutamente me stessa. Tanto, la mia popolarità non è cresciuta di un’unghia in tutti questi anni di buonismo a buon mercato.
Potrò essere sgradevole, come so essere solo con chi mi conosce profondamente. Al contempo, so che lo sarò solo con chi mi ha ferito, mi ferisce con la sua indifferenza, noncuranza, e, a volte, proprio con la sua cattiveria.
D’altra parte, è difficile che la mia impetuosità non venga fuori, prima o poi.
Ho capito che è meglio mostrarla per tempo, perché potrebbe crescere in maniera disturbante, danneggiando innanzitutto me stessa e la mia vera – o presunta – capacità di resistere alla sofferenza.
Insomma: basta con l’autopunizione. Adesso è giunto il tempo della chiarezza.
Chi mi ama – lo so - mi seguirà.
Fanculo a tutti gli altri.

mercoledì 31 ottobre 2012

In biblioteca a scrivere e fotografare, la giusta pausa tutta per me

Biblioteca Mozzi Borgetti, Macerata


Comunque vada a finire, ne è valsa davvero la pena.
Parlo della mia esperienza di ieri pomeriggio, le quattro ore più piacevoli della mia vita recente, non esaltanti, giovanilisticamente parlando, però assai rasserenanti.
Sto parlando della mia partecipazione a Storie da biblioteca, un concorso o gioco (a seconda di come lo si voglia vedere) per scrittori/fotografi incentrato sulla valorizzazione dello splendido patrimonio librario delle Marche. Volendo, si poteva partecipare a tutte le dodici tappe del viaggio letterario e fotografico condotto in altrettante biblioteche regionali, anche perché il tutto si è svolto gratuitamente, senza limiti d'età né presentazione di curriculum. Prima di iscrivermi, mi sono giusto informata se fosse il caso che una tardona come me non fosse proprio fuori luogo. Rassicurata dalla gentilissima organizzatrice, mi sono detta: ma sì, perché no? Ed è andata. Anzi: è andata benissimo.
In fondo, non ho dovuto fare altro che rinverdire una mia antica frequentazione: dal liceo alla laurea, ho sempre bazzicato le sale lettura e ancora oggi, quando vedo uno scaffale ricolmo di libri, provo una grandissima fascinazione.
L'esperienza di ieri me ne ha peraltro richiamato alla memoria un'altra, risalente ai tempi della scuola di giornalismo. Qualcuno, non so più se Tabloid, il mensile dell'Ordine della Lombardia, o una testata interna all'Ifg, mi aveva spedito alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, nel cuore del centro storico della metropoli lumbard, per ricavarne un articolo. Ricordo l'esaltazione (in quel caso sì, l'ho provata) nell'aggirarmi tra teche, incunaboli, tavoli massicci e suoni ovattati. Se non vado errata, anche in quel caso ho scattato qualche foto, con una delle prime digitali all'epoca in commercio, dotata, pensate un po', di porta per il floppy disc.
Ai tempi della Voce, poi, mi è toccato di calarmi nel ruolo di un immaginario utente colto di spalle intento a sfogliare un volume qualunque (un'altra volta ho fatto la donna vittima di violenze domestiche e un'altra la cercatrice di lavoro interinale... che si doveva fare per campare). E ogni tanto, soprattutto da quando ho ripreso a fare foto, prendo in prestito qualche volumone di fotografia nella bella biblioteca Romolo Spezioli di Fermo.
Però un concorso, no, non l'avevo fatto mai e se anche non dovessero mai prendere in considerazione il raccontino che ho buttato giù con un certo divertimento infantile e se pure le foto scelte (dovevamo selezionarne solo cinque: quella che vedete in alto è stata sacrificata, non senza fatica) non convincessero la giuria, beh, chi se ne importa. Speriamo piuttosto di avere altre occasioni per nuovi giochi di ruolo, innocenti e stimolanti per anima e, sì, gambe.
Perché accidenti se pesa portarsi appresso pc, fotocamera e cavalletto!
Sarà il caso, piuttosto, che mi attrezzi con uno zaino adeguato: ieri sono arrivata con un borsone da pendolare decisamente poco professionale. E d'altra parte, era giusto presentarsi così, un po' sprovvisti e dimentichi di se stessi. Sì, era proprio giusto così.

