lunedì 24 febbraio 2014

Renzi, la scuola e il futuro dei Millennials

Foto di Maria, studentessa dell'Istituto comprensivo di Petritoli (Fermo)

Giusto a metà del suo discorso al Senato, Matteo Renzi ha parlato di scuola, lanciando una promessa: la prima meta del suo prossimo viaggio per l'Italia in qualità di Presidente del Consiglio (ma già pensa a ripartire?) sarà proprio in uno dei troppi istituti scolastici in affanno. Speriamo che sia vero, non tanto il tour promozionale, quanto l'esito che dovrebbe scaturirne, ossia lo sblocco dei fondi destinati alla ristrutturazione delle nostre scuole statali, da sempre ospitate in stabili fatiscenti e/o nuovi, ma realizzati con materiali talmente scadenti da apparire vetusti già all'indomani della loro inaugurazione.

L'augurio di buon lavoro al neopremier, classe '75, quattro anni meno di me, è d'obbligo. E anche se mi sto arrendendo, giorno dopo giorno, a uno scetticismo sempre più distaccato dai mali del presente, credo davvero, in cuor mio, che il ricambio generazionale stia davvero avvenendo.
Mi dispiace per chi rosica, anche tra i quarantenni come me, ma, sinceramente, era ora.

I nuovi gggiovani, d'altra parte, non sono tutti "ciucci e presuntuosi", secondo la definizione che aveva carinamente affibbiato alla generazione alla quale apparteniamo sia io che Renzi (anche se lo odio per essere tanto meno vecchio di me) la mia prof di matematica. La stessa che, che la sua anima riposi in pace, mi fece venire un complesso più grosso delle mie muscolose gambe dicendomi davanti a tutti che dovevo mettermi a dieta.

E' questo uno dei motivi per cui non ho un bel ricordo delle scuole medie. Tra gli altri, la sensazione che nutrivo allora (e dalla quale, temo, non mi sono liberata del tutto) di essere ancora incompleta, preda com'ero delle normali pulsioni ormonali della crescita.

Di recente, però, ho cambiato radicalmente idea su questo periodo della vita.
Il merito va tutto ai ragazzini dell'Istituto comprensivo di Petritoli, uno dei tanti paesi-presepe della provincia di Fermo che costellano i colli di quest'angolo delle Marche.

Molti di loro, probabilmente, sarebbero stati descritti dalla mia prof in modo molto simile, ma per fortuna il ricambio generazionale sta attraversando anche il corpo docente (anzi: è arrivato prima lì che in Parlamento, se vogliamo dirla tutta).

E' infatti grazie alla nuova generazione di docenti (accanto a un'illuminata quanto ristretta fetta di prof di più lunga e comprovata esperienza, che comunque era ancora giovane ai tempi delle medie mie e di Renzi) se in questa piccola scuola è nata, tra il primo e il secondo quadrimestre, la "Settimana integrativa", durante la quale i ragazzi hanno la possibilità di cimentarsi in discipline diverse dalle pur importanti materie previste nei programmi ministeriali.

Suddivise in moduli di due ore ciascuno, le attività extra che si sono svolte durante questa settimana sono aumentate anno dopo anno, come hanno raccontato i ragazzini stessi nel loro bellissimo Tg, che purtroppo non posso diffondere per motivi di privacy.

In molti casi, si è puntato sulla stimolazione della loro creatività attraverso l'uso delle mani: sono rimasta davvero incantata dagli oggetti in peltro, dalle incisioni, gli origami e gli aquiloni che alla fine della settimana hanno anche messo in vendita, destinando una parte del ricavato alla beneficenza.
Ho particolarmente gradito, poi, le lampade del laboratorio chiamato "Riciclo e riuso", frutto della nuova vita data alle vaschette per la ricotta.

Ho trovato inoltre molto poetico ascoltare le canzoni composte dai ragazzi sulle note di una musica di loro stessa ideazione, nel laboratorio condotto dal prof di musica, uno di quelli che mi ha parlato non bene dell'istituzione scuola, ma molto bene dei ragazzi, capaci di tirare fuori cose straordinarie se adeguatamente motivati.

Personalmente, ho potuto verificare quanto avesse ragione nei due laboratori nei quali ho dato il mio contributo, soprattutto perché, in fondo, io non ci ho messo quasi nulla di mio: i protagonisti assoluti di pressoché tutte le trovate escogitate durante quelle straordinarie giornate sono stati loro.