lunedì 29 ottobre 2012

Sentirsi come un albero d'autunno


Sono nata e cresciuta in una città di provincia. Ma questo è assodato. E digerito, direi.
Per scelta, nel lontano 2005 sono venuta a vivere in una omologa cittadina posta sulla cartina poco più a nord. La piazza che sta alle spalle di questo scatto è magnifica e conservo ancora il ricordo della prima volta in cui l'ho percorsa, ai tempi del secondo anno della scuola di giornalismo. Era inverno, anzi, autunno inoltrato, probabilmente era venerdì sera, e ci stavamo dirigendo verso quello che vari anni dopo ho scoperto chiamarsi auditorium San Martino. Quella sera Alessandro Bergonzoni dava uno spettacolo proprio per noi aspiranti pennivendoli dalla pelle ancora liscia (qualcuno un po' meno) e il curriculum ancora da riempire (almeno per quanto mi riguardava).
Quel paesaggio era così simile al mio, eppure così esotico. Un anno a Milano vale doppio: già dopo un giorno che ci trascorri, tutto il resto sembra evaporare e ti ritrovi all'improvviso in un presente eterno, senza memoria e senza futuro. Almeno, era questo l'effetto che mi faceva vivere in quella città, forse proprio perché sono cresciuta in posti in cui percepisci lo scorrere delle stagioni, nei colori delle colline, nelle rughe del cielo e nell'aria che si fa all'improvviso pungente. Ogni volta che torno a Chieti, per dire, ritrovo gli odori della mia infanzia e adolescenza e come Proust con la madeleine mi torna in mente chi sono. A Milano, invece, finisci per dimenticartelo e se può andar bene per i maniaci del lavoro o per chi ha ferite dell'anima da curare con il distacco, non può essere adatta a chi, viceversa, vuole, almeno ogni tanto, ritrovarsi. Specchiarsi e riconoscersi. Parlare a cuore aperto con qualcuno, osservare un tramonto, ascoltare il vento. Non che tutto questo non ci sia anche a Milano, è solo che passa in secondo piano, coperto dai rumori, dai volti, dai mezzi e dai continui stimoli, spesso davvero eccitanti, di una città dei balocchi arida e tentatrice.
Non che io non ami scoprire cose nuove, aggiornarmi sulle ultime tendenze (rammento ancora la lezione della mia amica Cristina sulle differenze tra kitsch e camp. Se volete ve le spiego), fare shopping, andare alle mostre e chiacchierare con le mie ex coinquiline, ma non è possibile passare la vita in questo modo: di fatto non lo fa nessuno, neanche chi ci vive contento.
Con il passare degli anni, poi, è logico aspettarsi anche altro, magari un po' meno smog, magari un po' più di calore nei rapporti, un po' più di spessore. L'ho constatato l'ultima volta che ci sono tornata: nessuna di quelle ex ragazze che passavano con me per la bella piazza di Fermo è rimasta identica a come era in quei giorni. C'è chi è diventata mamma, chi ha cambiato lavoro svariate volte, chi ha proprio smesso di fare la giornalista (una a caso?), chi ha scoperto l'India. Per fortuna, si cambia, insomma, anche in quella città così unica, nel bene e nel male.
A distanza di anni, insomma, finisci per dirti: ma perché me ne sono andata? Anche qui, alla fine, i rapporti sono ugualmente superficiali, la grettezza e la disorganizzazione dilagano, e pure il paesaggio, certi giorni, è piatto e squallido e l'aria puzza. Che cos'è che mi ha fatto dire, un giorno di tanti anni fa, mentre passeggiavo in bicicletta sul lungomare di Porto San Giorgio, sì, voglio trasferirmi qui?
Ufficialmente, mi hanno condotto qui il lavoro e l'amore. Poi, però, il primo è finito e con quello gli anni dorati della mia giovinezza. Di questo, ahimè, sono davvero convinta: smembrato il piccolo gruppo brancaleonesco con cui ho passato giornate indimenticabili, è finita anche la mia lunga, prolungatissima, adolescenza.
Il carattere, certo, resta quello, ma dentro qualcosa si è rotto. Qualche illusione di troppo, qualche idealismo da manifestazione scolastica, qualche legame che reputavo importante.
Era ora, probabilmente, ma vi assicuro che un po' fa male, perché ti guardi nello specchio (di tempo in questo periodo ne ho fin troppo per osservare la mia faccia un po' così) e ti chiedi, di nuovo: ma io chi sono e che ci faccio qui?
Così guardo la foto che ho scattato l'anno scorso, sotto Natale, in giornate intense, di quelle che piacciono tanto a una ex bambina come me, e penso di essere come un albero che sta perdendo le foglie (mi sono appena resa conto di aver copiato Giuseppe Ungaretti. Giuro che non l'ho fatto apposta). La primavera è lontana, ma tornerà: conviene risparmiare energie per allora, indurendo la corteccia quanto basta contro il gelo shakespeariano.