Anche se per poco tempo, ho così avuto l'occasione di conoscere un po' più da vicino alcuni esemplari di "Millennials", come vengono chiamati i ragazzi nati dopo il 2000 con una definizione che è già uno slogan spesso usato in accezione negativa.

Non avendo figli, ma solo due nipoti di qualche anno più giovani di questi ragazzi nati in contemporanea con l'esplosione di Google, non ne sapevo (e in fondo ancora adesso non ne so) un accidente.

Però quel che ho visto non mi è parso affatto male.
Ho provato enorme tenerezza e anche entusiasmo per queste pietre grezze che vanno forgiandosi, per queste vite ancora aperte a tutto, per la dolcezza e anche la teppaglia di alcuni più furbetti ma stringi stringi ancora bambini.

Se fossi una vera prof, ho paura che non riuscirei a trattarli con la giusta severità. Ma chissà. Forse diventerei più antipatica della prof di matematica, che in verità antipatica non era affatto, solo un po' rude.

Di sicuro è un'età delicata, bisognosa più che mai di guide valide.
Se sapessero quanta fatica facciamo noi adulti a mostrarci all'altezza delle loro aspettative... ma forse lo sanno ed è anche per questo che, spesso, non ci sentono abbastanza autorevoli.

Del resto, come possono degli adulti condannati a un'adolescenza infinita da una società sempre più demenziale porsi come modelli?

Butto la domanda, dal mio piccolissimo spazio, al "giovane" Renzi, quello che sa usare Twitter sicuramente meglio di me, che conosce i programmi tv e le musiche dei Millennials più di quanto io mai potrò fare visto che ha pure dei figli, che, furbamente, ha parlato proprio di scuola per accattivarsi la fiducia dei molti giovani genitori che lo circondano, per fortuna anche nelle stanze dei bottoni.

Se c'è un salto da fare, mister Fonzie, è proprio questo: dimostriamo di essere diventati grandi. Cioè a dire: usiamo pure i social, il tablet e hasthagghiamo pure i pranzi della domenica e i gol dei viola, ma per piacere, comportiamoci da adulti quando serve dicendo anche qualche no.

Il primo no forte e chiaro che vorrei sentire è al perpetuarsi dei poteri forti, sempre quelli, di generazione in generazione. Il che vuol dire un sacco di cose, per esempio basta con il cemento, sì alla riconversione delle produzioni inquinanti in attività il più possibile "green", sì alle competenze e no ai nepotismi, sì alla multiculturalità e no alla finta integrazione, sì a più incentivi a chi lavora con la cultura e con un turismo a misura d'uomo (ma di più d'anziano, donna, bambino e pure animale domestico).
Sì all'Europa degli scambi umani e non solo di merci. Perseguimento non solo a parole ma vero e concreto dell'evasione fiscale (ci vorrebbe Giorgio Bracardi e il suo "in galera!").
etc etc....

Solo se saprai fare questo e io voglio darti fiducia, per una volta, forzandomi a non restare solo apparentemente Zen, mi sentirò appena appena meno inquieta.
Non tanto per me, che forse ho già fatto il mio tempo, quanto per questi ragazzi con i visi di latte e l'energia della vita.

Una vita che dovrebbe essere felice. Il più possibile.
Ce la farai?
Speriamo.
Anzi: #speriamo.

venerdì 21 febbraio 2014

Dewey il gatto e le biblioteche pubbliche, calore e cultura garantiti!


 
 
Il video che pubblico sopra è in inglese senza sottotitoli, ma penso se ne capisca ugualmente lo spirito. Soprattutto, è impossibile non essere attratti da quella macchia di pelo rossa e dall'inconfondibile suono delle sue fusa, in braccio a un'impiegata della libreria comunale di Spencer, una cittadina dell'Iowa diventata celebre nel mondo proprio per aver ospitato, da una fredda notte di fine novembre 1987 fino a una altrettanto triste giornata di fine 2006, l'indimenticabile Dewey Readmore Books.
 
L'altisonante nome scelto per battezzare il micino lasciato da qualche ignoto nella buca di restituzione dei libri che vedrete a un certo punto nel video si adattava perfettamente alla sua personalità.
 
Pur essendo un enne enne senza pedigree, Dewey aveva infatti qualcosa di nobile e delicato che non poteva che conquistare.
Devo però farvi una confessione: se non mi avesse parlato di lui Natalia Tizi, una delle preziose impiegate della Biblioteca comunale Romolo Spezioli di Fermo, probabilmente non avrei mai conosciuto la sua storia.
 