mercoledì 24 ottobre 2012

Strategie anti-piagnisteo per la "choosy" che è in me



Comincio a pensare che il periodo saudade durerà ancora parecchio. Del resto, sono appena emigrata in Germania ed è logico che stia qui a rimpiagere o sole e o mare.
Come? Non lo sapevate? Mi trovo a Tubinga, in questo momento, nella città delle biciclette e della giovinezza.
Porca miseria che fatica svegliarsi, questa mattina. E per fortuna che c'è il sole e la gatta Bice giusto dietro di me, sulla solita scatola del tostapane.
No, non sono affatto partita, ma devo dire di essermi sentita un genio nell'usare una scusa del genere per tenere a bada il Seccatore.
Se ne parlo con tanta scioltezza, è perché ho l'assoluta certezza (che fa pure rima) che non verrà mai su questo spazio.
Però, in effetti, c'è stato un momento ieri in cui mi ero già vista con la valigia in mano, pronta a ricominciare da zero.
Nei giorni scorsi ho letto le biografie di vari fotogiornalisti di cui non avevo mai sentito parlare, che mi hanno dato la misura della mia piccolezza. D'altra parte, so benissimo di aver fatto altro e sempre con il massimo dell'impegno.
Però, in effetti, un po' "choosy" lo sono stata e lo sono tuttora, soprattutto verso certi ambienti ricchi solo di grettitudine, un neologismo che mi suona meglio del più corretto vocabolo grettezza.
Così ascolto musica brazileiro-capoverdiana come il brano di Lura sopra linkato.
Mi piace molto il sorriso di questa musicista nata nel 1975, sotto il segno del Leone. Glielo invidio parecchio, forse perché vorrei poter esibire il mio un po' più spesso.
Invecchiando, mi capita più facilmente di parlare di invidia. E pensare che io non l'ho mai provata, verso nessuno, neanche verso le nullità di successo.
Del resto, succede ai lamentosi cancerini come me di fare bilanci impietosi. Penso proprio che dovrò imparare a convivere con questo senso fiaccante di fallimento. Prima lo faccio e prima ne uscirò.
In qualche maniera. Germania o non Germania, nell'ombra o nella gloria.
E alla peggio, andrò a guardare il mare e a sentirne il rumore.
Facendo schiattare d'invidia i tubingani, o come diavolo si chiamano gli abitanti di quella città.