C'è qualcosa, infatti, che mi trattiene dal comprare i libri sugli animali, sui gatti in particolare, i miei preferiti in assoluto. Ossia il timore che possano essere trattati solo come fenomeno commerciale.
 
Detto da una che si è autoprodotta un libro fotografico sui propri gatti sembrerà un controsenso, però non posso farci nulla: prima di avvicinarmi a un libro incentrato sui magnifici felini in miniatura, debbo sentirmi sicura della sincerità di chi l'ha scritto.
 
Così, quando ho cominciato a leggere la vera storia del gatto da biblioteca a stelle e strisce, ero un pochino titubante.
Sono bastate, credo, una decina di pagine per ricredermi totalmente.
Si vede che Vicki Myron, la direttrice della biblioteca di Spencer che ha affidato le sue memorie a un bravo scrittore, era innamoratissima del "suo" Dewey.
Oltretutto, le vicende che lo riguardano sono intelligentemente inserite nella storia della cittadina dell'Iowa, passata attraverso una grave crisi economica, anticipatrice, ahimè, dei grandi cambiamenti sociali che oggi stanno interessando tutto il mondo.
 
Dewey è stato, inoltre, un vero e proprio porto di pelo al quale la bibliotecaria tornava con infinito sollievo dopo le molte traversie anche fisiche da lei vissute.
E anche se, come ogni tanto l'autrice accenna nel libro, non tutti lo hanno amato allo stesso modo, non c'è stato giorno della vita di questo gattone rosso che sia passato nell'indifferenza e nell'anonimato.
 
Del resto tutti i gatti si fanno notare, anche da chi li teme.
E Dewey, a leggerne le memorie, era perfettamente consapevole di chi fossero i suoi amici e i suoi nemici... per esempio il veterinario!
Di certo non ne avevano paura i bambini che lo vedevano comparire da un momento all'altro durante l'ora della lettura delle favole, né la maggior parte degli anziani, che ne apprezzavano la riscaldante energia anti-stress.
 
Dewey è vissuto quasi vent'anni e questo, in qualche modo, mi consola.
 
Ho perso tre gatti nella mia vita e so che lasciano un vuoto incredibile.
Certo, ogni volta che arriva un cucciolo, si ricomincia daccapo ed è davvero sorprendente accorgersi di quanto ogni gatto sia completamente diverso dall'altro.
 
Però, proprio per questa ragione, la mancanza di quelli che sono tornati nell'empireo felino, non è facile da colmare. Durante i mercatini estivi, per dire, più di una persona che si è fermata a sfogliare il mio libro, poi non l'ha preso rivelandomi di essere ancora lutto.
La stessa Vicki Myron ha finito per andare in pensione non molto tempo dopo la scomparsa del gattone rosso.
 
Per fortuna, però, qualunque sia l'esperienza personale di ciascuno, i ricordi restano.
Ed è esattamente a questo scopo che, venendo a me, ho realizzato il mio Che gatti: per suggellare la nascita di una nuova amicizia, spero, tra noi bipedi e loro quattrozampe, che, come ho scritto di recente su Minime Storie, sto ancora imparando a decifrare.
 
Approfitto infine ancora di Dewey e del bel libro che la sua "mamma" americana ha voluto dedicargli per sottolineare l'importanza delle biblioteche pubbliche nelle comunità locali.
Leggendo la sua storia, non ho potuto infatti fare a meno di pensare al clima di grande calore umano e di straordinaria professionalità che si respira in ogni angolo della Romolo Spezioli, la biblioteca di Fermo che ho avuto l'onore di conoscere un po' più a fondo grazie a Storie da biblioteca, il concorso di scrittura e fotografia promosso dalla sede marchigiana dell'Associazione italiana biblioteche e dall'associazione Racconti di città.
 
Giusto ieri sera c'è stata la piacevolissima serata di premiazione, dalla quale sono tornata con un libro in dono, assai affascinante già dal titolo: La vita non è in ordine alfabetico di Andrea Bajani.
 
Grazie ancora per tutto.
E... se posso permettermi di darvi un suggerimento: prendete anche voi un vostro gatto da biblioteca! Potreste chiamarlo Spezia o Romolo... Che ne dite?
;-)


sabato 15 febbraio 2014

Chi espone e chi dispone, ovvero Il segreto del tempo


Troppe cose da fare, alcune belle, alcune meno.
La foto che vedete sopra è stata scattata a Ostra Vetere, poco prima che ci buttassimo ad allestire per la seconda volta la mostra già portata a Intanto, lo spazio collettivo degli artisti che si è tenuto durante il periodo natalizio a Fermo per la quarta edizione.
Non sto parlando con il plurale maiestatis, bensì della mia amica Maria Loreta Pagnani, che a Ostra Vetere abita.
 
Non ho tempo di scendere nei dettagli, ma vi dico solo che alla fine dei tre giorni (due e mezzo, va) di Festa della Merla, scenario della nostra esposizione, quel manifesto che qui vedete arrotolato non c'era più.
 
Per la mia intelligente e sensibile compagna di viaggio (metaforico, ma in qualche modo anche reale: Maria Loreta è sempre in movimento, come me), il furto è stato un segno del destino, positivo. Per qualcuno che era con lei (al momento della sottrazione indebita io non c'ero già più), invece, semplicemente il manifesto rubato è servito a coprire qualche testa sguarnita d'ombrello.
 
Anche se fosse così, fa niente: il segreto del tempo si esplica anche così.
C'è chi espone e chi dispone. Anche degli oggetti altrui.
Detto ciò, vi lascio.
 
Mia mamma mi parla mentre scrivo e io non so sicura di che cosa sto digitando.
Fa parte anche questo, però, del segreto del tempo.
Se volete sapere di che cosa sto parlando, andate su Minime Storie.
E capirete.
Forse.

lunedì 27 gennaio 2014

Giglio rosso, cuore grosso, un altro esercizio di Minuti scritti



Non ho molto tempo (sto aspettando una telefonata importante), ma approfitto dell'attesa per parlare per l'ultima volta (lo giuro) di Minuti scritti, lo stimolante libro di Anna Maria Testa che ho finito di leggere sabato scorso.

Leggere non è il verbo adatto, perché in realtà volevo dire che ho terminato tutti i compiti contenuti nel manuale della pubblicitaria milanese, ma non ho seguito proprio adesso uno dei consigli più importanti dalla medesima elargiti, ossia rileggere per bene ciò che si è scritto tagliando il superfluo.
Ma in questo caso, non fa niente: come si dice, solo chi fa sbaglia.

E io ho sbagliato parecchio durante la lettura ragionata dei suoi esercizi, che la Testa fa seguire da un capitolo conclusivo dedicato a tirar le fila di un ragionamento condotto con la grazia elegante di una chiacchierata brillante, di quelle che ti squarciano la tua, di testa (e, a proposito, giusto a me che sono fissata con il motto nomen omen, doveva capitarmi di imbattermi in una persona con un cognome così. Un bel cranio, il suo, non c'è che dire).
Tornando a bomba, mi limito a riportare qui l'esercizio che mi è venuto meglio (per quello peggiore, invece, bisogna che ci rifletta un altro po'...), precisando che non so proprio da dove sia saltato fuori.

O meglio: ho capito ancora una volta che la mia scrittura analogica, ossia quella sollecitata ad arte dal prezioso manuale, si attacca alle suggestioni dell'ultim'ora in una maniera quasi scientifica.
Se avessi avuto più tempo, cioè, non credo che avrei svolto l'esercizio intitolato "Storie per strada, tempo richiesto 15 minuti + una passeggiata", nel modo che vedrete.

Come base di partenza avevo solo una targa d'auto, dalla quale dovevo estrarre le prime due lettere o le ultime due, che mi avrebbero dato le iniziali di una persona e di un motto (Anna Maria aggiunge anche "una caratteristica o un fatto saliente") e il sesso della persona, maschio se l'auto era scura, femmina se chiara.
E la passeggiata? Beh, non l'ho fatta, semplicemente perché in quel momento pioveva assai e non mi andava, ma nel libro erano riportate una serie di targhe, l'ultima delle quali è diventata la mia, almeno per i quindici minuti successivi.

Eccovi qua l'esercizio:

GIGLIO ROSSO, CUORE GROSSO
 
Giglio rosso, cuore grosso. La prima volta che l’aveva sentito dire avrà avuto quattro anni. Da allora non l’aveva più dimenticato. E dire che di anni ne erano passati ben 71. Giorgio non riusciva a crederci. Nella sua famiglia era, allo stato attuale, il più vecchio. Noi Rapisardi siamo sempre stati debolucci, me lo diceva sempre mia madre. Però lui era nato sotto una buona stella, sempre a sentir lei. Un maggio così tiepido non si era mai visto, gli raccontava, tenendolo sulle ginocchia. “Sei nato in un pomeriggio talmente caldo e limpido che sembrava già fine giugno”, gli diceva cullandolo.
Giorgio adorava la voce di sua madre, un po’ sgranata e quasi maschile. Non sarebbe mai sceso dalle sue ginocchia, in particolare quel giorno che gli parlò, per la prima volta, del giglio rosso che improvvisamente era spuntato, tra i soliti bianchi. Stava per partorire, aveva appena rotto le acque.
“Tuo padre era bellissimo, ci parlavamo a gesti, sai? Solo molto dopo ho imparato la sua lingua. Gli dissi che ero incinta, un giorno prima che salpasse. Dovevi vedere com’era contento, gli vennero le lacrime agli occhi, lui che era sempre così calmo. Tornò con un sacchetto di semi e mi fece capire che dovevo piantarli subito, così non l’avrei dimenticato. Ma come potevo dimenticarlo, tesoro mio? Mi aveva dato te, mai sarebbe successo. Nel sacchetto c’era anche un biglietto, che all’epoca non riuscivo a leggere bene. Avevo solo la terza elementare, lo sai, e all’epoca chi ci pensava alla scuola?”.

Guardò fuori dalla finestra, c’era un bel sole, chissà se era lo stesso di tanti anni prima. Fu allora che vide la macchia rossa, nel mare di bianco. Forse sua madre aveva ragione. Sarebbe vissuto ancora a lungo.

Dall’altra parte dell’Oceano Martin Red si lasciò uscire una lacrima, mentre l’infermiera gli misurava il battito. “Complimenti, Mister Red, il suo cuore è ancora in forma. Mi dice qual è il suo segreto?”.

Martin sorrise e si lasciò sfuggire come per caso: “Giglio rosso, cuore grosso… Buon compleanno, figlio mio”.
 
Non sarà un capolavoro (ma figuriamoci), però mi piaceva pubblicarlo oggi. La Shoah non c'entra (o forse un pochino c'entra), ma la memoria collettiva e personale sì.

Ho ricevuto la telefonata che aspettavo. Vorrei tanto che quel motto fosse vero.

martedì 21 gennaio 2014

Margherita Hack e il segreto del matrimonio, in un esercizio di scrittura




Chissà chi è l'autore di questa bellissima fotografia di Margherita Hack, gli occhi celesti più vivaci che io abbia mai visto, che le regalavano, almeno in età avanzata, uno sguardo molto simile a quello che aveva la mia nonna paterna. In comune tra loro, c'è anche l'anno della scomparsa, ancora troppo recente per poter essere completamente metabolizzata.

Mi accorgo, tra l'altro, proprio adesso, mentre scrivo, di aver già scovato un'altra analogia tra una grande donna della letteratura come Doris Lessing e la madre di mio padre, poco scolarizzata ma dotata di un'intelligenza ricca di buon senso veramente fuori dal comune esattamente come queste due signore immortali per la storia dell'umanità. Qualcosa mi dice che si sarebbero state simpatiche se si fossero conosciute. Ignoro, tra l'altro, se non sia davvero capitato, almeno a Margherita e Doris, di conoscersi personalmente.

In tutti i modi, mio padre mi ha passato il libro ricevuto in regalo a Natale Italia sì, Italia no, considerato il testamento spirituale dell'astrofisica fiorentina, amante delle stelle e degli animali. Ricordo di essere stata accolta al telefono, durante l'intervista che ho avuto la fortuna di farle, dall'abbaiare del suo cane. Dimenticai di chiederle come si chiamasse, probabilmente perché intimidita dalla consapevolezza di avere all'altro capo dell'apparecchio questa grande azzurra signora.

Non so perché, anzi forse lo so, ma ho parlato di lei e del suo compagno di vita Aldo nell'esercizio che ho tratto da Minuti scritti, il prezioso libro di Anna Maria Testa, che ho comprato per prepararmi a un possibile imminente lavoro.
Osservando la foto dei due anziani che si baciano in una strada deserta di città, mi è tornata in mente la frase scritta dalla Hack a proposito del suo matrimonio, durato sessant'anni grazie all'amicizia straordinaria e alla complicità tra lei e il suo uomo, due elementi che sembrano così difficili da reperire nei rapporti della contemporaneità.

Avevo, certo, solo venti minuti di tempo per buttare giù un testo che fosse collegato a una delle quattro immagini selezionate dalla pubblicitaria milanese dotata di grande mestiere e sensibilità, ma tra tante storie, o abbozzi di queste ultime, la mia psiche è andata a ripescare proprio quella frase, letta pochi giorni fa, ma rimasta scolpita in me assai più dei brani del libro decisamente più significativi per il futuro della nostra patria, che Margherita ha finito per dettare dal suo letto d'ospedale, due giorni prima della morte.