venerdì 19 ottobre 2012

Via dall'Italia prima della disfatta. E Why Aye Man



"Che lavoro fa"? I medici specialisti lo chiedono spesso per appurare se ci possa essere l'usura professionale tra le cause dei disturbi lamentati dal paziente.
A giudicare dai dati presentati oggi da non mi ricordo più quale organismo (poi lo controllo: adesso non c'ho voglia. Comunque l'hanno detto al tg3 del pomeriggio), alle donne italiane farebbero meglio a chiedere: "che lavoro non fa?", considerando proprio il non-lavoro tra le possibili fonti di stress organico.
In tutti i modi, a volte capita che qualcuna che un lavoretto l'ha anche trovato, preferisca tirarsene via prima, per l'appunto, di rovinarsi la salute.
Lo raccontava ieri mattina in coda per le analisi una giovane donna dal viso pieno a un conoscente anziano, amico forse dei suoi genitori, che esibiva uno sguardo molto malinconico.
"Dal call center? Me ne sono andata. Ma per carità. Adesso lavora solo mio marito, è caporeparto alla frutta". Subito dopo ha precisato che neanche il lavoro del coniuge è sicuro, ma meglio di niente. E comunque adesso a lei sarebbe toccato un compito non meno impegnativo: diventare mamma, visto che si era appena resa conto di essere in dolce attesa. Mentalmente le ho augurato buona fortuna. Sperando, naturalmente, che prima o poi possa tornare anche lavorare, perché di certo una mamma casalinga non è un buon esempio, soprattutto se dovesse mettere al mondo una bambina, che un domani finirà per convincersi che anche se sta a casa fa niente.
Tornando alle file dai medici, comunque, tolti quelli che parlano dei propri e altrui acciacchi, in generale ci si sofferma spesso sul lavoro, sul proprio svolto in anni passati, come nel caso di un vecchietto di bassa statura (era poco più alto di me, che come si sa non sono un vatusso), occhialini su un paio d'occhi buoni buoni. "In Germania c'è tutto un altro sistema", mi svelava a un certo punto di un'attesa particolarmente lunga, "lì non vai tu a cercare il lavoro, ma succede il contrario: se ti trovano per strada, ti fermano e ti chiedono se vuoi lavorare da qualche parte. Però se non accetti e ti ritrovano in strada una seconda volta, ti rispediscono direttamente a casa tua".
Dovevano essere ricordi di gioventù, suoi o di qualche conoscente (non ho effettivamente capito se era un ex emigrante, so solo che per un lungo periodo ha adoperato un muletto con una leva assai resistente, un incarico molto delicato che richiedeva una preparazione ad hoc. Mi domando se oggi sia lo stesso, ma immagino di sì almeno nelle grandi aziende. Comunque me lo auguro).
Di fatto lui la sua pensione se l'è guadagnata, cosa che, come ha considerato a un certo punto del suo monologo durante il quale mi sono limitata ad annuire di approvazione, non accade ai giovani. Con il lavoro così spezzettato e insicuro, mi ha spiegato con linguaggio semplice, è difficile pure comprarsi da mangiare. E se non si mangia come si fa?
Già, come si fa?
Si tenta la sorte, sperando che la fortuna prima o poi arrida, cambiando Paese, come facevano non solo gli italiani, ma anche inglesi, scozzesi e irlandesi non so bene in quale periodo storico, nella canzone sopra linkata di Mark Knopfler. A citarmela, è stato ovviamente Sfaccendato, che conosce a menadito tutto lo straordinario repertorio di un musicista di rara classe come l'ex leader dei Dire Straits. Ma la canzone è molto nota anche a me, visto il grandissimo numero di volte in cui l'ho ascoltata.
Nel testo si parla per l'appunto di Germania e di un gruppo di immigrati che dopo il lavoro immerso nel rumore, nella polvere e nel sudore, passa la serata come può, se possibile in compagnia della propria "pretty fraulein".
In pochi versi, il grande Mark affresca la vita dell'immigrato per antonomasia, uguale in tutti i tempi e origini nazionali. Meglio di un reportage, meglio di un'indagine storico-sociale.
Non so se ancora oggi in Germania ti vengano a cercare sulla strada (qualcosa mi dice che non sia più così), ma gli aneddoti raccolti in questi giorni sembrano elargire l'ennesimo messaggio subliminale a intraprendere la via dell'espatrio prima che sia troppo tardi.
Non parlo tanto per noi Sfaccendati, che abbiamo già una certa età e vari impedimenti; penso piuttosto ai giovani citati dal gentile vecchietto e ai ventenni nominati da mio padre in auto giusto ieri. Chi non ha famiglie, figli (o gatti: non si adattano mica così facilmente ai cambiamenti le simpatiche creature) o vincoli d'altra natura fa bene a mollare l'Italia al suo destino.
E pazienza se sarò annoverata anch'io tra i piagnoni tricolore, però, francamente, finché non vedrò uno straccio di segnale di rivalsa morale (ma ci accorgiamo di quello che sta succedendo in Grecia?), finché avremo casi Fiorito-Maruccio-Trota-etc etc, nessuno mi toglierà dalla mente una visione più che mai fosca della terra che mi ha dato i natali.
Vi ho depresso? Ascoltate il brano di Mark e vi tornerà l'energia.
Why Aye Man, amici.