Ve lo ripropongo qui sotto, non perché sia un capolavoro letterario, ma soltanto per la sincerità con cui l'ho buttato giù.


Margherita e Aldo si sono amati e rispettati per sessant’anni. Dieci volte sei. Ci pensate? Non so dire se si scambiassero anche effusioni in pubblico come i due anziani nella fotografia. Una fotografia che, tra parentesi, trovo un tantino scontata. Sì, sorridono mentre le loro bocche si toccano proprio lì, in mezzo al marciapiede di una cittadina forse americana o forse nordeuropea. Però è talmente chiaro che siano consapevoli della presenza del fotografo. Magari li ha voluti ritrarre così una nipote (sì: è ancora tipico delle donne cedere a sdolcinatezze così), il che me li rende più simpatici. E tuttavia non so: scambiarsi baci in pubblico non è mai stato il mio forte neanche quando avevo vent’anni, non so dire che cosa farò alla loro età, ma qualcosa mi dice che preferirei evitare prove materiali dell’eventuale passione tardiva.

Non che non desideri, come qualsiasi ex bambina sopra i 40, di amare ed essere amata tutta la vita dal mio uomo. In generale, l’amore è un grande miracolo dell’esistenza: non vedo perché negarselo in età avanzata. Posso ben dirlo io che ho scritto per anni di anziani. L’esperienza lavorativa, anzi, mi ha aiutato a interrogarmi molto più di quanto non abbia mai fatto prima sul senso dell’esistere.

Sul tempo, le stagioni, la malattia, la morte. Sì. Anche quella. Sono sicura che Margherita avrebbe continuato a scegliere il suo Aldo mille altri giorni ancora se la falce non l’avesse recisa. Certo, campare fino a oltre novant’anni sembra un intervallo ragguardevole tra il  nulla che precede e quello che probabilmente segue. Eppure, sono certa che per una donna come lei, con un’energia straordinaria come la sua, il pensiero di non esserci più non dovesse aggradarle poi molto. Chissà che cosa sta facendo il suo Aldo adesso. Le parlerà guardando le fotografie, sfogliando i suoi libri? Mi è appena venuto in mente il personaggio di Pereira, il bel libro di Antonio Tabucchi interpretato da un invecchiato ma sempre immenso Marcello Mastroianni. Proprio Pereira, tutta la vita passivo e schivo, rimasto legato troppo a lungo al ricordo della moglie scomparsa, alla fine capisce che è arrivata l’ora di battersi per un ideale maggiore. Per l’umanità. Per il futuro. Tutti dobbiamo scomparire e per chi non crede nell’aldilà morire è una vera iattura, a meno di non essersi condannati anzitempo alla morte interiore. A meno di non essere così disgustati da questo sangue che ci pulsa in corpo da preferire la polvere e la terra al frusciare degli alberi e il rullar del mare.

Insomma. Ben vengano anche le foto in strada, in posa o meno, se servono di esempio a chi dubita di avere ancora qualche carta da giocare, fosse anche a 80, 90, cento e passa anni.

Perciò grazie, Margherita, per quel che hai fatto per tutti noi e per il tuo amore per Aldo, che sicuramente non ti dimenticherà mai.

Che cos'altro aggiungere?
Solo che bisogna darsi da fare. Soprattutto se si è donne e si vive in Italia. Se poi si ha la fortuna di incontrare un uomo che ci sa stare affianco, meglio, ma nessuno può dotarti di una forza che non hai.
Ricordiamocelo sempre.

martedì 14 gennaio 2014

Ninotchka e il fascino del cinema senza tempo


 
Credo di averne già parlato da qualche parte. Se l'ho fatto, beh, scusatemi (siete così pochi a seguirmi che se ne ho parlato, ve ne sarete sicuramente accorti).
In tutti i modi, ieri ho visto per la prima volta sul grande schermo Ninotchka, uno dei miei film maggiormente amati. Non so in effetti scegliere tra la pellicola passata alla storia per "la Garbo che ride" o l'altra, altrettanto perfetta, di Ernst Lubitsch che cito spesso senza quasi accorgermene. Sto parlando di "Scrivimi fermo posta", in inglese, più appropriatamente, The shop around the corner (il negozio dietro l'angolo, per i pochi non anglofoni rimasti).
 
Non ho quasi mai letto i sottotitoli in italiano, ma devo precisare che la perizia linguistica appena rivendicata in verità è stata di gran lunga sostenuta dal fatto che conosco il film a memoria, praticamente.
Anzi: lo conosco talmente bene che mi sono accorta persino degli errori nei sottotitoli che ogni tanto ho sbirciato (quando parlava la "granduchess Swana", per dire, non capivo quasi una mazza. Perdonatemi l'italianismo non troppo educato).
 
Capisco che la lingua si evolva e che debba adattarsi ai mutamenti dei costumi, però, per farvi un solo esempio, era proprio necessario sostituire la più musicale e francese parola "verve" con finezza, che non è proprio la stessa cosa?  
 
Mi riferisco a quando la granduchessa Swana incontra Ninotchka e Leon insieme e attacca a parlare a macchinetta (ed è lì che non ho capito assai) del cagnolino che lui le ha regalato.
A un certo punto si rivolge alla bella bolscevica scusandosi falsamente di fare discorsi che lei non può sicuramente capire. Ninotchka, invece, ricambiandola di altrettanto falsa cortesia, la rassicura: ha capito proprio tutto.
Allora Swana, teatralmente, sospira: "Oh mio dio, sto perdendo la mia verve". Così nel doppiaggio degli anni Quaranta (o Cinquanta, non più tardi, comunque), che mi ha da sempre conquistato.
 
La voce della Garbo era infatti affidata ad Andreina Pagnani, che ho imparato a conoscere puntata dopo puntata nei Maigret con Gino Cervi, per aver interpretato la fedele moglie Louise.
Una voce bellissima, dolce e profonda insieme. Il mio ideale di voce femminile.
 
E insomma. Le voci autentiche di Greta e Melvin (Douglas) sono altrettanto affascinanti e mi hanno fatto letteralmente impazzire nelle scene successive al teso incontro con la granduchessa, quando, ubriachi, fanno ritorno in hotel.
Che recitazione, accidenti.
 
Prima del film, che ho visto (a proposito) alla Sala degli Artisti di Fermo, che ha organizzato un cineforum lungo un anno intero con le pellicole presentate all'ultima Rassegna di Bologna nota come "Il Cinema Ritrovato", ho scoperto, ascoltando l'introduzione, che l'attrice di origine svedese smise di recitare due anni dopo Ninotchka per via del flop subito dal film successivo. 
 
Chissà se non c'erano anche altre ragioni, considerato tra l'altro che in molti Paesi la pellicola, uscita nel 1939, venne vista solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, come è stato specificato sempre prima della proiezione.
 
Magari era stanca, magari una diva abituata a stare sulla ribalta per molti anni finisce per non sopportare neanche il più piccolo stop. In fondo, succede anche oggi. Soltanto che di stelle così non ce ne sono poi molte.
Non voglio fare la passatista, eh, però capolavori così moderni e insieme senza tempo non nascono tutti i giorni.
 
Vi lascio con la scena dell'incontro tra il sergente Yacushova e il borghese Leon sul marciapiede parigino: ho ritrovato il suono dei clacson in un brano di Jelly Roll Morton chiamato Sidewalk Blues. Quest'ultimo, a sua volta, mi ha fatto troppo pensare al kazoo di Paolo Conte, che ama moltissimo il Jazz degli anni Venti e Trenta (e si sente tanto nella sua musica). Non potete immaginare che soddisfazione mi dia fare questo tipo di collegamenti: per trovarne altri, probabilmente, mi ci vorrà tutta la vita.
 
E meno male.
Prima di lasciarvi al video, aggiungo un'ultima preghiera: se potete, andate a vedere Ninotchka e altri film così grandi al cinema.
Avrete anche dei tv iper-ultra tecnogici, ma le luci che si smorzano in sala e persino i colpi di tosse dei vicini (e qualche dannatissimo cellulare che ogni tanto squilla ancora: ma li mortacci...), vi regaleranno tutt'un'altra profondità. Buona visione!
 
 
 

 
 

martedì 7 gennaio 2014

Fermo di Sualzo, la vita oltre il panico



Natale 2013: davvero memorabile.
Sono, siamo, stati bene e oltretutto, nonostante il gran casino prodotto dalla festosa presenza dei nipoti, sono pure riuscita a leggere un po'.
Fermo, il libro a fumetti che vedete sopra, mi è stato regalato da mia sorella (e relativo coniuge), inizialmente attratta, com'è facilmente intuibile, dal titolo. Prima di incartarlo, però, l'ha letto, persuadendosi ancora di più che potesse essere adatto a me. E infatti aveva ragione.

"Fermo" è esattamente quel che era per me prima di venire ad abitare nell'omonimo sostantivo nome del piccolo comune marchigiano distante pochi chilometri dal mare Adriatico.
Fermo è stato, per un anno intero, il protagonista della storia scritta da Sualzo, pseudonimo di Antonio Vincenti, che si descrive sul risvolto della quarta come "sassofonista mancato e disegnatore autodidatta, interessato alle cose del mondo".

Come ho già sottolineato in altri post, io non so disegnare, ma adoro le storie disegnate, in generale mi interesso alle cose del mondo e sono abbastanza un'autodidatta di quasi tutto quel che mi capita a tiro. Questo solo per dire che non sono in grado di dirvi se il tratto usato dall'autore di Fermo sia o meno buono.
Di certo è il sincero specchio di una visione del mondo malinconica e insieme ironica quanto basta.

Sebastiano, questo il nome del protagonista della storia, resta "fermo" a Bibbiena per oltre un anno per svolgere il Servizio civile. L'anno dopo, racconta all'inizio, la leva obbligatoria sarebbe stata abolita, ma essendo lui uno studente bloccato a un tot di esami dalla laurea, sceglie di fare l'obiettore come una sorta di male minore, convinto che l'avrebbero spedito in qualche deserta biblioteca a pochi minuti da casa.
E invece la destinazione che gli assegnano è parecchio lontana, non solo geograficamente.

Proprio a lui, che soffre di attacchi di panico da quando aveva sedici anni, tocca di occuparsi di malati, psichici e fisici. Il suo compito, a dire il vero, non è poi così difficile: come gli spiega l'impiegata comunale che segue i ragazzi del Servizio civile, basterà che faccia loro un po' di compagnia, per dare ai familiari la possibilità di prendersi qualche ora di libertà. Se poi fosse riuscito anche a provare anche dell'affetto, beh, sarebbe stato ancora meglio. Ma non indispensabile.

Sebastiano è però di quel genere di persone che sanno entrare in empatia con gli altri, lo si capisce pagina dopo pagina, striscia dopo striscia.
E d'altra parte dubito che un'esperienza del genere non lasci traccia alcuna, anche sulle scorze più dure.
Il rischio di cadere nella retorica c'era, insomma, ed è proprio per questo che ho particolarmente apprezzato il tono sensibile ma non buonista adottato da Sualzo anche nella descrizione della tragedia, in fondo da tutti aspettata (anche da chi legge), che a un certo punto interviene nella storia.

Allo stesso modo, ho trovato molto felice la titolazione dei capitoli, rubata qui e là da canzoni (una scelta piuttosto obbligata per un musicista come l'autore) e i brani poetici riportati in fondo alla pagina di apertura di ciascuno di loro.
L'ultimo mi si è conficcato quasi sotto la pelle. E' una poesia (credo intera, ma non ne sono certa) di J. Twardowski, un autore che non avevo mai sentito nominare (e scusate l'ignoranza). S'intitola Contro di te e dice:

Prega per quello che non vuoi affatto
di cui hai paura come uno scoiattolo della pioggia
da cui fuggi come un'oca sempre più lontano
e tremi come in un soprabito senza imbottitura d'inverno
da cui ti difendi con tutte e due le mascelle

inizia finalmente a pregare contro di te
per ciò che è più grande e viene da solo.

Non credo di essere capace (anzi ne sono sicura: non lo so fare) di pregare contro di me, ma so che cosa significa pregare perché quella crisi arrivi, prima o poi. Perché una volta che è arrivata, così come è arrivata, poi passa.

Se non ho male interpretato il finale del libro, Sebastiano e il suo alter-ego Sualzo superano definitivamente gli attacchi di panico proprio dopo l'anno di "fermo" a Bibbiena. Se così non fosse, non importa: con il panico, o qualunque altro demone alberghi nei nostri cuori, si può convivere. Certo che si può.

L'importante è imparare a non fuggire, ma a starci, dentro i nostri demoni, dentro i nostri fermi interiori.
E' forse questo il segreto della vita?
Penso di sì, ma non ho la pretesa di dettare ricette universali.
Come penso non ce l'abbia neanche Sualzo, che è stato davvero molto bravo nel mescolare la realtà e la fiction, come solo i grandi tessitori di storie sanno fare.

E adesso l'anno nuovo può finalmente cominciare.
Demoni miei, vi aspetto al varco.